Il piatto
Leggevo poco tempo fa un ragionamento che si può riassumere così: “Dimmi come mangi e ti dirò chi sei”. In effetti i modi di approcciarsi al piatto che si ha davanti possono essere diversi. Io, ad esempio, preferisco dividere i vari sapori e demolire la pietanza lasciando l’elemento (o gli elementi) più gustosi alla fine. Lì dove leggevo quel ragionamento, il mio modo di fare era presentato come positivo infatti, mentre la fame rende più gustosi i primi bocconi, il confronto con gli ultimi ne amplifica il buon sapore. In conclusione non si scarta nulla del piatto che si ha di fronte.
Conosco però una persona che mangia, secondo me, ad un livello superiore rispetto a quello appena descritto. Io divido le pietanze, lei le mescola. Invece di classificare i sapori in “più buoni”, “buoni”, “meno buoni” e “cattivi” sperimenta intrecci, fusioni, perfino collaborazioni. Nel suo caso non è detto che un sapore cattivo o meno buono non possa collaborare a rendere il piatto ancora più delizioso. In fondo, se la persona che lascia per ultime le cose buone è elogiata perché non butta via niente, lei fa di più: non cerca soltanto di evitare il rifiuto di ciò che è negativo, ma potenzia la resa totale del piatto facendo uso di tutte le sue parti.
È vero, la vita è come una pietanza che ci viene messa davanti e chi riesce a non tagliarne fuori nulla vivendo senza ideologie è meritevole però è anche vero che non possiamo scegliere di mettere la parte brutta della vita all’inizio e quella bella alla fine. È fatta così: una mescolanza di alti e bassi, di cadute e ascese, di vizi e virtù. Riuscire a farne qualcosa di globalmente significativo sfruttando tutto, facendo convergere anche la nostra miseria in una ricchezza, è ben più che viverne la parte bella tollerando quella brutta.
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