Ciambelloni e spiagge

Una forma di pane tipica delle mie parti ricorda un grosso ciambellone. Alcune forme arrivano a pesare anche molto e l’uso più comune che se ne fa è quello di condirle con dell’olio di oliva e dell’origano.

Quando ancora frequentavo l’asilo, ricordo che una volta portarono in classe una intera forma di pane condito per farlo assaggiare a tutti. Alla vista di quelle cosine verdi dentro il pane io mi rifiutai però di mangiarlo.
Che mangiata che mi sono perso! Oggi il pane condito a quel modo è una delle poche cose che amo. Ripenso a questo episodio ogni volta che una cosa superficiale mi spinge a non provare, a non assaggiare, a non mettermi in gioco facendo esperienza in prima persona.
Per sapere se qualcosa è buona da mangiare oppure no bisogna obbligatoriamente assaggiarla anche se, qualche volta, il tentativo può anche non bastare.

Il buon esito della prova può dipendere anche da come essa viene condotta. Sentivo parlare, stamattina, di qualcuno che non amava andare al mare e che quelle poche volte che provò ad andarci si concentrò sul fastidio della sabbia sotto i piedi, della sensazione di unto che danno le creme solari e così via. È chiaro che se ci si concentra troppo su aspetti che, tutto sommato, sono marginali si può anche riuscire a dimostrare l’odiosità di una certa situazione che non sia odiosa. È come se per provare il sapore dell’olio di oliva ne bevessi a sorsate direttamente dalla bottiglia.
Se è un “a priori” a comandare (preconcetto o pregiudizio che sia), ogni tentativo può ridursi a dimostrare quel che vogliamo noi e non la realtà.

Cucciddato

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Il piatto

Leggevo poco tempo fa un ragionamento che si può riassumere così: “Dimmi come mangi e ti dirò chi sei”. In effetti i modi di approcciarsi al piatto che si ha davanti possono essere diversi. Io, ad esempio, preferisco dividere i vari sapori e demolire la pietanza lasciando l’elemento (o gli elementi) più gustosi alla fine. Lì dove leggevo quel ragionamento, il mio modo di fare era presentato come positivo infatti, mentre la fame rende più gustosi i primi bocconi, il confronto con gli ultimi ne amplifica il buon sapore. In conclusione non si scarta nulla del piatto che si ha di fronte.

Conosco però una persona che mangia, secondo me, ad un livello superiore rispetto a quello appena descritto. Io divido le pietanze, lei le mescola. Invece di classificare i sapori in “più buoni”, “buoni”, “meno buoni” e “cattivi” sperimenta intrecci, fusioni, perfino collaborazioni. Nel suo caso non è detto che un sapore cattivo o meno buono non possa collaborare a rendere il piatto ancora più delizioso. In fondo, se la persona che lascia per ultime le cose buone è elogiata perché non butta via niente, lei fa di più: non cerca soltanto di evitare il rifiuto di ciò che è negativo, ma potenzia la resa totale del piatto facendo uso di tutte le sue parti.

È vero, la vita è come una pietanza che ci viene messa davanti e chi riesce a non tagliarne fuori nulla vivendo senza ideologie è meritevole però è anche vero che non possiamo scegliere di mettere la parte brutta della vita all’inizio e quella bella alla fine. È fatta così: una mescolanza di alti e bassi, di cadute e ascese, di vizi e virtù. Riuscire a farne qualcosa di globalmente significativo sfruttando tutto, facendo convergere anche la nostra miseria in una ricchezza, è ben più che viverne la parte bella tollerando quella brutta.

Piatto separato

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Salsicce ripiene

Mi dispiace per i vegetariani e i vegani – che rispetto, pur non condividendo l’accanimento contro indifese creature della flora – ma io mangio carne, qualche volta. Devo dire però che per il 90% delle tipologie di carne che sono vendute in giro non provo grande interesse né stravedo per il loro gusto. Anzi, fino a qualche anno fa la percentuale era del 100% e ne mangiavo solo perché me ne mettevano sul piatto.
In effetti la mia conoscenza della carne era limitata all’alimento in sé e per sé, il mio orizzonte era ristretto a due o tre piatti tanto saporiti quanto potevano essere elaborati: una fettina o una salsiccetta di pura carne cotta e condita con olio; tutto qui.
Mi ero abituato a quel gusto, pensavo che il sapore di quei piatti fosse quello e basta, uno come tanti, qualcosa che si poteva gustare – certo – ma fino ad un certo punto.

Poi la mia ragazza cominciò ad invitarmi al pranzo domenicale nella casa di campagna. Fu lì che per la prima volta nella mia vita assaggiai il prodotto di un vero barbecue.
Non si trattava delle solite “fettine” alle quali ero abituato: c’erano involtini, spiedini e salsicce; tutti rigorosamente ripieni di verdure e formaggi. Ogni boccone non faceva entrare nella bocca solo la carne, ma anche peperoni, pomodori, melanzane, cipolla, formaggio e spezie di ogni tipo. Anche la cottura, sui carboni ardenti e con frequenti annaffiature di vino, aveva fatto la sua parte rendendo tutto molto più tenero e saporito.
Per me è stato veramente scoprire un altro mondo, decine di volte migliore rispetto al precedente. Ora, quando mi ritrovo davanti i miei vecchi piatti, so che c’è ben altro, ben di più, e non posso più pensare di avere innanzi già il massimo, di avere già il meglio. Ora che ho sperimentato un “di più” non posso tornare indietro.

Ecco – sperando di non aver istigato strani pensieri – conosco tanta, tantissima gente, che ha vissuto un’esperienza come la mia ma centinaia di volte più intensa, non relativamente ai gusti gastronomici, ma riguardo al loro stesso stile di vita, la loro esistenza intera. Noi crediamo di goderci già il godibile, di conoscere già cosa ci piace e cosa è bene per noi, facendo un elenco di piaceri vari e assortiti, sensazioni effimere che, una volta esaurite, ci lasciano desiderosi come prima (e anche la carne della metafora appartiene al gruppo, in un certo senso). Non ci rendiamo però conto – o meglio, ce ne rendiamo conto ma siamo pronti a soffocare l’intuizione - che desideriamo ben altro. Capirlo significherebbe ammettere che questi “piaceri” sono poco utili e che abbiamo sprecato il tempo investito su di essi, perché un “di più” c’è, è proprio ciò che il nostro cuore domanda e, una volta scoperto, non si torna più indietro.

Barbecue

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Pesce palla

Il fugu è un piatto tipico della cucina giapponese che si prepara con il pesce palla, un abitante delle barriere coralline che non ha proprio voglia di farsi mangiare. Quando infatti il pesce palla è spaventato si gonfia per sembrare più grosso. Inoltre, nel caso in cui questo espediente non bastasse, è dotato di un potente veleno, la tetrodotossina, che è 1200 volte più letale del cianuro. Il fugu viene preparato con una complicatissima tecnica che ha lo scopo di evitare che la parte commestibile venga contaminata dal potente veleno. Un minimo errore nella tecnica di taglio può perciò portare alla morte dei commensali.

Ci sono persone che sono dei veri e propri pesci palla. Si gonfiano con aggressività, saccenza o scherno perché, sotto sotto, hanno paura della persona con la quale stanno parlando – più che altro perché non la conoscono veramente. Di fronte al comportamento di queste persone verrebbe voglia di ripagarli con la loro stessa moneta, di usare la lingua più tagliente che si può per ferire o quantomeno liberarsi dall’aggressore. Rispondere così è però pericoloso: se sbagli il taglio, esce fuori solo veleno.

Pesce palla

L’idea di questo Post è della mia fidanzata ;-)

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