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Regali

Ancora a proposito di cose date per scontate, ignorate perché considerate sistematiche e matematicamente dovute come se averle fosse una legge fisica, ce n’è una particolare che forse è la più importante di tutte.

Le persone che effettivamente vivono come punti isolati, provvedendo completamente a sé stesse e considerando il mondo come un “do ut des”, sono davvero poche e non fanno una bella vita, proprio perché a mancare è quella componente fondamentale alla quale nessun essere umano può rinunciare senza soffrire almeno un poco.
Una cosa così fondamentale da provocare così grandi devastazioni nel cuore non può essere devalorizzata al punto da ritenerla un bene di basso valore, elargito a titolo gratuito perché “io sono io e me lo merito”.

Come ho cercato di dire nel post precedente, non esiste entità che merita l’assegnazione di un valore così basso. Neanche l’aria che respiriamo, così abbondante, naturalmente presente e fruita ad ogni inalazione, è banale che ci sia: basta un po’ di inquinamento, il ritrovarsi sott’acqua o nello spazio, avere qualche problema respiratorio, per accorgersi che il poter respirare è un regalo prezioso.
Di tutte le cose che riceviamo, ce n’è quindi una per la quale sarebbe letteralmente delittuoso ignorarla perché da essa proviene buona parte delle altre. Il più grande delitto che possiamo fare è non renderci conto di quanto siamo amati.

Regalo

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Nella realtà, non misurabile

Prendiamo un quadro di un artista famoso, una creazione di grande bellezza. Tutti sappiamo che il suo valore non è dato soltanto dal costo della tela, dei pigmenti e della manodopera dell’artista. Possiamo anzi dire che il valore di un’opera d’arte ha ben poco a che fare con le sue caratteristiche fisiche o l’insieme delle sue proprietà misurabili e scientificamente interpretabili. La bellezza non è misurabile ma esiste, non c’è sensore al mondo in grado di rilevarla ma tutti possiamo apprezzarla.

Certo, c’è chi potrebbe dire che il valore estetico è qualcosa di arbitrariamente deciso dall’uomo o che la bellezza è qualcosa di soggettivo, ma chi parla così ha quanto meno la memoria corta: le mode passano; la bellezza resta.
Non stiamo parlando del valore nominale di una banconota. Da qualsiasi posto sperduto del mondo una persona possa provenire, la reazione davanti alla bellezza è la stessa – purché sia vera bellezza e non l’opinabile gusto dettato dalla critica o dalla moda del momento. Se proprio non vogliamo considerare un’opera dell’uomo, verifichiamo quante persone non apprezzerebbero lo spettacolo di un tramonto mozzafiato. La bellezza, è una delle poche cose universali che l’uomo conosca.

Universale, non misurabile, intangibile, ma reale, presente, sperimentabile con gli strumenti del cuore dell’uomo, i quali sono validi tanto quanto i rivelatori al germanio iperpuro. La porzione della realtà che si rivela investigabile con i soli strumenti che la scienza mette a disposizione è marginale. Forse aumenterà, forse resterà tale; non lasciamo che il materialismo riduca la nostra esperienza ad un foglio di calcolo. Cominciamo ad apprezzare la bellezza di una bella opera d’arte come questa:

Natività di Lorenzo LottoNatività – Lorenzo Lotto (1530 circa)

Consideratela il mio augurio di un felice Natale e buone feste.

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L’assistente

L’altro ieri mi trovo all’aeroporto della mia città per l’ennesima trasferta di lavoro. Passati i controlli di sicurezza, mi metto a sedere vicino al mio gate in attesa dell’apertura.
Da una porta alla mia destra vedo uscire un addetto dell’aeroporto che spinge la sedia a rotelle di un anziano signore. Mentre mi passano davanti sento l’addetto parlare con il suo assistito:

«Qu…Qu…Quan…nn…ndo è pro…pro…prooon…nn…to m…mi chi…chi…chiam…mm….ma»

Il poveretto aveva una fortissima balbuzie e sforzava il suo viso con mille smorfie prima di riuscire a comunicare. Nel frattempo spingeva la carrozzella scomparendo fra la folla della grande sala di imbarco.

È stato proprio mentre osservavo questa scena che ho riscoperto un concetto importante. Certe volte ci viene difficile aiutare qualcuno perché ne abbiamo scarsa empatia, non riusciamo a comprendere la sua condizione, non conosciamo le difficoltà che deve affrontare. Quando però siamo noi ad avere – momentaneamente o permanentemente – qualche problema, in un modo o nell’altro, ci rendiamo conto del nostro vero valore e ci ridimensioniamo, scoprendo chi sta peggio di noi. A volte serve una bella spinta per scendere da quel piedistallo che ci fa sentire tanto alti da non dover fare caso a chi sta sotto.

Sedia a rotelle

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Lo scoglio addobbato

Chi usa immergersi con la maschera, nuotando fra gli scogli, sa che talvolta si può incontrare qualche roccia “addobbata” come fosse un albero di natale. Non è la mania di qualche burlone filo-natalizio né uno scherzo della natura: si tratta di esche finte.
I pescatori lanciano le loro esche colorate – e costosissime – fra gli scogli perché hanno maggiore probabilità di pescare qualche pesce ricercato. Il rovescio della medaglia è che capita sovente di incastrare l’amo nelle irregolarità di qualche roccia del fondale; magari lo stesso sasso dove tutti i pescatori che frequentano quel luogo commettono lo stesso errore. Quando capita, al pescatore non resta che tagliare il filo e procurarsi un’altra esca.

Pur non avendo mai pescato neanche una sardina in tutta la mia vita, ho una collezione di ami, esche e pezzetti di filo – tra gli scogli c’era anche un piccolo pesciolino di gomma, chissà quanto sarà costato all’incauto pescatore…
Il pescatore che ha esperienza sa dove lanciare l’esca e come tirare il mulinello per evitare di perderla su qualche scoglio. Se tiene alla sua esca è disposto a tuffarsi per recuperarla. L’esperienza ed il senso del valore non crescono però sugli alberi.

Forse quello scoglio “addobbato” è proprio lì per insegnare qualcosa: c’è chi dell’errore fa tesoro, ascolta la voce di chi ha più esperienza ed impara il valore di ciò che rischia; c’è però chi vuole vivere sereno, abbassa mentalmente e di proposito il valore dell’esca cosicché, anche lasciandola sistematicamente sullo scoglio, possa raccontarsi di non aver perso nulla di valore. Purtroppo i valori della vita sono ben più preziosi di qualche costosa esca e non dovrebbero essere barattati per una vita apparentemente senza pensieri.

Esca finta

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Storie di sacchetti e di scatole

Verso le sei del pomeriggio arriva una donna esile, quasi tremolante, dai movimenti lenti e ponderati come se ogni azione significasse un enorme sforzo per l’organismo. Sulla testa un foulard dal quale non sporgeva neanche un capello, anzi, era indossato in quel modo tipico di chi vuole nascondere la traccia più evidente della sua terribile malattia.
Si avvicina spingendo il carrello quasi vuoto. Nella tremolante mano destra un sacchetto giallo annodato. Lo allunga verso il volontario; prende il biglietto di ringraziamento e poi torna a spingere il carrello verso l’uscita. Oltrepassata la zona dell’ingresso, ingombrata dagli scatoloni, la donna si mette da parte a controllare lo scontrino minuziosamente: non devono esserci errori; lei non può permettersi errori. Mentre accade questo il mondo è fermo per quel volontario, immobile con ancora quel sacchetto fra le mani, a commuoversi per quanto stava osservando.

Un’ora dopo un’altra donna giunge nella zona dell’ingresso. Cammina veloce, ben vestita, sguardo alto o – per meglio dire – altezzoso. Il suo sguardo non si permette di incrociare quello del volontario e sfreccia oltre, quasi con stizza. Oltrepassato l’ingresso, dove il suo volto non può più essere visto da nessuno dei volontari, esclama: «Tanto se le tengono» (alludendo alle varie buste gialle da loro ricevute). La coscienza raramente la si prende in giro e per le cose cattive consiglia vergogna (e quella esclamazione tanto ricorda la favola “La volpe e l’uva” di Fedro).

Arriva il camion per ritirare le donazioni. L’autista scende con un carrellino sapendo che dovrà trasportare centinaia di chili dividendoli in più viaggi.
Accade però un imprevisto: i ragazzi si chiamano fra loro; spontaneamente formano una catena e si passano gli scatoloni l’un l’altro. In un attimo il camion è pieno.

Per queste scene realmente avvenute è superflua ogni ulteriore meditazione: ciascuno può trarre le dovute conclusioni senza aiuti.

Busta gialla

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Il tramonto dei sognatori

Ieri a cena il discorso è caduto su alcune attività commerciali della mia città. Un grande rivenditore di elettrodomestici ha chiuso i battenti. Ci avevo comprato un glorioso videoregistratore Minerva a sei testine, la macchina del gelato tuttora utilizzata – slurp! – ed un piccolo registratore per le conferenze. Ora quello stabile è triste: luci spente, ambienti vuoti, saracinesche abbassate.
Qualche anno fa anche la cartoleria che avevo sotto casa ha chiuso. Era una risorsa per tutto il quartiere, ed anche oltre – data la sua vicinanza al complesso che ospita asilo, elementari e medie della zona – considerando che l’equivalente più vicino dista quasi un chilometro. Ora non saprei dire bene cosa ci sia o ci sarà in quegli stessi locali: mesi fa era un negozio di moda, fallito anch’esso – al quartiere serve la cartoleria, è difficile da capire? – e sostituito da un fruttivendolo che vedo sempre a corto di clienti.

La stessa brutta sensazione degli esempi precedenti la provo anche quando ripenso allo Space Shuttle, la gloriosa navicella riutilizzabile della NASA che è andata in pensione senza lasciare eredi. Il cosmo, l’esplorazione, la tipica voglia umana di andare dove nessun uomo è mai giunto prima, sono inflazionati e pertanto chiudono i battenti. Non interessa più.
Secondo me questo la dice lunga su un’umanità che perde pian piano la sua essenza confondendosi nel mare di distrazioni e svaghi che una certa mondanità offre. A che serve sognare di esplorare Marte se puoi sollazzarti con i giochini dell’Iphone? A che giova immaginare missioni verso l’ignoto quando puoi trascorrere il pomeriggio guardando i messaggi di stato dei tuoi contatti su Facebook? Perché sfidare sé stessi nell’escogitare il modo di realizzare grandi sogni quando la sera si ha il divertimento dei giochi erotici?

Dov’è finito l’uomo esploratore che sfidava la morte per raggiungere il polo? Dove sono i John Glenn, gli Auguste Piccard, i Cristoforo Colombo? Siamo sicuri che sia più bello e più degno per noi esseri umani appiattirci in una dimensione di pigrizie soddisfatte dalla tecnologia e di orizzonti limitati a poche avventure casalinghe?
No; mi spiace. Io non riesco a rinnegare la mia natura di sognatore, esploratore, avventuriero. Apparirò come uno che butta il suo tempo in fantasticherie, come un giovanotto avventato, come uno che non ha la testa sulle spalle, ma ritengo che serva anche questo a rendere doverosa giustizia all’umanità che c’è in me, colmando il desiderio di infinito che ho nel cuore.

Esplorazione

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L’immagine sulla moneta

Prendiamo una qualsiasi moneta, meglio ancora se antica. Sulla sua superficie troviamo il simbolo o l’iscrizione dell’autorità che l’ha emessa, oltre al suo valore nominale. Valore ben diverso da quello intrinseco, che è il costo dei materiali e della fabbricazione della moneta stessa. Oggi la differenza fra questi due valori è molto grande: il metallo di cui è fatta una moneta ha un valore ben più inferiore a quello su di essa riportato. Eppure nessuno si sognerebbe di gettar via banconote solo perché sono dei pezzi di carta. Chiunque che sappia cosa sia il denaro comprende infatti che il valore della banconota non sta nella sua sostanza materiale ma che c’è un valore aggiunto di ordine non materiale.

Ritorniamo alla moneta. Se è antica, molto antica, potremmo trovare l’immagine del regnante che l’ha coniata. Perché una persona dovrebbe prendersi la briga di stampare la propria faccia su tutte le monete? Mettendo da parte cose come la megalomania, un motivo è certamente quello di garantire “con la propria faccia” il valore nominale della moneta. La mia faccia, il mio simbolo, il mio nome sulla moneta dice anche “questa l’ho fatta io” e “ricorda che l’uso, il valore, di questa moneta proviene da me”. Chi ha in mano quella moneta sa che il suo uso “naturale” è quello che rispetta quell’immagine e quel valore che essa riporta; sa che il possesso della moneta o il sapere che è fatta di metallo non ne cambia né il valore né la natura.

E cosa possiamo dire di ciascuno di noi? Condividiamo un cuore umano, una regione della coscienza che reca un’impronta, qualcosa che ci dà senso e valore, sebbene differiamo in tanti punti - come differivano le monete (sempre artigianali) coniate in passato ma pur sempre realizzate con lo stessa immagine.

Moneta romana

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Maledette utopie

Nell’episodio dal titolo “Il ritorno degli arconti” in Star Trek The Original Series, alcuni membri dell’equipaggio dell’Enterprise sbarcano sul pianeta Beta III sulle tracce dell’astronave “USS Archon”, scomparsa cento anni prima. L'immagine di Landru Il capitano Kirk e la sua squadra scoprono che la società che abita Beta III è estremamente schematizzata nei suoi comportamenti: ogni essere umano che incontrano sembra far parte di una collettività – “il corpo” – dominata da comportamenti programmati e che ha bandito ogni sorta di iniziativa personale, a cominciare dalla creatività. Fautore di questa situazione è un’entità chiamata Landru, un fantasma dalle sembianze umane che esercita tirannicamente un completo potere sulle coscienze degli abitanti.

Alcuni abitanti risultano essere immuni all’effetto di Landru ma lo temono poiché il suo potere è capace di scagliare contro di loro tutto il resto della popolazione. Questa “resistenza” aiuta, dopo varie vicissitudini, la squadra del capitano Kirk a raggiungere il luogo dove risiede Landru. Si scopre dunque che Landru non è altro che un potente computer che ha assunto il nome del suo creatore e che si prende cura degli abitanti impedendo ogni conflitto individuale ed ogni guerra.Landru
Il computer Landru è motivato da una buonissima intenzione e non fa altro che aderire ad un sofisma logico abbastanza semplice: eliminare tutto ciò che nuoccia agli abitanti, comprese le passioni umane che inevitabilmente conducono a dei conflitti.

Possiamo riconoscere in Landru diverse ideologie totalitarie del secolo scorso ed il pensiero di molte persone di oggi. Una buona parte di coloro che si dicono “in lotta” per un mondo “migliore” ha in mente un’utopia nella quale gli esseri umani si sono “liberati” da quegli ideali e da quei comportamenti che renderebbero “peggiore” il mondo di oggi. Nonostante le utopie prospettate possano anche essere individuali (cioè ognuno ha la sua) il tratto che le accomuna tutte è la rimozione di qualcosa che si ritiene superfluo allo scopo di eliminare i problemi sociali all’origine.
Se l’intenzione è buona – rispetto dei diritti; pace nel mondo etc. – la soluzione che permetterebbe di compierla è pessima. L’uomo smette di essere umano se rinuncia anche solo ad una piccola parte della propria umanità, ai desideri del suo cuore. Il cuore dell’uomo non brama solo la pace o soltanto la soddisfazione dei sensi ma anela all’infinito e alla trascendenza, insieme a tante altre cose non misurabili che lo rendono fragile e “imperfetto” ma tremendamente ricco e autentico.

Alla fine dell’episodio Kirk dimostra a Landru che con il suo agire sta nuocendo al suo popolo devastandone l’umanità. Al computer non rimane altro che auto-distruggersi per soddisfare il sofisma dell’eliminazione di tutto ciò che nuoce alla sua gente.

Abitanti di Beta III si salutano in modo meccanico

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Accadde proprio lì

Maria era stracotta di un suo compagno di classe, Antonio. Si sorprendeva spesso ad osservarlo intensamente; lo sguardo fisso su di lui; il tempo come rallentato mille volte cosicché ogni istante sembrava avere la durata di intere ore. Era successo poche volte che anche lui si voltasse verso di lei e, anche se si trovava all’altro capo della stanza, quell’incrociarsi di sguardi, pupilla contro pupilla, generava in Maria effetti di potenza paragonabili ad un uragano.
I due si scambiavano anche qualche parola ma la ragazza non aveva mai confessato i suoi sentimenti. Non pensava di essere considerata da Antonio qualcosa di più che una buona amica ma, in fondo al cuore, aveva come la sensazione che i suoi sentimenti fossero ricambiati.

Per il suo compleanno Maria aveva organizzato una piccola festicciola a casa sua. Aveva invitato diversi amici e, certamente, non si era lasciata sfuggire l’occasione di invitare anche Antonio. Ad un certo punto della festa, si era deciso di divertirsi tutti con un gioco da tavolo. Si rideva, si scherzava ma, mentre si giocava, Antonio si accorse che Maria non c’era. Alzatosi la andò a cercare.
Si incrociarono, anzi scontrarono, in un angolo tranquillo della casa. In quell’angolino anonimo, mentre si sentivano le risate dei loro amici provenire dall’altra stanza, avvenne la cosa più inaspettata e straordinaria che Maria potesse immaginare.

Anche a distanza di diversi giorni, a Maria bastava uno sguardo verso quell’angolo della casa per rievocare quell’istante meraviglioso. Decise allora di proteggere quel luogo dal tempo: sarebbe rimasto per sempre così, esattamente come quel giorno.
Non fu facile: dovette imporsi sui genitori e arrivare, qualche volta, al litigio; ne aveva straordinaria cura. Con il passare degli anni fece di tutto per restare in quella casa quando i genitori si trasferirono altrove. Anche quando era una mamma, non permetteva ai figli di giocherellare in quella zona e, quando furono abbastanza grandi, spiegò loro anche perché.
Ora, accompagnata dagli acciacchi dell’età, teneva per mano la nipotina e si preparava a raccontare ancora una volta la storia di quel luogo: «È proprio qui che il nonno ed io ci scambiammo il nostro primo bacio. È rimasto esattamente come quel giorno». Gli occhi della ragazzina erano pieni di stupore per quel luogo sopravvissuto per quasi un secolo ai cambiamenti che avevano subìto la casa e i suoi abitanti.

Quando in un dato luogo avviene qualcosa di veramente grande, una sorta di “big bang” della nostra storia, si tenta in tutti i modi di conservarlo, di preservarlo. Quel luogo, che prima era anonimo e uguale a tanti altri, non è più lo stesso: si carica di memoria e ne diventa segno tangibile, testimone di un avvenimento.

Soglia

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Il gioco degli isolotti

Da qualche mese, giusto per distrarmi dieci minuti dallo stress giornaliero, ho aperto un account su un gioco online che chiamo scherzosamente “il gioco degli isolotti”. Sostanzialmente il gioco permette di costruirsi la propria città con le proprie colonie sparse su vari isolotti ed amministrarne lo sviluppo investendo in settori come la ricerca, il commercio, la soddisfazione della popolazione, la cultura, la difesa etc. La tempistica del gioco è tale che può benissimo essere gestito accedendo una volta al giorno, quel tanto che serve per fare il punto della situazione e predisporre nuovi provvedimenti.

Pur essendo dislocati su degli isolotti non si è per nulla isolati. Altri giocatori hanno le loro città sparse tutto intorno e l’interazione con loro può essere di molti tipi: si può fare del commercio scambiandosi risorse; ci si può scambiare beni culturali da introdurre nei rispettivi musei; si può essere amici, condividendo i risultati delle ricerche etc.
Purtroppo esiste anche un altro modo di interagire, ossia la guerra. Ieri notte la mia città è stata attaccata da un altro giocatore: ho perso 43 uomini ma alla fine l’attaccante si è dovuto ritirare perché non gli erano rimasti più soldati.

Quando il giorno dopo ho scoperto l’accaduto avrei potuto seguire l’istinto  e rispondere mandando il mio esercito all’attacco contro quel fellone per fargliela pagare. Aprii invece il pannello della diplomazia e gli scrissi un messaggio: «Mi spiace che tu abbia perso i tuoi soldati. Se ti va possiamo essere amici». Quella proposta sconvolse non poco quel giocatore: abituato com’era ad un modo di giocare dove vinceva il più forte e il più furbo non si aspettava certo una reazione del genere. Successivamente gli spiegai che la mia politica era il commercio e l’amicizia, mai la guerra se non per difesa.
Ora siamo amici e ritengo improbabile che mi attacchi ancora ma spero che questa vicenda abbia cambiato il suo sguardo verso gli altri giocatori: vederli non più come città da saccheggiare ma come persone vere – e fragili – che si trovano dall’altra parte dello schermo.

Lascio trarre al lettore la morale di questa storia. Per quanto mi riguarda, spero che questa vicenda si ripeta anche e soprattutto al di là del gioco.

Ikariam

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