Articoli da maggio 2011



Cecità e daltonismi

Erano passati ormai tre anni dall’incidente. L’ultima immagine che gli occhi di Diego avevano visto era una cascata di acido nella sua direzione, poi il buio.
Diego era una brava persona, aveva dedicato tutto il suo tempo al lavoro e alla famiglia e forse ci aveva dedicato anche troppo tempo. Il mondo gli scorreva davanti in tutte le sue manifestazioni ma lui era occupato dai suoi impegni. Semplicemente, non si poteva permettere di fermarsi e guardare, anzi, osservare ciò che lo circondava. Anche la famiglia stessa si era trasformata in una serie di post-it attaccati a delle sagome sempre uguali.

Ora che non ci vedeva più sentiva opprimente il vuoto “ottico”. Aveva poche immagini in mente, pochi ricordi della sua possibilità di vedere, cose normali, facce usuali, muri, sedie, attrezzi. Sentiva cinguettare gli uccelli ma non aveva altro che sagome stilizzate da immaginare; aveva i suoi cari vicino ma visualizzava solo lineamenti neutri.
«Non si può continuare così – si diceva – Se avessi osservato un po’ di più quando ci vedevo… C’era così tanto da vedere ma ora non mi rimane niente. Basta! Rivoglio la mia vista!»
Il poveretto era disperato ma aveva sentito parlare di un’operazione in grado di ridargli la vista. Per questo ora si trovava in quella stanza di ospedale con le bende sugli occhi.

Quell’operazione gli cambiò la vita; non perché aveva riacquistato la vista ma perché aveva ritrovato qualcosa di più importante: la voglia di stupirsi. Sentiva i versi degli uccelli e li individuava con lo sguardo scoprendo il contrasto tra il giallo becco del merlo ed il suo piumaggio nero; il carnevale giallo e rosso dei cardellini; le danze dei passeri. Ora si meravigliava guardando il viso della figlia mentre scriveva un tema; il sorriso della moglie il giorno che andarono a vedere le stelle; il movimento delle mani di sua madre quando raccontava dei tempi andati. Dettagli su dettagli. C’era sempre da scoprire qualcosa di affascinante, qualcosa che riusciva a far battere forte il cuore anche per un solo millesimo di secondo.

Non tutti sappiamo vedere l’ineffabile bellezza che ci circonda ogni giorno. Alcune persone hanno come uno scudo di monotonia e materialismo che li rende inerti alle provocazioni della bellezza. Spesso queste persone hanno bisogno di buio assoluto per poter vedere la luce. Non possono apprezzare quanto sia meraviglioso poter vedere chiaramente se non si è vissuta l’angoscia del buio. A volte, come i daltonici, riusciamo a percepire solo alcune lunghezze d’onda, quelle che ci sembrano più importanti, ma ci dimentichiamo degli altri colori, coperti da certo bagliore eccessivo che diamo alle faccende della vita. Eppure quei magnifici colori ci sono, aspettano solo di essere notati. Basta fermarsi un attimo e osservare.

Cardellino

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Uguaglianza dei biscotti

Altro post partorito a colazione: sarà il sonno, sarà il vuoto cerebrale post-risveglio, ma mentre facevo colazione mi è venuta in mente la grande varietà di biscotti. Non sono tutti uguali: ci sono quelli che si inzuppano pian piano; quelli che vanno a fondo; quelli che galleggiano qualsiasi cosa succeda; quelli che diventano poltiglia; quelli che rimangono asciutti e impermeabili anche se li lasci a mollo per mezz’ora.

Però sono tutti biscotti. Stesso oggetto, differenze di specie. Ogni biscotto è fatto per essere consumato in modo diverso: alcuni biscotti si devono spezzare prima di immergerli; altri vanno immersi per metà per essere iniziati; altri hanno un verso specifico altrimenti risultano impermeabili; altri ancora hanno bisogno del cucchiaino sotto, per essere recuperati prima di diventare poltiglia. Sebbene stiamo parlando sempre e solo di biscotti, ogni tipologia ha i suoi pregi e i suoi difetti, il suo modo corretto di essere consumato, una maniera idonea e ideale di essere trattato, il suo modo di interagire con il latte.

Stesso discorso per le persone. Siamo tutti esseri umani, certo, ma pari dignità e diritti sono conferiti sugli aspetti che sono già comuni. Quando però, con la presunzione di un uguaglianza che in realtà non esiste, vogliamo abbattere le differenze naturali, stiamo cercando di tenere a mollo per dieci minuti un biscotto che diventa poltiglia in trenta secondi. Cioè non abbiamo capito il meccanismo della dignità. Se c’è differenza tra uomo e donna, tra persona e persona, è perché ogni qualità e proprietà – differente dalle altre – ha un suo campo di applicazione ed un suo impiego che sarebbe sviluppato male se affidato a chi, quelle qualità, non le possiede. Non dobbiamo pretendere di essere buoni a tutto, anche a ciò per cui non siamo tagliati, ma riconoscere che essere fatti in un certo modo implica finalità specifiche, un modo di vivere più “calzante” di altri.

Biscotto

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Analisi semantica

Guardavo, proprio ieri, una delle funzionalità di un noto aggregatore di notizie. La chiamano “analisi semantica”, un bilancio tra parole “positive” e parole “negative” all’interno di un post allo scopo di determinarne lo “stato d’animo”. Se si utilizzano tante parole negative lo stato d’animo è triste mentre se si utilizzano tante parole positive lo stato d’animo risulta felice. Ovviamente ci sono delle gradazioni intermedie.

L’analisi dei miei post risulta spesso di un umore nero pece. Com’è possibile? Guardo le parole che sono state classificate come “negative” e scopro che tra le altre sono state anche inserite: immutabile; indiscutibile; irrisolto; pesante; usuale; generalizzato; rigido; nostalgico.
A me non sembrano parole negative ma, pensandoci bene e rendendosi conto di certe mode, possono mostrare un certo modo di intendere le cose per il sentire comune.

Si temono proprio i riferimenti fissi, le cose stabili e definite che possono, in fin dei conti, dare sicurezza. Si preferisce invece non sapere dove sbattere la testa, vagare tra un’idea e l’altra senza mai trovare soddisfazione. Il problema è che questo stato “confusionale” viene frainteso con una maggiore libertà. Se chi ragiona in questo modo fosse un marinaio, sulla sua piccola barchetta, nel mare notturno, sarebbe veramente più libero spegnendo tutti i fari del mondo?
La libertà del marinaio sta nel fare uso dei fari che incontra per scegliere saggiamente in quale direzione navigare: ad eccedere con le libertà si rischia di si abbattersi sugli scogli o di perdersi senza mai trovare un porto sicuro.

SmileP.S. È chiaro che questo post risulterà negativissimo!

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Regolatore

Ci si ritrova spesso a dover alimentare qualche dispositivo con una differenza di potenziale stabile, indipendentemente dalle pretese del dispositivo stesso. Ad esempio potremmo voler alimentare una vecchia pennetta MP3 utilizzando la presa dell’accendisigari invece della pila a stilo da 1.5V; oppure la nostra sveglia (3 Volts) ci ha dato buca per l’ennesima volta perché le batterie si sono scaricate e vorremmo collegarla ad un alimentatore esterno (12 Volts) etc.

Per risolvere il problema spesso non basta fare un partitore di tensione – cioè collegare delle resistenze insieme al nostro dispositivo affinché ai suoi capi ci sia la differenza di potenziale desiderata – perché, soprattutto nel caso del lettore MP3, la resistenza del dispositivo cambia a seconda che sia stato appena attivato o che sia suonando o che sia in attesa di comandi. Poiché con il metodo del partitore di tensione la differenza di potenziale ai capi del dispositivo dipende dalla sua resistenza interna, rischieremmo di distruggerlo o di non farlo funzionare affatto.
Dobbiamo allora complicare un po’ le cose costruendo un regolatore di tensione rudimentale:

Regolatore

L’amplificatore operazionale, che possiamo scegliere in base alla tensione massima di alimentazione (ad esempio un TL081 regge fino a 36V o ±18V), è il cuore del sistema. Se la tensione sull’ingresso (-) è maggiore rispetto a quella sull’ingresso (+) l’operazionale provvede a ridurre la sua uscita; viceversa, l’operazionale aumenta il potenziale d’uscita. La resistenza R1 (240 Ω) è una protezione che può essere omessa. I due transistor mettono in pratica la regolazione: il BC337 (Q1) serve solo a pilotare il BD139 (Q2) che può gestire correnti più alte. La scelta dei transistor non è vincolante: l’unica precauzione è che Q2 possa gestire correnti più sostenute. R2 è un trimmer (100 KΩ) che consente di alzare la tensione di uscita fino (o quasi) al valore massimo mentre il minimo della tensione di uscita è il riferimento (REF). Se si vuole che l’uscita sia sempre uguale al riferimento si può eliminare R2 e collegare l’ingresso (-) direttamente all’uscita.

Riferimento 1.5VLa cosa fondamentale del circuito è che per funzionare ha bisogno sempre di una tensione di riferimento da collegare a REF. Senza scomodare i diodi zener (noti riferimenti di tensione) si può costruire un riferimento da poco più di un volt usando un led rosso, alimentato attraverso una resistenza opportuna (1 KΩ a 12 V) e ulteriormente stabilizzato con un condensatore (100 nF).
Il riferimento fisso è sempre necessario, anche quando vogliamo essere indipendenti dal carico. Un po’ come nella vita bisogna sempre avere dei valori, dei riferimenti immutabili e innegabili dai quali far dipendere poi tutto il resto. Senza un riferimento esterno a noi, possiamo fare ben poco: possiamo solo illuderci di poter distinguere un potenziale più alto da uno più basso pretendendo di essere al centro. C’è bisogno di qualcosa o qualcuno che apporti un valore fisso di riferimento per le nostre azioni affinché il nostro giudizio sia valido.

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Biciclette e paure

Fin dai tempi più antichi che la mia memoria può ricordare, ho sempre avuto una bicicletta. Da bambino i miei genitori mi portavano nella casa di campagna o ai giardini pubblici, dove avevo a disposizione chilometri di strade, stradine e sentieri da percorrere a mio piacimento. Andare in bici è sempre stato bello e lo è diventato sempre più man mano che crescevo.

Il giorno in cui io e mio padre togliemmo le rotelle supplementari non era stato scelto a caso: mio papà aveva montato quelle rotelle in maniera tale che si sollevassero da terra quando riuscivo a stare inconsapevolmente in equilibrio. A rotelle rimosse, lui teneva la bici da dietro mentre io pedalavo e mi rendeva  consapevole del mio equilibrio battendo le mani. Ogni battito era un punto di coraggio e di orgoglio in più. Fu così che non ebbi più bisogno di rotelle e fu così che affrontai le prime ferite.

Andare in bici, soprattutto nei primi tempi, quando l’equilibrio è instabile, ci espone al rischio di cadere. Ricordo una volta in cui, per una distrazione, finì con il fianco sulle aguzze pietre che delimitavano un’aiuola: m’ero fatto così tanto male, che l’anziana signora che gestiva il vicino chiosco, mi corse in contro con del ghiaccio. Ricordo anche cadute più gravi, delle quali porto e porterò per sempre le cicatrici.
Nonostante tutte queste cadute e tutte queste ferite io ho continuato ad andare in bici perché so che una cosa del genere è pericolosa finché non se ne ha la giusta padronanza. Gli errori servono ad imparare, per capire come evitarli senza vietarsi nulla. Oggi cado con molta difficoltà perché ho imparato a fronteggiare le emergenze e sono preparato più o meno a tutto. Non sarei così se avessi detto “Mai più bici” alla prima ferita, al primo incidente grave. C’è gente  che lascia perdere una cosa possibilmente vantaggiosa o bella perché sono accaduti episodi spiacevoli. Insensate rinunce dettate dalla paura.

Bicicletta

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La vita non è un talk-show

«Il tuo ragionamento non regge, a prescindere da chi tu sia: stai sostenendo qualcosa che non mi piace e non posso darti ragione.  Ti devo smontare pezzo per pezzo, anche a costo di negare l’evidenza e di discutere sull’indiscutibile. Cambierò il significato dei termini, ti dimostrerò con sofismi che uno sbarbatello ha più esperienza di un novantenne cosicché tu non potrai far valere la tua esperienza su di me.
Rigetterò le prove che mi porterai, troverò il modo di farle diventare “non prove” e così ogni tua conclusione mancherà di fondamento. Non mi fido di te, pur di motivare la mia sfiducia sono disposto a canzonare il mio popolo, la mia gente, la mia nazione.
Se gli argomenti razionali non mi basteranno comincerò a smontare te, prima ancora delle tue idee, così qualsiasi cosa dirai sarà di scarso valore a prescindere dal contenuto. E se te ne accorgerai, io negherò così risulterai farneticante. Ti farò sentire sotto processo, sotto esame, sotto accusa così perderai il controllo e sarai più vulnerabile. Ti canzonerò facendo anche finta di darti ragione per poi riversarti addosso tutte le conseguenze più cupe che riesco ad immaginare. Farò leva sui sentimenti e sulle sensazioni affinché, in un momento di distrazione, il tuo ragionamento sia offuscato. Ti tenderò dei tranelli così ti tradirai e potrò penetrare le tue difese. E se non riuscirò da solo chiamerò altri ad aiutarmi.»

Distruggere, distruggere e ancora distruggere, mai costruire. Se sono queste le premesse di un dialogo, di un dibattito, di uno scambio d’opinioni – o in qualsiasi modo lo si voglia chiamare – non c’è speranza: meglio tacere fin dall’inizio. Quando si è veramente aperti al dialogo e si vuole conversare con qualcuno, si propongono costruttivamente argomenti, non si cerca di “abbattere” l’altro. Poveri noi, che facciamo dei nostri rapporti con gli altri, un intervento ad un talk-show.

Monoscopio

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Mars Climate Orbiter

Le unità di misura sono importanti, non tanto per avere un modo semplice di immagazzinare i dati ma, soprattutto, per capirsi. Esse sono infatti dei riferimenti, degli enti fissati e determinati che permettono di tradurre in numero e comunicare le caratteristiche di un oggetto o di un fenomeno anche a persone che non sono mai entrate in contatto né con l’oggetto, né con il fenomeno.

Possiamo capire l’importanza delle unità di misura con la storia del “Mars Climate Orbiter”: la sonda, lanciata nel 1998, venne distrutta quando, invece di posizionarsi ad una altezza di 140—150 km dalla superficie di Marte, si inserì nell’atmosfera marziana ad una altezza di soli 57 km dove fu disintegrata dall’attrito con l’atmosfera presente a quella quota. Si scoprì successivamente che alcuni dati erano stati calcolati a Terra in base all’unità di misura del sistema imperiale (libbra-forza/secondi), e riferiti al team di navigazione che invece si aspettava i dati espressi in unità di misura del Sistema metrico decimale (newton/secondi).
La missione era costata 328 milioni di dollari.

Anche le parole sono come le unità di misura: dovrebbero avere un significato univoco e determinato, non alterabile a proprio piacimento. Succede invece che le parole cambiano il loro significato fino a quasi invertirlo del tutto. Ci sono, certo, quelle parole che vanno in pensione, neologismi che nascono, nomi di oggetti che nel tempo si sono modificati, ma non sono queste le parole delle quali sto parlando.
Scambiamo stravaganza e trasgressione per creatività, ma non sono la stessa cosa; fraintendiamo l’irriverenza e la sfacciataggine con il coraggio, anche se il vero coraggio è ben altra cosa; equivochiamo la giustizia con la punizione del colpevole e la vendetta; confondiamo il diritto di esprimere la propria opinione con la libertà di offendere e canzonare; ed anche la “libertà” stessa è intesa come mera negazione di vincoli, a prescindere dalla ragionevolezza e bontà dei vincoli stessi.

C’è chi cambia i significati intenzionalmente, chi invece si adegua alla moda; una cosa però è certa: prima di iniziare a conversare conviene accertarsi che si parli la stessa lingua. Rischiamo altrimenti di fare pasticci sprecando tempo e denaro.

Mars Climate Orbiter

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Dignità di un albero

 Un albero è ancora un albero anche quando ha perso tutte le foglie, certe volte lo resta anche se lo si taglia di netto perché può germogliare di nuovo. È albero anche il figlio dell’albero, germogliato pochi giorni fa da una ghianda caduta al suolo. Anche quella ghianda: ha DNA di albero, viene dall’albero e ha germogliato un albero. L’albero smette di essere albero quando lo facciamo a pezzi, allora diventa solo legno. Cosa rende “albero” l’albero? La capacità di fare fotosintesi? La corteccia? Il tronco? Le foglie? Le sue dimensioni?

Un essere ha dignità e/o diritti per ciò che è in grado di fare o per ciò che è?

Albero

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Non è tutto vero ciò che è semplice

Nel film “Contact” di Robert Zemeckis (1997) la protagonista si ritrova, dopo varie vicissitudini, a sostenere un avvenimento della quale è l’unica testimone e per il quale non è in grado di fornire altra prova se non la sua stessa testimonianza. La spiegazione più “semplice” che il mondo scientifico dà all’accaduto è che sia stato tutto una colossale truffa. In realtà lo spettatore, che “ha visto tutto”, sa che la spiegazione della protagonista è vera e sa anche che una telecamera che registra in pochi millesimi di secondo un rumore di diciotto ore è una prova da non rigettare.
Il film mostra come, ignorando o rigettando alcuni elementi che sono in realtà validi, sia possibile giungere a conclusioni totalmente errate.


Spoiler: consiglio di non guardare a chi non vuole rovinato il finale del film.
Il volume è un po’ basso ma spero si senta lo stesso.

Il mondo della scienza non è nuovo a questo tipo di approccio fallace: lo abbiamo visto per quanto riguarda i fossili, ma cose analoghe sono successe per le meteore, i microrganismi e, perfino, il concetto stesso di “Big Bang”. Pensiamo, per esempio, all’esperimento di Rutherford: bombardare con particelle alfa un foglio d’oro e osservare i bagliori prodotti su uno schermo fluorescente dall’impatto di queste particelle. La maggior parte dei bagliori sono osservati dall’altra parte del foglio, evidenziandone l’attraversamento da parte delle particelle alfa. Una piccolissima quantità di bagliori viene però vista all’indietro: la spiegazione più “semplice” sarebbe quella di imputare questi ultimi bagliori a rumore di fondo e perturbazioni dall’esterno. Avessimo dato credito a questa spiegazione, penseremmo ancora che l’atomo sia un panettone con gli elettroni e i protoni al posto dei canditi. Come invece sappiamo, la spiegazione vera è più complessa: un nucleo; un grande spazio vuoto; elettroni che orbitano all’esterno.

Il Rasoio di Occam è il principio metodologico, formulato nel XIV secolo da Guglielmo di Occam, secondo il quale la spiegazione di un fenomeno è tanto migliore quanto minori sono le ipotesi ad essa necessarie. Potrebbe anche essere formulato, in altri termini, sostenendo che, a parità di fattori, la spiegazione più “semplice” sarebbe quella migliore.
L’esperienza personale insegna però che a maneggiare un rasoio con poca perizia si rischia di provocarsi qualche doloroso taglio o di restarci addirittura secchi. Il principio, di per sé, non è errato ma, di fatto, può essere applicato solo a casi abbastanza ipotetici, dove si può imporre l’ipotesi che l’osservatore sia a conoscenza della totalità dei fattori con grande precisione. Nel momento in cui l’osservatore ha a disposizione solo una piccola porzione degli elementi in gioco o sceglie arbitrariamente di ignorare alcuni fattori, si fa in modo che la spiegazione più semplice sia la propria. A questo punto, applicare il Rasoio di Occam diventa solo un modo per piegare i fatti alla propria teoria perché, per chiusura mentale, ne abbiamo stabilito la validità a priori.

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L’eccentrico imprenditore

Quando l’auto aveva nuovamente girato l’angolo Sabrina era ancora lì, a sorridere con le labbra ma non con gli occhi a quelle vetture che transitavano per la strada a passo d’uomo. Alcune si fermavano un po’ più avanti, alcune un po’ prima e caricavano le altre ragazze che, come Sabrina aspettavano.
L’eccentrico guidatore era già passato di lì per altri motivi ma, passando veloce, non aveva potuto fare a meno di notare il viso di Sabrina fra gli altri. Perciò aveva fatto il giro dell’isolato tornando indietro e mescolandosi agli altri automobilisti.

Lei si accomodò nei sedili posteriori e l’auto ripartì. Aveva notato lo sguardo strano del guidatore attraverso lo specchio retrovisore: sembrava guardare indietro, a quel luogo, come un profugo che avesse appena attraversato il confine del suo paese in guerra.
Di sguardi strani ne aveva visti abbastanza nonostante la sua carriera fosse iniziata da relativamente poco rispetto ad altre. Continuò a masticare la sua gomma e, quando furono abbastanza lontani, iniziò il solito “spettacolo” che faceva per tenere in caldo l’automobilista fino al luogo dove si sarebbero fermati. Aveva appena iniziato a sciogliere dei lacci quando notò che lo sguardo attraverso lo specchietto retrovisore non era “normale”. Stavolta non guardava indietro, guardava lei ma mancava quella brama che aveva visto luccicare altre volte. La cosa interruppe le sue operazioni.
«Dev’essere un pivello alla sua prima volta» – pensò Sabrina. Allora chiese: «Che c’è? Non hai mai visto una ragazza in vita tua?».
L’eccentrico uomo sospirò e disse: «È un vero peccato…» – guardò la strada, poi riprese – «Non meriti questo, sei fatta per cose più grandi». «Hai dei problemi?» – rispose Sabrina con il leggero timore di essere entrata nell’auto di un assassino o di un folle. «Cosa diresti se un grande compositore come Mozart non avesse fatto altro nella vita che lavare le scale?» – continuò l’uomo – «Cosa diresti se le sculture di Michelangelo fossero state usate come materia prima per farci i muri? È un peccato…» – «Ok, fammi scendere» – disse di scatto la ragazza, capendo che con quel matto non ci avrebbe ricavato un quattrino.
L’auto accostò ma, prima che Sabrina avesse aperto la portiera, l’uomo si era voltato allungando verso di lei un biglietto da visita e diverse banconote. «Nel caso volessi cambiare vita» – disse. Sabrina afferrò il mazzetto e uscì sbattendo la portiera. L’eccentrico uomo si aggiustò i polsini dell’elegante vestito e andò via. I soldi erano sufficienti per giustificare tutta la serata. Stranamente era scesa proprio vicino a casa sua.

Quella sera il sonno tardava a venire. Continuava a pensare a ciò che le era accaduto, a quell’uomo così bizzarro, a quello che le aveva detto, al suo sguardo. Poi pensò alla sua vita, al fatto che per la prima volta qualcuno credeva che lei avrebbe potuto fare qualcosa di meglio. Fino ad allora Sabrina si era convinta di essere una buona a nulla, di poter ambire al massimo a ciò che aveva già e faceva già.

Il giorno dopo versò la percentuale al bruto che “la possedeva”. L’individuo era talmente insensibile che non si accorse della differenza nel saluto e nel modo di guardarlo.
Pochi chilometri in autobus e si trovò all’indirizzo riportato sul biglietto da visita. Davanti a lei una grande azienda con un enorme cancello. Non si riusciva a vedere l’interno, forse nessuno in città c’era mai riuscito. La tentazione di alzare i tacchi era forte: in fondo poteva essere tutto un tranello, poteva ficcarsi in qualche guaio. Suonò al citofono. Non rispose nessuno ma il cancello automatico cominciò a scorrere aprendosi. Poco oltre il cancello c’era una casetta rurale ristrutturata dove viveva il guardiano. Attraverso il vetro lo vide parlare al telefono e sorridere. Poco dopo arrivò l’eccentrico uomo. «Grazie Antonio» – disse guardando il custode. Poi si voltò verso di lei – «Sono contento che tu abbia deciso di venire qui, Sabrina». La ragazza era un po’ stranizzata: era sicura di non aver mai pronunciato il suo nome a quell’uomo. Il suo pensiero fu interrotto dalla voce dello stravagante signore: «Seguimi!».

Mentre penetravano nell’enorme complesso Sabrina incrociava lo sguardo di quelli che lavoravano là dentro: non c’era ombra di tristezza, di fatica, di delusione. «Antonio, il custode…» – diceva l’eccentrico signore – «Sai che era un ubriacone? Ha accettato anche lui ed ora ha una famiglia, una casa e un lavoro.» – continuò indicando altrove – «Vedi quell’ingegnere a quella scrivania? Sta progettando un sistema estremamente complesso che solo lui può sviluppare. L’ho trovato che faceva il barbone dopo aver fondato la sua esistenza sul successo e aver fallito per aver fatto il passo più lungo della gamba. Ora lavora con noi e fa delle cose meravigliose.» – passando vicino ad un operaio che saldava una paratia – «Armando, aveva fatto un grosso sbaglio nella sua vita. Ho dovuto creargli un’identità nuova per convincerlo ad unirsi a noi. Ora è letteralmente ri-nato: la sua vita piena di errori si è trasformata in una vita piena di valori.» – giunti ad un ufficio che non era stato assegnato a nessuno, l’uomo la guardò e disse: «È il tuo momento, Sabrina. Oggi inizia la tua nuova vita nella nostra famiglia, amica mia».

Chiedo scusa per il post estremamente lungo. Non contento aggiungo questo cortometraggio della durata di circa venti minuti. Ringrazio Vittoria per avermelo fatto notare.

 

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