Articoli da settembre 2010



La radio

Tutti conosciamo dell’esistenza di quelle radioline “tascabili” con l’antennina e le batterie, di quelle che si acquistano con poco. Per noi che viviamo nel ventunesimo secolo, circondati da internet, wireless e telefonini cellulari questi aggeggini non hanno misteri, ma divertiamoci qualche istante immaginando di avere accanto un abitante del passato. Va bene qualsiasi epoca, purché sia più antica di 100 ÷ 150 anni fa.

Senza dirgli niente, affidiamogli la radiolina – magari accesa – e vediamo cosa succede.
Senza dubbio, se il nostro amico è un tipo curioso e sperimentatore, cercherà di scoprire da dove vengono le voci e i suoni che ode. Sezionerà la radio, cercando al suo interno la misteriosa sorgente di quei suoni e, molto probabilmente, non la troverà. Non troverà una piccola persona che parla o una piccola orchestra. Potrà forse immaginare che quelle non siano vera voce e vera musica, ma frutto di artificiali e casuali flussi di energia all’interno della radio stessa.

Finché non spieghiamo dell’esistenza delle onde elettromagnetiche – sempre ammesso che ne siamo in grado e che il nostro ascoltatore sia in grado di capirci - quella persona continuerà a cercare nel posto sbagliato.

Anche se così non sembra, ci sono ancora molte, moltissime cose che stiamo cercando nel posto o nel modo sbagliato; cose che probabilmente non siamo ancora in grado di capire ma che supponiamo – con leggera superbia – di aver capito alla perfezione; cose a noi ancora invisibili e inimmaginabili come lo erano le onde elettromagnetiche per la gente di qualche secolo fa.
Ciò che sappiamo attualmente è solo una versione comprensibile della realtà e della realtà osservabile: apertura mentale è ammettere che c’è sempre qualcosa oltre ciò che conosciamo, anche se quel Qualcosa appare assurdo o illogico.

Radiolina

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Fiducia e dimostrazioni

Ci sono volte in cui noi possiamo fare tutto quello di cui ha bisogno un’altra creatura, se solo questa si fiderà di noi. Quando liberiamo un cane da una trappola, estraiamo la spina dal ditino di un bimbo, insegniamo ad un ragazzo a nuotare, o salviamo uno che non ne è capace, quando aiutiamo uno spaventato principiante ad attraversare un valico pericoloso di montagna, il solo ostacolo fatale può essere la loro sfiducia.

Stiamo chiedendo loro di fidarsi a dispetto dei loro sensi, della loro immaginazione e della loro intelligenza. Stiamo chiedendo loro di credere che un nuovo dolore farà passare il dolore e che ciò che sembra un pericolo è invece la loro salvezza. Chiediamo loro di accettare per vere cose che sembrano apparentemente impossibili: che spingere la zampa ancora più dentro la trappola è il solo modo di uscirne – che ferire ancora di più il ditino farà passare il dolore – che l’acqua che è evidentemente permeabile farà resistenza e sosterrà il corpo – che afferrarsi all’unico sostegno a portata di mano non è il modo per non annegare – che salire più in alto fino ad uno spuntone di roccia ancora più sporgente è il solo modo per non precipitare.

A sostegno di tutte queste cose incredibili possiamo solo fare assegnamento sulla fiducia dell’altro verso di noi – una fiducia che certo non si basa su dimostrazioni, che è ovviamente intrisa di emotività e forse, se l’altro ci conosce poco, basata su niente altro che il grado di sicurezza che gli infonde la nostra faccia, o il nostro tono di voce, o perfino, nel caso del cane, il nostro odore. A volte, proprio per la fiducia degli altri, noi riusciamo a fare grandi cose.

Clive Staples Lewis, Club Socratico di Oxford 1955

C. S. Lewis

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Le magie dei genitori

Ricordo che quando frequentavo ancora le elementari, pochi giorni dopo l’inizio della scuola, mio padre cercava di insegnarmi il rispetto per le mie cose mostrandomi come si foderavano i libri. Il suo scopo era anche quello di rendermi autosufficiente in questi lavori e non doverlo più fare lui ma non è di questo che voglio parlare.

Capitò un anno che fu comprato un rotolo di plastica trasparente colorata per foderare i miei libri scolastici. All’interno del rotolo c’era un adesivo che trovai veramente bello. Era una di quelle targhettine dove scrivere il proprio nome e cognome in modo da dare un proprietario al libro anche qualora non fosse tra le mani di chi lo aveva legittimamente acquistato.
Sono passati tanti anni e non ricordo più neanche cosa ci fosse disegnato sopra, forse un paio di coccinelle.

Come al solito, venne il momento di foderare i libri. Immagino di aver voluto tentare di fare tutto da solo ottenendo qualcosa di veramente brutto, perché mio padre decise di togliere la fodera al libro per rifarla. Il problema è che avevo già incollato quel bellissimo adesivo che, in un tentativo di staccarlo dalla fodera di scarto, si strappò irrimediabilmente.
Ero davvero seccato, anzi, credo di essermi messo pure a piangere.

Mio papà allora mi disse che ci avrebbe pensato lui ma che io non avrei dovuto vedere cosa andava a fare e dove andava. Qualche tempo dopo era di ritorno con l’adesivo pulito e integro. Mi sono sempre chiesto se in quel frangente fosse andato a comprare un rimpiazzo oppure se, prevedendo cosa sarebbe successo, ne avesse acquistato un doppione.  Avevo comunque intuito che quella “magia” doveva averla compiuta con i mezzi dei quali disponeva. Che si fosse insomma “servito” di meccanismi che conosceva abbastanza bene per farmi credere di aver fatto una magia.

L’essere stato – per così dire – ingannato è forse un motivo per volere meno bene al mio papà? Sapere che quella volta non ha fatto una vera magia lo rende meno buono verso di me o meno meritevole del mio rispetto?
Può capitare che chi ci voglia bene faccia dei “miracoli” senza dover scomodare il mondo dell’impossibile ma, spesso, quando veniamo a sapere “il trucco” ci dimentichiamo del bene che ci vuole quella Persona concentrando tutta la nostra attenzione sulla “offesa” ricevuta.
Che importa se quel giorno il sole ci parve fermo perché riflesso da un particolare strato di nubi? Che importa che quell’arcobaleno fosse la luce solare decomposta da miliardi di goccioline d’acqua? Ciò che dovrebbe importare è il senso dei gesti che vengono fatti per noi, soprattutto se è un senso dato da chi ci vuole bene.

Mago Merlino

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Nell’armadio

Per Carlo era il primo giorno in quella nuova classe, in quell’ambiente sconosciuto. La comprensibile ansia per l’ignoto che lo circondava svanì improvvisamente quando vide entrare in classe Lucia. Era la più bella ragazza che avesse mai visto.
Quando fu l’ora di ricreazione, si avvicinò al gruppo di persone che parlavano con lei: «Dobbiamo raccogliere i soldi per il regalo di compleanno di Patrizio» – «Quanto ci mettiamo a testa?» – «Decidete voi, tanto per me va bene qualunque cifra» – «Mica siamo tutte fortunate come te, Lucia» – «Forse non è del tutto vero: pensa a quando dovrà cercarsi un ragazzo… dovrà essere uno economicamente alla sua altezza…»

«Ahi! Qui si mette male, caro Carlo» pensò il nuovo arrivato. Carlo non era certo ricco, anzi, si pagava gli studi lavorando part-time come cameriere in un ristorante. Ma non era affatto cattivo e non era affatto una brutta persona. Lucia doveva scoprire il bello di Carlo ma tra loro due c’era un muro economico che sembrava insormontabile.
«Guarda, il nuovo arrivato» – «Ti chiami Carlo, giusto? Parlaci un po di te! Dove abiti?»

«Vivo in una lussuosa villa!» – un secondo dopo, Carlo si era già pentito di averlo detto ma facendolo aveva abbattuto quell’immenso muro che lo divideva da Lucia. Ora doveva proseguire con la commedia o non avrebbe solo perso Lucia ma anche la sua reputazione.
Con il passare dei giorni Lucia si innamorava sempre più di Carlo, non perché fosse “ricco” ma proprio per la parte vera e bella di lui. Questo a Giorgio non andava proprio giù perché lui stravedeva per Lucia da molto prima che si facesse vivo Carlo e lei non lo aveva mai degnato di considerazione.

Giorgio era ormai ossessionato: braccava Carlo e sorvegliava ogni sua mossa. Alla fine scoprì chi era realmente perciò invitò tutta la classe a mangiare nel ristorante dove lavorava Carlo.
Come era prevedibile, tutti videro che Carlo era solo un cameriere. La maggior parte dei compagni se ne andò con indignazione. Non per aver scoperto “la verità” su Carlo, ma per essere stata coinvolta, usata e condotta lì solo per “smascherare” il ragazzo.
«Non è divertente?» chiese Giorgio con sorriso compiaciuto.

Giorgio mi ricorda certa stampa e, in particolare, buona parte del giornalismo di inchiesta in questo paese: spesso si fanno inchieste su inchieste, indagini senza fine perseguendo una maniacale ricerca di scheletri nell’armadio. Il movente di questo immane dispendio di energie non è certo la passione per la verità né un buon senso della giustizia, perché anche nel cercare ciò che è giusto c’è una misura e c’è un modo opportuno.
Spesso si cerca la verità scomoda per il proprio nemico, per l’oggetto della nostra invidia o gelosia; si identifica qualcuno da odiare e rovinare perché ci sembra irraggiungibile la sua fortuna e vogliamo togliergliela. La vera maniera di perseguire ciò che è vero e ciò che è giusto è promuoverne il fascino e non rovinare quella brava persona che, colpevolmente o meno, ha commesso qualche errore.

Scheletro nell'armadio

P.S. Qualcuno abbastanza cresciuto potrebbe riconoscere la scena di un film che mi ha ispirato questo post. A voi ricordarlo.

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La studentessa ritrovata

Quella che segue è una storia vera, accaduta non più di tre giorni fa.

Irina aveva intrapreso un lungo viaggio per giungere dalla Russia fino alla sede del convegno. Vi partecipava gente da un po’ tutto il mondo, tra studenti coetanei e docenti si contavano quasi ottanta presenze.
Quando era arrivata, quasi nessuno l’aveva notata. A malapena aveva ricevuto dalla reception il materiale del convegno e le chiavi della stanza. Era molto timida e si emozionava facilmente.

Il secondo giorno fu chiesto ai partecipanti di esporre il loro lavoro nell’aula principale. Quando venne il turno di Irina l’emozione e la timidezza ebbero il sopravvento, così non fece una gran bella figura davanti a tutti. Avrebbe voluto scomparire seriamente, non essere mai stata lì.

Venne il giorno della cena comunitaria. Il gruppo dei partecipanti si riunì all’ingresso della sede e si spostò a piedi per le vie della città verso il ristorante. Irina era tra gli ultimi, sempre nascosta o quasi, taciturna per lo più.
Forse per scattare qualche foto, forse per ammirare qualcosa che aveva visto lungo la strada, si accorse improvvisamente di essere rimasta sola in una strada che non conosceva, in un luogo straniero dove non parlavano la sua lingua.

«Ecco, mi sono persa.» pensò «Sono l’ultima ruota del carro e nessuno può aiutarmi a uscire da questa situazione».
La poveretta vagava ormai da diverse decine di minuti, sempre più angosciata ed infelice, quando in fondo alla strada vide due facce note. Erano due studenti come lei che partecipavano allo stesso convegno.
«Eravamo molto preoccupati. Quando ci siamo seduti al ristorante ci siamo accorti che non c’eri»
I tre raggiunsero il locale e quando Irina varcò la soglia tutti i quasi ottanta partecipanti applaudirono contenti perché era stata ritrovata.

Irina attraversò la sala con il sorriso e sedette insieme agli altri.

Applausi

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Il soffio

In una valle del Giappone viveva, tanto tanto tempo fa, un anziano signore che poteva vantare un giardino di estrema bellezza. Aveva cominciato costruendo uno steccato dipinto con il colore del cielo stellato; aveva messo delle piccole lanterne qua e là affinché il suo giardino potesse essere apprezzato anche di notte. Anche se ancora non c’era nulla di apprezzabile, il paziente vecchietto aveva già in mente come sarebbe stato il suo giardino.

Gli anni passavano ed il giardino cominciava a prendere forma. Aveva scavato un ruscello per irrigare meglio la grande varietà di piante e fiori che aveva coltivato.
Un giorno cominciò a decorarlo con delle forme che ricavava dalla carta colorata. All’inizio faceva solo delle figure geometriche ma poi migliorò costantemente  realizzando delle figure stilizzate di animali di ogni tipo.

Il giardino era quasi finito e l’anziano signore passeggiava fra le sue creazioni. Quegli animali erano tutti delle sagome più o meno bidimensionali, figure che non racchiudevano un volume dentro loro. «Voglio fare qualcosa che sembri vivo, che abbia un suo volume» pensò l’artista.
Prese un altro foglio di carta colorata e lo piegò riflettendo bene. Non era difficile e sembrava stesse facendo uno dei soliti animaletti. In effetti non differiva molto dalle altre creature che aveva modellato: era fatto di carta come le altre creature; era bidimensionale e immobile come le altre creature.

L’unica differenza era un piccolissimo foro nella sua parte inferiore.
L’anziano artista prese la sua creatura appena modellata, la portò vicino alla bocca e soffiò dentro il piccolo foro. «Ecco! Era proprio questo ciò che volevo». La gru che aveva creato era diventata speciale grazie a quel soffio: uguale nel materiale e nella tecnica alle altre creature ma meravigliosamente unica perché non più bidimensionale.

Origami

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Botafumeiro

La diciassettesima edizione della Euroschool on exotic beams si sta svolgendo a Santiago de Compostela, una bella città rinascimentale che vanta un’università abbastanza prestigiosa (anche se più recente della mia).

C’è un oggetto di interesse fisico in questa città. Il botafumeiro è il turibolo più grande del mondo ed è appeso ad una grossa puleggia tramite una fune. Il moto del botafumeiro potrebbe sembrare un semplice pendolo piano, spiegabile facilmente con una equazione molto semplice. Si tratta invece di un dispositivo dal moto molto complesso.

La prima caratteristica di questo oggetto è che, dopo una spinta leggera che gli conferisce una blanda oscillazione, viene accelerato soltanto tirando o mollando la fune che lo tiene appeso. Non si tratta del movimento che farebbe un papà spingendo la sua figlia sull’altalena, ma un’entità fisica che prende il nome di “pompaggio parametrico”.
Si tratta di modificare una quantità che in genere è una costante durante tutto il moto e di farlo in modo ponderato, in precisi punti della traiettoria. È ciò che succede anche a chi ha imparato a “spingersi” sull’altalena senza toccare il suolo con i piedi. Nel caso dell’altalena è un cambiamento del momento di inerzia; nel caso del botafumeiro si tratta della lunghezza della corda.

La seconda caratteristica del moto del botafumeiro è la sua traiettoria non planare ma tridimensionale. È un esempio di caos deterministico, dove una serie di condizioni imprevedibili conducono a qualcosa di ordinato. I sistemi di questo tipo sono ancora oggetto di studio.
Inoltre, quando il botafumeiro è lasciato libero si osserva la deviazione tipica dovuta al moto relativo del pianeta, fenomeno che nel 1851 ha portato Foucault alla dimostrazione  delle ipotesi di Galileo e altri sul sistema eliocentrico.

La cosa veramente particolare è che tutta questa fisica è stata nella mente dei manovratori del botafumeiro almeno dal 1500, epoca nella quale si hanno le prime testimonianze della sua esistenza. Molto prima di Galileo e di Foucault.
Chi ha progettato le forme della puleggia; chi ha stabilito la dimensione della corda; chi ha stabilito il peso del turibolo doveva sapere… magari ad un livello intuitivo o rudimentale, ma doveva aver osservato molto i pendoli e doveva aver avuto una gran bella dose di “ispirazione”.

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Gli scarponi

Più o meno tutti quanti sentono un senso di libertà quasi “estrema” quando possono stare scalzi, soprattutto d’estate. La prigionia delle scarpe è per molti un supplizio da terminare il prima possibile.
Sembrerà assurdo, bizzarro o incredibile ma io mi sento veramente libero e tranquillo quando indosso i miei scarponi corazzati (cioè scarpe antinfortunistiche).

Per tanti può sembrare un piccolo paradosso o un controsenso che a qualcuno piaccia avere i piedi intrappolati in pesanti e soffocanti scarponi. Neanche a me piace, infatti il momento in cui mi tolgo le scarpe è per me uno dei più gaudiosi della giornata, ma è anche vero che sono libero realmente solo se quegli scarponi li indosso.
Sono libero di camminare sul fango o sul suolo arroventato, sicuro di non dovermi curare troppo di frammenti di vetro e altri oggetti contundenti in agguato sulla mia via. Sono libero di esplorare ogni suolo calpestabile e con il piede al sicuro sotto la punta di metallo capace di resistere ad un peso di cinque tonnellate.

La “libertà” non corrisponde alla possibilità di fare la cosa più piacevole e facile. Spesso essere liberi implica impegni da mantenere e coltivare, condizioni da rispettare, modalità non proprio semplici o piacevoli di fare le cose. Magari esternamente sembra che l’uomo che si comporta così sia meno libero ma, guardando meglio e considerando ciò che sta oltre l’apparenza, si scopre il contrario. Ciò che può sembrare un’accozzaglia di obblighi, regolamenti, imposizioni possono in realtà essere la strada tracciata per la vera libertà.

Scarpa antinfortunistica

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