Articoli da dicembre 2010



Cinture di sicurezza

Il codice della strada prevede l’uso delle cinture di sicurezza su tutti i veicoli che non siano ciclomotori e affini. È una regola che ha un senso: permette di salvare la vita delle persone durante gli incidenti stradali. È una regola che richiede il libero consenso del conducente del veicolo: non c’è nessun dispositivo automatico che acchiappa il conducente e lo lega al sedile.

C’è molta gente che ancora non la usa: sgualcisce il vestito firmato; è scomoda ed opprimente; impedisce i movimenti; non vale la pena usarla per brevi spostamenti; qualcuno dice anche che va troppo piano o è addirittura troppo bravo a guidare per averne bisogno.

E se facessimo un sondaggio? E se la maggioranza della gente pensasse che non vi fosse nulla di male nel non indossare le cinture? E se fosse di moda non portarle? Molti direbbero che “tanto si ammazza solo chi non le porta e ognuno decide per sé”. Avrebbero ragione?
Non è il codice della strada a doversi adattare agli usi e costumi degli automobilisti. Esistono costumi sbagliati e usi pericolosi che devono essere banditi per la sicurezza di sé stessi e degli altri. Sono gli automobilisti che devono essere educati a rispettare il codice della strada per la loro stessa incolumità. Nella vita però non c’è soltanto il codice della strada: ci sono tanti codici, che spesso ci appaiono scomodi o privi di senso che vorremmo non esistessero. Prima di andare contro le cose scomode riflettiamo a fondo e chiediamoci se è veramente meglio, più bello, più giusto, infrangerle o rispettarle.

Cinture di sicurezza

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Antivirus

C’era una volta un mondo digitale, un sistema operativo perfetto dove i programmi andavano in run allegramente ed in perfetta sintonia. Un giorno, uno dei programmatori di questo sistema operativo, poiché si sentiva sottopagato (ma non lo era affatto) contaminò tutti i programmi del tipo “super controller” con un virus. Da quel momento i programmi “super controller” – che erano liberi di decidere in qualsiasi momento quali funzioni mandare in esecuzione tra le svariate delle quali erano stati dotati – cominciarono ad essere portati ad eseguire operazioni dannose per loro stessi e per gli altri programmi divenendo, in alcuni casi, incapaci di discriminare il valore dei loro dati. Divennero così contrari allo scopo stesso per i quali erano stati sviluppati.

Il programmatore capo, accortosi del problema pensò ad una soluzione. Poteva eliminare tutti i programmi infetti ma non se la sentiva: aveva dedicato tanto tempo alla loro programmazione, ci aveva speso su tutte le sue energie e il suo amore per crearli così bene. Nonostante il virus era orgoglioso della sua creazione e non voleva distruggerla. Ci voleva un antivirus particolare, qualcosa che annullasse l’effetto dell’infezione trasformando pian piano tutti i programmi senza sprecarne nemmeno uno.

Dopo un po’ di meditazione, il programmatore capo decise di intervenire personalmente. Creò un simulatore di programmi “super controller” per essere riconosciuto dagli altri dello stesso tipo. Per diverso tempo il programma “super controller” simulato – che altri non era che il programmatore capo in persona ai comandi della simulazione – interveniva traducendo pacchetti di istruzioni per i programmi del sistema e, dopo qualche tempo, riuscì a ripristinarne un piccolo gruppo. Era un evento unico ed irripetibile nella storia di quel sistema operativo.

Alla fine del suo lavoro il programmatore capo era molto contento. Quel piccolo gruppo di programmi ripristinati era capace di diffondere la correzione agli altri anche se ci sarebbe voluto molto molto tempo: tra le istruzioni che i “super controller” potevano eseguire c’erano anche quelle di negazione e di rigetto, capaci di impedire la diffusione della correzione. C’era anche qualche programma che si infettava da capo. L’importante però era che il miglior antivirus era stato messo all’opera e si diffondeva nonostante le tempeste informatiche e le scariche virulente che il sistema infetto gli muoveva contro.

Matrix

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Merge di cartelle in Mac OS X

Per una misteriosa politica di programmazione la Apple gestisce il meccanismo della sovrascrittura dei file e della loro copia in modo molto diverso da Windows. Quando si copia una cartella che contiene file e sottocartella su un’altra directory c0n lo stesso nome, Windows passa ad interrogare l’utente su quale operazione vuole eseguire: sovrascrivire o ignorare.

In Mac OS X questo non accade. Se si copia una cartella vuota in una directory dove è presente una cartella con lo stesso nome, il contenuto della cartella di destinazione viene cancellato con conseguente perdita dei file. Quando abbiamo due archivi da sincronizzare, ad esempio per fare un backup e aggiornare il vecchio archivio aggiungendo il materiale più recente, il problema della sovrascrittura diventa cruciale. Non è possibile spulciare diversi giga, cartella per cartella, controllando cosa è opportuno copiare e cosa no.

Per realizzare il “merge”, l’unione di cartelle preservando il contenuto, si può però usare il terminale di Mac OS X. Il comando da usare è cp e si può visualizzare la guida ad esso relativa digitando sul terminale

man cp

Si viene così a scoprire che: per copiare le cartelle e le sottocartelle rispettando l’albero gerarchico occorre specificare l’opzione -R; per impedire la sovrascrittura bisogna usare l’opzione -n; per fare apparire sul terminale i nomi dei file, copiati e non, occorre specificare l’opzione -v; per dirgli di copiare tutti i file bisogna inserire il carattere speciale * nel nome del file. Leggendo il manuale di cp emergono altre opzioni che consentono anche di preservare i file che hanno lo stesso nome rinominandoli automaticamente. Supponendo quindi di voler copiare la cartella “miacartella” su un disco esterno “miodisco” con tutte le sue sottodirectory dovremo andare sul terminale e digitare:

cp -Rnv miacartella /Volumes/miodisco/

Se si vuole salvare il risultato su un file di log chiamato “logfile.txt” basta scrivere:

cp  -Rnv miacartella /Volumes/miodisco/ | tee logfile.txt

copia

Aggiornamento: consultando il forum di Italiamac c’è un’applicazione che può risultare utile per questo lavoro (se non si vuole usare il terminale): SyncTwoFolders

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Infinito

La mia colazione, questa mattina, ha previsto una bella fetta di pandoro da bagnare nel latte caldo: una tra le colazioni che considero le più deliziose. Anche se non sembra – per via del ridotto peso specifico – il pandoro è un alimento abbastanza grasso ed energetico, perciò bisogna andarci piano e limitare le quantità. L’effetto collaterale è che il piacere di una colazione così buona dura di meno perché c’è meno roba buona da mangiare.

Mentre mangiavo pensavo infatti che nel mondo sono poche, pochissime, – e comunque niente di materiale, misurabile, tangibile – le cose che garantiscono una soddisfazione permanente. Terminata la mia fetta di pandoro mi sono detto: “Ecco. È stato bello, mi è piaciuto, ma è già finito”. Eppure mi ha fatto riflettere l’aver detto “È già finito” perché in qualche modo evidenzia il desiderio inconscio di qualcosa che non si esaurisca in pochi bocconi – anzi, che non si esaurisca affatto. Non è un semplice senso di insoddisfazione dovuto al fatto che non mi sia riempito lo stomaco fino a scoppiare, perché una colazione abbondante riesce bene a saziarmi. È qualcosa che va oltre gli istinti della fame e della sazietà.

Nell’uomo, c’è una specie di “buco nero per le cose belle e positive”, ciò che lo spinge ad esplorare, a studiare, a inventare, a creare. Ma questo vuoto è lo stesso che, a volte, si cerca di riempire con tutte quelle cose che, essendo limitate, non ci riescono mai. Potrei ad esempio comprare un quintale di pandoro e fare una colazione perpetua, ma è chiaro che, se sopravvivo, prima o poi finirà e sarà di nuovo come all’inizio – se non peggio, a causa delle conseguenze. E questo modo di fare lo praticano in tanti e, spesso, si accorgono troppo tardi di aver sprecato il proprio tempo in una esagerazione.

È bizzarro però che degli esseri limitati, abituati alla vita in un mondo di oggetti limitati e con meccanismi biologici sviluppati appositamente per agire entro tutti questi limiti, abbiano un desiderio di qualcosa che sia privo di limiti. Potremmo chiamarlo “desiderio di infinito” ma l’infinito esiste solo nella mente di chi fa matematica perché, nell’universo, di illimitato non c’è nulla. Persino i buchi neri che osservano gli astronomi hanno una massa finita e una vita finita; persino l’universo ce l’ha. Questo “desiderio di infinito” non è di questo mondo, non è di questa dimensione, di questo spazio-tempo.

Infinito

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Sillogismi

Consideriamo tre elementi di un insieme: “A”, “B” e “C”. La proprietà transitiva dice che se c’è una relazione tra A e B e la stessa relazione c’è anche tra B e C, allora questa relazione c’è anche tra A e C.

Pieghiamo un foglio di carta in modo da avere tre strati sovrapposti. Ritaglimo la figura di un cerchio e, poiché il foglio ha tre strati, ne otterremo tre. Prendiamo i tre cerchi e disponiamoli su una superificie, ad esempio, sul tavolo. Numeriamo i cerchi con i simboli: “A”, “B” e “C”.
Ora mettiamo alla prova la proprietà transitiva con l’area dei nostri cerchi. L’area di A è uguale a quella di B e l’area di B è uguale a quella di C. Possiamo metterli uno sopra l’altro per verificarlo. Possiamo anche verificare sperimentalmente che l’area di A è uguale a quella di C.

Ora separiamo nuovamente tutti i cerchi tenendoli ben distanti sulla superficie. Quando avvicinate due cerchi fra di loro, ad un certo punto si toccheranno in un punto. Insistendo nell’avvicinare i centri dei due cerchi, uno dei due andrà in parte sotto l’altro. Chiamiamo questa parte “in comune” con il nome di “intersezione“. Quando due cerchi si trovano in questa condizione diciamo che “si intersecano” o che il primo “interseca” il secondo. La proprietà transitiva ci dice che se A interseca B e B interseca C allora A interseca C.

Quello che abbiamo appena enunciato è un sillogismo. intersezioneChiunque abbia studiato un pizzico di filosofia (o ne abbia anche solo sentito parlare, come il sottoscritto) sa che esistono sillogismi veri e sillogismi falsi. In entrambi i casi possono sembrare terribilmente logici e razionali, possono sembrare estremamente convincenti. Anzi, possono capitare dei casi in cui anche i sillogismi falsi appaiano veri ma la questione cruciale è che nel formularli non si è considerata tutta la realtà ma soltanto una parte. Se ci mettiamo a giocare con i cerchi che abbiamo ritagliato, scopriamo che il sillogismo sull’intersezione non è sempre vero. È vero solo nel caso della configurazione “borromeana” mentre è falso quando, ad esempio, li mettiamo tutti in fila e allineati. Giocando con la logica e la razionalità, occultando i casi contrari ed evidenziando quelli favorevoli, manipolando le ipotesi, possiamo dimostrare anche l’assurdo. Il problema dei sillogismi falsi è che uccidono la Verità e questo crimine può condizionare le persone e farle comportare come non dovrebbero.

Borromeano

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GEANT4

Oggi sto partecipando ad un corso introduttivo e acceleratissimo del toolkit “GEANT4″. Si tratta di un insieme di librerie e di strumenti di compilazione che servono a simulare complessi esperimenti di fisica nucleare. Viene utilizzato anche per stimare i danni da radiazione su pazienti e su astronauti o per interpretare alcune immagini astrofisiche di – ad esempio – asteroidi a partire dall’interazione della radiazione con la loro superficie.

Una cosa che mi ha colpito di questo codice informatico scritto da fisici è che il modo usuale di impararne l’utilizzo si basa sulla – testuali parole dell’oratore – “tradizione orale”. Il GEANT4, come tanti altri programmi scritti da fisici per fare fisica, è accompagnato da una bibliografia enorme che conta diversi manuali, tuttavia la lettura integrale dei manuali può essere controproducente: per chi non ha mai sentito parlare del software del quale sta studiando il manuale, la lettura dello stesso può rivelarsi un lavoro estremamente oneroso e inconcludente.

Chi si approccia al manuale soltanto dopo aver appreso da un collega più esperto le basi, riesce in poco tempo ad avere padronanza dello strumento; ad accrescere il suo sapere consultando la guida; a comprendere quanto indicato sui manuali – anche a saper cercare ciò che gli serve. Chi invece decide di fare da sé, si ritrova con una mole di informazioni che difficilmente può trasformare in pratica e finisce con l’abbandonare la lettura del manuale e con il rifiutarsi di usare quel programma.

Mi vengono alla mente decine di cose che funzionano allo stesso modo anche nella vita di tutti i giorni, tra queste anche scelte fondamentali. C’è chi apprende il software ascoltando prima la “tradizione orale” di chi quel programma sa già usarlo; c’è chi invece vuole fare da sé iniziando una lettura sterile e impreparata di un manuale difficoltoso e complicato. I secondi spesso lasciano perdere e trasformano il loro insuccesso in una critica costante e rabbiosa verso il software – “Troppo difficile”; “Non permette questo o quello” – e verso il manuale – “È contraddittorio”; “Non si capisce”. Quel software poteva essere lo strumento più potente del mondo e che gli avrebbe concesso di calcolare la qualunque… Peccato.

GEANT4

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Titan AE

Ripensando al post di ieri mi è tornato in mente un film di animazione del 2000 intitolato “Titan AE“. La trama si svolge in un futuro lontano nel quale i terrestri sono profughi dispersi e in fuga da una specie aliena, i Drej, che vuole sterminarli. La Terra è andata distrutta da tempo ma il protagonista ha ancora una speranza: suo padre gli ha parlato del Titan, un’astronave sulla quale sono stati salvati gli embrioni di ogni specie di vita che era presente sulla terra. Il ragazzo dovrà trovare il Titan prima dei Drej e trovare il modo di utilizzarlo.

Guardando il film si percepisce distintamente l’importanza che il Titan ricopre per il ragazzo e per gli altri terrestri dispersi nello spazio. Alcuni invece si sono anche convinti che il Titan non esista e cercano semplicemente di sopravvivere senza coltivare alcuna speranza. Eppure il Titan non contiene soltanto materiale biologico: la rarità del suo contenuto e il sapere cosa questo potrà diventare su un nuovo mondo da colonizzare ne evidenzia l’enorme valore. Non ci rendiamo conto di quanto valga qualcosa finché non ne percepiamo la mancanza.

Titan AE

Il trailer qui

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Ibernazione

Spesso nella fantascienza si sente parlare di ibernazione. Consiste nel ridurre o sospendere le funzioni vitali dell’astronauta per un certo periodo di tempo. Un ipotetico astronauta in ibernazione consumerebbe meno scorte alimentari e sopporterebbe un viaggio lungo anche decenni.

Tra i film più famosi nei quali compare l’ibernazione o la stasi vi sono “ALIEN” e “Punto di non ritorno“, oltre a diverse puntate di Star trek come “The thaw“, l’episodio cui la Voyager trova alcuni superstiti di un pianeta ormai morto all’interno di alcune capsule di stasi. In quest’ultimo caso gli occupanti delle capsule vivevano in una realtà simulata dove, alla lunga, le loro paure aveva generato un essere virtuale dalle sembianze di clown che si divertiva a terrorizzare ulteriormente i suoi ospiti.

Attualmente non è possibile ibernare un essere umano adulto perché non esiste un sistema che consenta un congelamento abbastanza rapido e generalizzato da non generare danni alle cellule. Se fossimo però costretti ad usare le tecnologie odierne per colonizzare un altro mondo? E se l’unica speranza per l’umanità fosse quella di raggiungere un altro pianeta? L’astronauta perfetto è attualmente l’embrione, l’unico stadio vitale dell’esistenza umana che può essere congelato abbastanza rapidamente da sopravvivere all’ibernazione.

Alien ibernazione
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Scienza confutatoria?

Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione in questi ultimi anni ha favorito la diffusione degli argomenti scientifici alimentandone l’interesse anche fra i non addetti ai lavori. Sebbene da una parte ciò significhi un bene – perché il sapere è sempre una ricchezza – dall’altra, non essendoci stata – né prima, né durante -  alcuna educazione, si è finito con il travisare lo spirito scientifico.

Può darsi che nemmeno chi stia scrivendo sappia bene cosa sia il senso della scienza, fatto sta che quando un meccanismo funziona male, stride e il suo rumore dà fastidio.
Il lavoro di uno scienziato è simile a quello di un esploratore: vuole conoscere ciò che ancora non è conosciuto; comprendere ciò che  nessun uomo aveva compreso prima. Come l’esploratore affronta la tempesta per approdare alla spiaggia sconosciuta, così lo scienziato affronta le difficoltà sperimentali e si ingegna nel risolvere problemi per scoprire e capire ciò che sta al di là della frontiera del sapere umano.

Alcune persone hanno una maniera di concepire la scienza che, in qualche modo, la offende. Di fronte ad un evento nuovo, invece di approfondire ed esplorare, come l’apertura mentale alla base dello spirito scientifico vorrebbe, cercano di spiegarlo combinando uno o più eventi già noti avanzando ipotesi su ipotesi. È come se avessero paura della novità, di valicare quel confine che, secondo la leggenda, veniva definito “hic sunt leones”.
Probabilmente la paura c’è e, in nome di questa paura, usano barbaramente la scienza come accetta per abbattere i mostri. È la paura di ammettere di non sapere; il terrore che nel mondo ci sia ancora qualcosa che si può definire “mistero” (che parola rinnegata: la si trova solo nelle trasmissioni televisive basate sulla dietrologia). Tra loro e quelli che difendevano il sistema geocentrico con i circoli deferenti e gli epicicli non c’è differenza.

E dire che centinaia di migliaia di anni fa era scontato che il mondo fosse in gran parte mistero. Oggi lo è ancora, ma l’immenso oceano da scoprire fa paura e fa più comodo fare finta di trovarsi in una pozzanghera della quale si vedono bene i confini. Se i nostri antenati si fossero fermati a spiegare il Sole come “semplicemente” e “solamente” un grosso ceppo in fiamme, saremmo ancora come loro. Invece c’è stato chi è rimasto affascinato dal mistero e ha cercato di scoprirlo, di colmare quella sete inesauribile di sapere che, a causa del fraintendimento accennato all’inizio, viene oggi sempre più ignorata. Eppure, in un universo finito popolato da esseri finiti, questa sete infinita dovrebbe far riflettere.

Leones

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Saprei farlo meglio

Un mio parente è un appassionato di formula 1: non si perde un gran premio. Ogni volta che si mette a guardare un gran premio in televisione non si astiene dal dire “Se quella macchina la guidassi io, vincerei”. Pensieri di questo tipo vengono fuori anche in altri ambiti: dalla cassiera che ci fa aspettare troppo al politico che non decide ciò che ci viene più vantaggioso. Ma, a parole, chiunque è capace di dirsi migliore e di inventarsi tutte le strategie teoriche che vuole.

Quando si presenta la prova dei fatti, quando realmente si finisce a dover sostenere il lavoro di chi prima si era ritenuto incapace, si rischia però di fallire in modi anche più gravi di quanto lo avesse fatto il predecessore. Tanto è più grande la responsabilità di chi abbiamo criticato, tanto più potrebbe rivelarsi difficile e complicato riuscire a sostituirlo con lo stesso grado di efficienza. È ciò che succede a Bruce, il protagonista di “una settimana da Dio” interpretato da Jim Carrey.

Il caso estremo riportato nel film mostra come questo genere di sfide, se non si hanno le capacità di chi viene criticato, siano tutte destinate al fallimento. Questo avviene perché il fulcro della critica non è inquadrato nelle più ampie e complesse dinamiche delle quali ne rappresenta solo un infinitesimo. Per essere più semplici, se i merluzzi nell’atlantico diminuiscono, non è eliminando le foche che li si aiuta a crescere perché la catena alimentare dell’atlantico coinvolge centinaia di specie e sconfina sovente al di là del mare.

Siamo sempre pronti a lamentarci di qualcosa che non va secondo la nostra logica ma ciò non significa che una logica, che un motivo, un senso non ci siano.Jim Carrey

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