Storie di sacchetti e di scatole

Verso le sei del pomeriggio arriva una donna esile, quasi tremolante, dai movimenti lenti e ponderati come se ogni azione significasse un enorme sforzo per l’organismo. Sulla testa un foulard dal quale non sporgeva neanche un capello, anzi, era indossato in quel modo tipico di chi vuole nascondere la traccia più evidente della sua terribile malattia.
Si avvicina spingendo il carrello quasi vuoto. Nella tremolante mano destra un sacchetto giallo annodato. Lo allunga verso il volontario; prende il biglietto di ringraziamento e poi torna a spingere il carrello verso l’uscita. Oltrepassata la zona dell’ingresso, ingombrata dagli scatoloni, la donna si mette da parte a controllare lo scontrino minuziosamente: non devono esserci errori; lei non può permettersi errori. Mentre accade questo il mondo è fermo per quel volontario, immobile con ancora quel sacchetto fra le mani, a commuoversi per quanto stava osservando.

Un’ora dopo un’altra donna giunge nella zona dell’ingresso. Cammina veloce, ben vestita, sguardo alto o – per meglio dire – altezzoso. Il suo sguardo non si permette di incrociare quello del volontario e sfreccia oltre, quasi con stizza. Oltrepassato l’ingresso, dove il suo volto non può più essere visto da nessuno dei volontari, esclama: «Tanto se le tengono» (alludendo alle varie buste gialle da loro ricevute). La coscienza raramente la si prende in giro e per le cose cattive consiglia vergogna (e quella esclamazione tanto ricorda la favola “La volpe e l’uva” di Fedro).

Arriva il camion per ritirare le donazioni. L’autista scende con un carrellino sapendo che dovrà trasportare centinaia di chili dividendoli in più viaggi.
Accade però un imprevisto: i ragazzi si chiamano fra loro; spontaneamente formano una catena e si passano gli scatoloni l’un l’altro. In un attimo il camion è pieno.

Per queste scene realmente avvenute è superflua ogni ulteriore meditazione: ciascuno può trarre le dovute conclusioni senza aiuti.

Busta gialla

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Castagne

Le hai volute le castagne, giusto? Sei voluto andare a raccogliere le castagne per averne un bel po’ a costo zero o no? Ti sei voluto riempire quel sacco con più castagne che potevi, no?

Ora prendi quel pesantissimo sacco e te lo trascini fino a casa.

Gli antichi, quando formulavano detti popolari, raramente sbagliavano: togliamoci il vizio di desiderare la botte piena e la moglie ubriaca. Ogni azione ha una conseguenza; ogni beneficio comporta dei sacrifici e, quando ciò non si verifica, c’è dietro il “trucco”: disonestà, prevaricazione, superficialità.
Oh… Ma questo non significa che la vita sia una costrizione o un continuo sacrificio per ottenere della felicità: quando si mette in conto ogni cosa, quando si comprende che la vita contiene sia il buon sapore delle caldarroste sia il loro peso nella bisaccia, non si può fare a meno di esserne grati, felici, soddisfatti. In tal caso anche il sacrificio diventa qualcosa da fare con piacere.

Castagne

P.S. Se la vogliamo dire tutta… Quand’ero bambino il mio babbo mi educava all’iniziativa nel mondo degli adulti dicendomi: «Nessuno ti da nulla in cambio di nulla» – che in un mondo di affaristi prevaricatori può anche esser vero ma che ho verificato non esser vero sempre, perché qualcosa (anzi molto) di completamente gratuito c’è. Basta guardarsi intorno.

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Candela

Nei luoghi dove ancora l’energia elettrica non è giunta o nei secoli del nostro passato, la luce era un bene prezioso. All’imbrunire diventava difficile riuscire a leggere un libro e non pochi si rovinavano la vista nello sforzo di distinguere quegli antichi caratteri con così poca luce.

Quella scarsa e flebile luce poteva essere il fuoco di un camino o, spesso, la fiamma di una candela. Oggi usiamo le candele con scopi ornamentali ma un tempo la luce emessa da quella cordicina immersa in un cilindro di cera era l’unica cosa che permettesse di lavorare ancora qualche ora – o anche tutta la notte, per i più forti.

Un significato simbolico della candela è che per permettere l’illuminazione dell’ambiente circostante essa deve consumarsi. Non ci può essere luce se la candela non si consuma. Allo stesso modo, se il nostro agire è luminoso, se permette a chi ci circonda di vedere meglio e godere della nostra luce, la conseguenza è che spendiamo noi stessi – consumiamo la cera. Più cerchiamo di preservare la cera e meno luce emettiamo.
Facciamo attenzione ed evitiamo l’estremo di spegnerci lasciando vincere l’oscurità.

Candela

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Il migliore amico

Quando ero bambino c’era un mio compagnetto delle elementari che definivo “il mio migliore amico”. Affrontavo gli altri per ottenere il diritto di sedermi accanto a lui ed ogni volta che lo scorgevo altrove lo avvicinavo per parlare o giocare. Passavo diversi pomeriggi a casa sua.

Riportando alla memoria quei tempi, temo che quel mio amico non fosse proprio d’accordo con le mie definizioni. Non è che non gli volessi bene – anzi, personalmente ho riservato simili sentimenti a pochissime persone – però qualcosa non andava.
Mi ero talmente preso a cuore “il suo bene” che mi impegnavo nel spiegargli tutto ciò che sapevo e soprattutto nel correggerlo in ogni sbaglio in modo da aiutarlo. Facevo veramente il suo bene? Probabilmente no. Concentrandomi solo sull’aspetto logico, solo sul distinguere le affermazioni vere da quelle false, trascuravo buona parte del resto, a cominciare dalla sensibilità verso l’altro. Ricordo che spesso il mio amico finiva per piangere a causa delle mie lezioncine, del mio continuo correggere, della mia pretesa di avere sempre ragione.

Oggi questa persona non mi rivolge la parola da decenni.
Per fare cose buone non bastano le buone intenzioni. Se la dobbiamo dire tutta sono spesso le buone intenzioni – mal gestite, mal perseguite – a condurci verso risultati diametralmente opposti: invece di fare il bene facciamo il male; invece di costruire distruggiamo pur avendo tutt’altre intenzioni. Non basta avere un buon obiettivo ma occorre che anche “il come” sia buono. Volere bene, amare qualcuno non giustifica qualsiasi tipo di amore, nessun fine può cioè giustificare i mezzi, perché certi mezzi illudono chi li adopera e lo conducono decisamente fuori strada.
L’esperienza personale insegna che il bene si persegue con il proprio sacrificio (non con quello degli altri); facciamo attenzione alle strade in discesa che conducono verso il miraggio di un buon proposito.

Segnale scuola

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La combriccola dei nucleoni

Una delle cose più affascinanti della fisica nucleare – tra quelle che mi spinsero ad intraprenderne gli studi – è il concetto di difetto di massa. Il nucleo di ogni atomo è formato da nucleoni, il nome che diamo a protoni e neutroni quando stanno insieme in un nucleo. Quando stanno da soli, ciascuno per conto proprio, ogni protone ha una massa a riposo di 1.672 · 10−27 Kg ed ogni neutrone ha una massa a riposo simile (1.674 ·10−27 Kg) perciò, se la matematica non è un’opinione, chiunque concluderebbe che un nucleo di oro peserebbe esattamente la somma di 76 volte il peso del protone e 118 volte il peso del neutrone.
Invece non è così: un nucleo di oro pesa di meno! Una parte della massa “scompare” per essere spesa in energia di legame. Come e perché ciò avvenga non è chiaro al 100% ma non è di questo che voglio parlare.

Tra i più antichi ricordi che ho ci sono quelli di quando andavo all’asilo: eravamo bambini un po’ monelli, incapaci di frenare un commento o un comportamento che potesse ferire l’altro. Infatti si era formato il gruppo dei “normali” mentre gli altri erano esclusi e spesso insultati. Ricordo un compagnetto che veniva emarginato per la sua benda da occhio pigro, un altro che se ne stava isolato perché tirava su con il naso e poi c’ero io, del colore sbagliato. Non so come, invece di starcene ciascuno per conto proprio a piagnucolare sulla propria emarginazione, cominciammo a stare insieme e a giocare. Anche a me faceva impressione l’occhio pigro o il continuo tirare su con il naso, come penso che anche ai miei compari facesse uno strano effetto il mio aspetto però avevo imparato che, come i nucleoni, bisogna rinunciare ad un po’ della propria massa – pregiudizi, impressioni, esteriorità, nomea – per stare insieme. L’energia di legame nel gruppo dei “normali” era invece nulla e questo comportava divisioni e litigi, la pretesa di ciascuno per la quale devono sempre essere gli altri ad adeguarsi a noi e non il viceversa.

Un caso più calzante è quello del matrimonio: due umani (nucleoni) di diversa natura (un uomo/neutrone e una donna/protone) stanno insieme ma non può esserci vero amore senza sacrificio (difetto di massa) altrimenti, prima o poi, la coppia esplode.
Altro caso si verifica nel mondo dei blog e bloggers: ci sono quelli del “giro grosso” e quelli “strani” che in pochi vanno a visitare, piccole nicchie con grandi tesori che in pochi conoscono. Colgo allora l’occasione per ringraziare i miei 6 lettori pregandoli di restare “connessi” con questa piccola nicchia anche se per qualche giorno non avrò il tempo di pubblicare materiale nuovo. Grazie.

Nucleo e nucleoni

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Lucciole per lanterne

In una notte oscura, stiamo vagando per la valle alla ricerca di un segno di vita perché ci siamo perduti. Ecco che davanti a noi, qualche centinaio di metri più in là, appaiono delle luci che si muovono, come di gente che brandisce delle torce ed è alla ricerca di qualcuno o qualcosa. «Ah, ci cercano e ci hanno pure trovati!» pensiamo. Qualche decina di passi nella direzione delle luci e …
Puf! Le abbiamo attraversate. Trattavasi di insetti bioluminescenti vicini e non di lanterne lontane.

Questa breve storiella, dalla quale immagino derivi il modo di dire che si legge nel titolo, evidenzia come la situazione fisica o mentale nella quale ci troviamo determina un calo di obiettività nei confronti di quanto osserviamo. La persona perduta nella notte ha un disperato bisogno di sicurezza, di trovare qualcuno, di avere un contatto umano e, in virtù di questo desiderio, è portato ad interpretare delle luci che si muovono come persone alla sua ricerca. In questo caso è un sentimento forte come l’angoscia a forzare le interpretazioni non corrette e non veritiere della realtà.

Un’altra cosa molto potente che può indurre in questo genere di sviste è l’ideologia, con tutti i “complessi del nemico” conseguenti: se il nemico della mia ideologia dice qualcosa io la interpreto nel modo più negativo possibile; se il “nemico” parla di sacrificio noi diciamo che è  masochista; se parla di bellezza, noi concludiamo che delira; se difende qualcosa, noi pensiamo che sia uno strumento di potere; se perdona, per noi ha un secondo fine; se esprime la sua opinione, sta tentando di chiuderci il becco e così via. A differenza del disperato che interpreta in meglio perché ha bisogno di buone notizie, l’ideologizzato interpreta in peggio perché deve difendere il suo castello di carte, tanto complesso ed elaborato, quanto instabile e fragile: ogni dubbio fa infatti vibrare violentemente l’intera struttura minacciandone il crollo perciò dev’essere fuggito e attaccato con ogni mezzo.

L’unica via d’uscita, per il disperato che cerca luci nella notte così come per l’ideologizzato è il rendersi conto della propria situazione, fermarsi un attimo a dare un’occhiata a sé stessi per poi rivalutare quanto osservato senza pregiudizi e ossessioni. È vero che bisogna osservare molto per comprendere altrettanto, ma è anche vero che l’osservazione dev’essere “pulita” dalle classificazioni fatte con l’accetta, dalle generalizzazioni e dai pregiudizi.

Luci distanti nell'oscurità

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Il paradosso del salvatore

Trigun è un anime di diversi anni fa ambientato in un futuro “far west” su un altro pianeta. Il protagonista, Vash the stampede, detto anche “il tifone umanoide” si ritrova ad affrontare i banditi del nuovo far west con l’intento di salvare sia le vittime, sia i carnefici. Ciononostante la popolazione lo teme e lui è il maggiore ricercato.

In una delle puntate vicine alla conclusione della serie viene proposto il paradosso del salvatore - termine che mi sono inventato per descrivere il problema. Vash bambino osserva una farfalla impigliata sulla tela di un ragno il quale le si avvicina per divorare la preda. Come agire? Se si libera la farfalla il ragno morirà di fame; se non si libera la farfalla il ragno la ucciderà. In entrambi i casi c’è sempre una vittima.

Trigun cicatriciNella stessa scena – permettetemi lo spoiler – il fratello cattivo di Vash propone la sua soluzione uccidendo il ragno e manifestando quello che diventerà il suo progetto malvagio: estinguere la razza umana perché, come il ragno, giudicata dannosa per il cosmo. La soluzione di Vash è invece il sacrificio: il suo corpo è pieno di cicatrici; martoriato e sfigurato da tutte le volte che si è messo in mezzo per salvare tutti. Difendendo sia l’innocente che il colpevole si è beccato il male al posto loro.
Alla fine – permettetemi quest’altro spoiler – capisce che questo suo agire non è sufficiente. La sfida più importante non è la difesa incondizionata di buoni e cattivi ma è educativa: bisogna insegnare all’aggressore una vita ordinata, retta, degna, orientata al bene. A cominciare dal fratello cattivo.

Un anime che lascia molto spazio alla riflessione: dal senso del male al problema educativo; dal tipico fraintendimento dell’operato dei buoni al valore del sacrificio.

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Dieta

Durante le feste non si bada molto alla linea. Si viene invitati a sontuosi banchetti dove mille prelibatezze aspettano anche solo un assaggio. Come non cedere? Il cibo buono e gustoso è spesso quello che fa ingrassare di più e ci si ritrova così con una bella pancetta che si vuole fare sparire.

Lasciando perdere la chirurgia, il metodo sano per ritrovare la forma perduta – e anche un migliore stato di salute – è il sacrificio. Bisogna fare esercizio fisico per molto tempo, con costanza. Bisogna astenersi dai cibi grassi, da quelle golosità che durante le feste ci hanno portato ad una forma non proprio piacevole o salutare.
Per migliorare, per perfezionare il proprio stato fisico bisogna quindi fare dei sacrifici.

E lo stato della coscienza? E quello del cuore? Anche l’animo ha bisogno di una dieta ogni tanto, di un periodo di maggiore sacrificio che lo perfezionino. Vizi, piaceri, perdite di tempo, pensieri inutili: via tutto per un bel po’. Un po’ come facevano gli eremiti andando quaranta giorni e quaranta notti in luoghi isolati e irraggiungibili, ma senza necessariamente imitarli cercandosi posti così impossibili. Quel che ci vuole è un deserto virtuale, un silenzio nel cuore delle nostre attività quotidiane per trascorrere un periodo di riflessione su ciò che conta davvero, sull’essenziale privato delle distrazioni. Altrimenti la coscienza resta assordata e accecata dalla frenesia quotidiana.

Dieta

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Statue

Le statue, in genere, sono scolpite una volta per tutte; l’artista le fa e poi, se sono ben fatte, perdurano anche per secoli o millenni.
La gente non è così. Le persone hanno la grande capacità di cambiare, di essere vivi in fin dei conti.

Visto che la tendenza degli esseri viventi è quella di cambiare, trasformarsi, mutare con il passare del tempo e poiché anche le persone sono dei “viventi” perché non sfruttare questa capacità per un miglioramento?
Gli atleti non si allenano forse ogni santo giorno, sottoponendosi a fatiche e sacrifici, pur di migliorare le loro prestazioni? Gli artisti non sperimentano forse sempre nuove tecniche con il rischio di rovinarsi economicamente e di perdere tempo?

Come accennavo ieri, si può agire anche per migliorare sé stessi, a partire dal carattere per poi plasmare lentamente la coscienza ed il comportamento. Ma cos’è un miglioramento?
Un pittore può certamente affinare la tecnica per essere più rapido o più abile, può anche “divertirsi” in quello che fa traendone giovamento, ma finché il suo prodotto non ha una bellezza universalmente – o quasi – riconosciuta, non ci guadagnerà un soldo (se non da qualche elemento di quella categoria che considera artistico anche ciò che è grottesco o orribile).

Il miglioramento porta bellezza ma è figlio del sacrificio. Senza allenamento non ci sarà mai un atleta valido, senza pratica artistica non ci sarà mai artista, senza il sacrificio dei propri vizi non vi saranno mai virtù. E se per sfuggire al sacrificio ci lasciamo andare al sofisma “sono fatto così; che ci posso fare” allora non siamo diversi da una statua di marmo: impassibile, immutabile e, sostanzialmente, morta.

Statua

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