Ciambelloni e spiagge
Una forma di pane tipica delle mie parti ricorda un grosso ciambellone. Alcune forme arrivano a pesare anche molto e l’uso più comune che se ne fa è quello di condirle con dell’olio di oliva e dell’origano.
Quando ancora frequentavo l’asilo, ricordo che una volta portarono in classe una intera forma di pane condito per farlo assaggiare a tutti. Alla vista di quelle cosine verdi dentro il pane io mi rifiutai però di mangiarlo.
Che mangiata che mi sono perso! Oggi il pane condito a quel modo è una delle poche cose che amo. Ripenso a questo episodio ogni volta che una cosa superficiale mi spinge a non provare, a non assaggiare, a non mettermi in gioco facendo esperienza in prima persona.
Per sapere se qualcosa è buona da mangiare oppure no bisogna obbligatoriamente assaggiarla anche se, qualche volta, il tentativo può anche non bastare.
Il buon esito della prova può dipendere anche da come essa viene condotta. Sentivo parlare, stamattina, di qualcuno che non amava andare al mare e che quelle poche volte che provò ad andarci si concentrò sul fastidio della sabbia sotto i piedi, della sensazione di unto che danno le creme solari e così via. È chiaro che se ci si concentra troppo su aspetti che, tutto sommato, sono marginali si può anche riuscire a dimostrare l’odiosità di una certa situazione che non sia odiosa. È come se per provare il sapore dell’olio di oliva ne bevessi a sorsate direttamente dalla bottiglia.
Se è un “a priori” a comandare (preconcetto o pregiudizio che sia), ogni tentativo può ridursi a dimostrare quel che vogliamo noi e non la realtà.
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