Articoli da gennaio 2011



Vitamina C

Durante l’inverno è facile prendersi il raffreddore e l’influenza: il freddo abbassa le difese immunitarie e i germi se ne approfittano. Per questo motivo occorre prevenire i malanni rafforzando le proprie difese. A questo scopo la cosa più semplice da fare – e la prima ad essere consigliata dagli esperti – è assumere della vitamina C. Questa vitamina è presente soprattutto negli agrumi: arance; mandarini; limoni.

Ieri ripensavo all’agrumeto che avevo visto: anche se abbandonato c’erano frutti, seppur piccoli. Gran parte delle piante da frutto che conosciamo fioriscono in primavera e fruttificano in estate. Le arance invece no, fanno praticamente al contrario: sono frutti che maturano durante la stagione fredda. È come se, al ristorante, le pietanze fossero arricchite esattamente con le sostanze che l’organismo del cliente richiede al momento di essere servito.

Non è forse una coincidenza che casca a puntino? Proprio quando ci serve tanta vitamina C, siamo sommersi di arance. C’è da restare stupiti da come questi frutti “fuori stagione” si adattino perfettamente, naturalmente, automaticamente – quasi come un programma di computer – all’esigenza di vitamina C parte di noi umani durante il periodo freddo.

agrumi, vitamina c

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Al di là della scacchiera

Quando mio papà era appena uno scolaretto delle scuole elementari passava i pomeriggi a casa del cugino malato. Si portava la scacchiera e metteva in palio i fumetti di “Topolino”. Vinceva sempre, stando ai suoi racconti. Dopo trent’anni quel cugino dalla facile sconfitta è un astrofisico mentre mio papà fa un lavoro ben più umile e la sua scacchiera è rimasta lì, riposta fra tanti oggetti.

Tempo fa, più o meno alla stessa età che aveva mio papà quando scommetteva sui fumetti di Topolino, mi sono interessato a quella scacchiera. Mio papà mi insegnò le regole del gioco e i movimenti degli scacchi ma, come il cugino astrofisico, non ricordo di aver mai vinto una partita con lui. Riesco però ad immaginare il motivo.

Quando si sente parlare uno scacchista di professione, uno che partecipa ai tornei e ama giocare, si percepisce che il gioco degli scacchi non è la sterile applicazione delle regole del gioco per evitare di farsi mangiare il pezzo e per ottenere la vittoria. Spesso, chi ne parla, è come se avesse assistito a delle vere e proprie battaglie, con tattiche, tecniche, artifici dell’ingegno. Descrive ogni partita con eccitazione, narrando con naturalezza di strategie che io non sono mai riuscito a vedere al di là della scacchiera.

Per molte cose la vita è così: se ci limitiamo ad uno sguardo superficiale si riduce tutto ad una risoluzione di puzzle e, in ultima analisi, viviamo peggio di chi, al di là della realtà, vede qualcosa di impressionante, quel senso nascosto che trasforma radicalmente quella serie “puzzle”.

Scacchi

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Parcheggio

Stamattina arrivo circa trenta minuti più tardi del solito. Ieri ho avuto un turno di notte perciò il ritardo era scontato. Arrivo nell’area di parcheggio: le auto sono parcheggiate parallelamente l’una all’altra lungo un’alta parete. Gli stalli sono segnati dalle usuali strisce bianche che, specialmente in quel parcheggio, sono ben distanziate – da permettere il comodo parcheggio dei SUV.

L’unico posto disponibile era sufficiente appena per la mia utilitaria, un’auto vecchia di almeno vent’anni. Il motivo di questa riduzione di spazio era una grossa auto di marca che sporgeva lateralmente dal suo stallo di circa quaranta centimetri. La striscia bianca passava letteralmente sotto la vettura.
Decido di parcheggiare avvicinandomi il più possibile all’auto grossa per avere, dal lato opposto, sufficiente spazio per aprire lo sportello e riuscire ad uscire e con “spazio sufficiente” intendo a malapena venti-trenta centimetri: giusto quel che serve ad uno medio-magro a sgusciare fuori dalla macchina.

Verso l’ora di pranzo ricevo una telefonata: una persona mi aspetta poco distante per essere accompagnata a casa. Trovo il proprietario a scrutare la sua macchina con atteggiamento molto seccato. Evidentemente gli dava fastidio entrare dal lato passeggero, che era libero.
Avendo fretta, mi fiondo verso la macchina. Lui urla. Vado via: non avevo certo il tempo di fare discussioni, anche se avrei avuto tutte le ragioni di questo mondo da far valere.

Non voglio generalizzare dicendo che l’egoismo e la superbia di una persona siano direttamente proporzionali alla cilindrata della sua macchina però sarebbe da rimarcare come esistano individui di questo tipo anche dove dovrebbe regnare la cultura e la ragione. Basta leggere qualche libro in più – o qualche libro “vero” – per sentirsi più ragionevoli degli altri? Basta avere una grossa macchina per sentirsi in grado di sovvertire le regole del civile parcheggio?
La cosa drammatica è che chi si comporta in questo modo ritiene sempre di avere ragione, anche quando evidentemente non ne ha.

Parcheggio

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Senti chi parla

Conosciamo tutti la prima parte dei viaggi di Gulliver: il suo naufragio sull’isola dei lillipuziani, da tempo in guerra con gli abitanti dell’isola vicina di Blefuscu. Il motivo della guerra è una controversia sul modo più corretto di rompere le uova, se dalla parte più grossa o da quella più piccola.

Immaginiamo per un attimo due gruppi di persone impegnate in una controversia meno futile ma agguerrite e intestardite come i lillipuziani. Negherebbero l’uno le tesi dell’altro ma ciò non basterebbe. Comincerebbero allora a cercare reciprocamente gli scheletri nell’armadio dell’altro e sbandiererebbero i loro risultati ai quattro venti pensando così che il giudizio sui componenti della fazione opposta possa superare la verifica su quanto essi affermano.
Cosa cambia se a sostenere il teorema di Pitagora è un galantuomo o un ladro? La matematica, come – del resto – tutte le cose, non diventa vera o falsa in base al candore di chi la enuncia.

Le persone sbagliano, si sa, errare è umano. Ci sono però delle volte nelle quali si parte da uno sbaglio per squalificare nella sua integrità il parere altrui. Cerchiamo di non fare i lillipuziani: la verità e la correttezza di quanto viene detto non dipendono da chi le sta comunicando ma dal confronto con la realtà e con l’esperienza, dalla ragionevolezza di quel determinato concetto.

Gulliver

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Cataratte

Una malattia tipica dell’età è la formazione di un’opacità sulle parti dell’occhio che dovrebbero essere trasparenti. Si forma gradualmente sottraendo, anche del tutto, la capacità di vedere. Vedere è una cosa meravigliosa di per sé perché permette di cogliere la bellezza circostante, di godere dello spettacolo che ogni giorno – perché no? – ci si pone davanti. Basta pensare a quante migliaia di fenomeni avvengono proprio davanti ai nostri occhi mentre digitiamo al computer: elettroni che si ricombinano, distribuzioni di probabilità che mutano, fotoni che attraversano lo spazio alla velocità della luce, fenomeni quantistici, chimici, fisici, biologici. C’è un’immensità in quei 30-40 centimetri che racchiudono noi e lo schermo.

Sono però tanti quelli che dicono di non vedere alcuno spettacolo ogni giorno. Vedono l’ufficio, i colleghi, il traffico, le solite quattro mura. Estendendo questo discorso anche alla sfera emotiva si potrebbe continuare a dire che c’è chi percepisce solo la stanchezza del lavoro, i dubbi sul proprio futuro, le difficoltà che impediscono le proprie attività, i rimorsi del passato, i nemici che avanzano, cose spiacevoli praticamente inevitabili.

Quando si fissa troppo a lungo una forte sorgente luminosa o si permane per troppo tempo nella totale oscurità ci si acceca momentaneamente. Più o meno allo stesso modo, si può accecare un cuore con la parte brutta del mondo e con ciò che di negativo ci accade. Quando ci si concentra sulla bruttura – come una goccia di inchiostro nell’acqua pura – essa si diffonde formando una cataratta. Inizialmente questa ingrigisce tutte le cose e poi progredisce finché non rende completamente ciechi di fronte alle cose belle. Allora il rischio che si corre è grosso: invece di catturarle, lasciamo fuggire via, una dopo l’altra, le cose meravigliose. Non si tratta solo di spettacoli visivi ma di una meraviglia, una passione, un apprezzamento per la vita, la propria vita e tutte le vite in generale: la capacità di riconoscere e scovare il bello che altrimenti ci risulta invisibile e restando perduto, sprecato.

Occhio

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Mani sporche

In un paese molto ricco prosperavano tante industrie e aziende distribuite nei settori più disparati. Ce n’erano di veramente grandi e quelle più piccole prosperavano anche grazie agli scambi commerciali e alle attività delle più grandi. Il motivo di tanta ricchezza erano stati, diversi anni prima, alcuni imprenditori che avevano saputo sfruttare al meglio le risorse del territorio amministrando con astuzia le loro aziende. La gente di quel luogo non conosceva disoccupazione né povertà e la maggior parte di loro stimavano quegli imprenditori per il benessere che avevano realizzato in quel paese.

Nonostante questo benessere c’erano persone che non erano contente: mormoravano perché alcuni erano più ricchi di altri; si lamentavano perché a, loro dire, i fondi destinati agli aiuti umanitari erano esigui; erano arrabbiati perché non avevano sufficiente benessere e libertà. Forse sentivano puzza di bruciato, forse avevano pure ragione o forse il loro cuore inquieto si era fatto ammaliare dal troppo benessere e li conduceva a pensare che ottenendone altro avrebbero saziato tutti i loro desideri. Ad ogni modo, finì che queste persone cominciarono a detestare gli imprenditori di quel paese.

Fecero ricerche approfondite e scoprirono così che un dirigente tradiva la moglie, che un altro dirigente aveva rubato un’auto quand’era ragazzo, che un grande imprenditore aveva amici furfanti etc. Queste notizie fecero scalpore; furono avviati processi e inchieste; dettagli scottanti venivano rivelati ogni giorno. Finalmente si stava facendo giustizia.
Molti incriminati, che erano tra i più stimati, ammisero le loro colpe ma la gente non se ne faceva nulla delle scuse. Un dirigente si impiccò, altri due si dimisero abbandonando la loro azienda, un quarto fu incarcerato, altri vennero scagionati ma la gente mormorava che avessero comprato la giuria perciò boicottarono i loro prodotti.

Pian piano le aziende cominciarono a chiudere: si poteva dire di tutto su quegli imprenditori tranne che non sapessero fare il loro mestiere. Molta gente perse il lavoro; i prezzi salirono; venne la carestia e la crisi.
Il desiderio di giustizia è una cosa sacrosanta ma non dev’essere confuso con la vendetta né con il moralismo perché la prima produce solo vittime mentre il secondo si ritorce facilmente contro chi lo pratica.

Abandoned factory

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Manifestato

Nel 1820, un fisico danese di nome Oersted (Ørsted) aveva sistemato sul tavolo sperimentale diversi strumenti elettrici per la lezione che avrebbe dovuto tenere ai suoi studenti. Casualmente, aveva con sé anche una bussola e, quando fece percorrere dalla corrente elettrica un conduttore che era sul tavolo, notò che l’ago si era spostato. Oersted scoprì così che un conduttore percorso da una corrente elettrica genera, nello spazio intorno a sé, un campo magnetico del tutto analogo a quello generato da una calamita.

Sono pochi, nella storia della fisica, i casi in cui il ricercatore ha scoperto qualcosa sapendo già cosa cercare. L’uomo non conosce che una minima parte dell’essenza stessa dell’Universo e dei suoi meccanismi, dei fenomeni che in esso avvengono. Compito del ricercatore è di scovarli, ma da solo non può farcela perché ha bisogno che questi si manifestino. Il teorico o la fortuna – come nel caso di Oersted - indirizzano a guardare in una qualche direzione, magari provocando la realtà con gli esperimenti o con osservazioni particolari, ma è la manifestazione di un fenomeno che ne segnala l’esistenza.

Manifestare significa “mostrare”, “rendere noto”. La natura si mostra ogni giorno, ma nella storia dell’uomo si sono manifestate anche idee e persone alcune delle quali hanno segnato la storia con la loro presenza a partire da un preciso istante. Rendendosi nota all’umanità, l’entità che si è manifestata cessa di essere un’ipotesi o una fantasia e diventa realtà tangibile e innegabile, un avvenimento che non può essere più cancellato.

Porta luce

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La giovane sogliola

Una giovane sogliola pensò: «Perché nelle mia famiglia tutti nuotano coricati a terra? Voglio nuotare staccata dal fondale, come i tonni e le balene che sono liberi e vedono il mondo.» Cominciò allora a nuotare come voleva di nascosto, allontanandosi un po’ e poi tornando subito indietro per lo spavento. Ma un po’ alla volta le cose andarono meglio, e arrivò al punto che non poteva allontanarsi oltre senza farlo sapere alla famiglia.

Allora, un giorno, si presentò alla sua famiglia e disse: «State a vedere.» E fece un magnifico giro della morte.
- Figlia mia,- scoppiò a piangere la madre, – ti ha dato di volta il cervello? Torna in te, nuota come i tuoi fratelli che ti vogliono tanto bene.
Il padre la stette a guardare severamente per un pezzo, poi disse : «Attenta a te perché quel che fai è pericoloso. Una sogliola è fatta per stare sul fondo, non per girare follemente in alto e in basso.»
La giovane sogliola voleva bene ai suoi, ma era troppo sicura di essere nel giusto per avere dei dubbi: abbracciò la madre, salutò il padre e i fratelli e si avviò verso l’alto.

Il suo passaggio destò subito la sorpresa di un crocchio di cernie. «Il mondo va a rovescio» disse una di loro, «Poveretta» disse un’altra. Ma la sogliola proseguì la salita. A un certo punto vide fuggire da lei gli altri pesci. - Che male vi ho fatto? – pensò indispettita – Perché non rispettate la mia scelta? Stupidi… – Non fece però in tempo a finire il pensiero che su di lei si era già stesa l’ombra di un tursiope con la bocca aperta per il facile boccone. La sogliola nuotò più veloce che poteva ma il tursiope le stava sempre dietro. Andava a destra, a sinistra, in alto, ma il predatore si avvicinava sempre più.

Poi, per istinto – quell’istinto di sogliola che aveva rinnegato – si fiondò verso il fondale e scomparve, mimetizzandosi, in una nuvoletta di sabbia. Il tursiope scandagliò la zona con i suoi ultrasuoni. I click erano sempre più vicini e la sogliola aveva sempre più paura. Dopo un po’ però il tursiope lasciò perdere e se ne andò.
- Ora ho capito – meditò la sogliola – che per vivere meglio devo rispettare la mia natura. Nessuno però mi impedisce di girare il mondo e di essere libera nuotando sul sicuro fondale. – Quella sogliola non fu mai più vista da nessun predatore, girò i fondali di tutto il mondo e si fece molti amici.

Sogliola

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Il termine dell’equazione

La fisica è una scienza che traduce in formula i fenomeni osservati. Ciò che accade praticamente sempre è che la formula descrivente un determinato fenomeno reale non lo rappresenta al 100%. Quando un ricercatore “trova” la formula che descrive un determinato fenomeno sta facendo, più o meno, la stessa cosa che fa un bambino quando, per disegnare le persone, mette insieme cinque linee ed un cerchio.

Le formule permettono di fare previsioni abbastanza buone, almeno finché non si desidera una precisione maggiore o finché i termini ignorati non diventano troppo grandi per essere ancora trascurabili. Il problema è che in genere i termini trascurati non si conoscono affatto; sta infatti al ricercatore scovarli e, finché non li trova, il suo modello sarà solo un’approssimazione più o meno valida.

Non sempre però ci si ricorda di questo fatto e, quando succede, si finisce con il credere che certe formule siano perfette e definite una volta per tutte. Conseguentemente, capita che in certe situazioni quella formula smette completamente di descrivere la realtà e che si facciano previsioni totalmente errate per eccesso di fiducia su quello “scarabocchio da bambino”. Lo stesso sbaglio può anche verificarsi quando si decide a priori – e senza riflettere abbastanza - che un certo termine della formula ha poca importanza e perciò non vale la pena considerarlo.

Spesso, i termini meno significativi di un’equazione diventano giganteschi appena ci si allontana un poco dall’ambiente che abbiamo considerato. Termini che stanno in silenzio e invisibili nel salotto di casa nostra possono diventare rumori assordanti appena usciti per strada.
Stiamo attenti a cosa classifichiamo come “trascurabile” nella vita. Tutte le ideologie fanno un errore di questo tipo: trascurano cose fondamentali e finiscono con il provocare danni a cose e persone.

equazioni

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I frutti

Passavo all’esterno di un agrumeto, ormai abbandonato da chissà quanti anni, osservando gli alberi. Gran parte erano morti, per “carenza di affetto” si potrebbe dire. Alcuni però erano ancora vivi, messi un po’ male ma ancora con qualche frutto appeso ai rami seppur piccolo e ormai inselvatichito. Il muro di cinta protegge quei frutti da qualsiasi mano, abbandonati lì a marcire e a rovinare ulteriormente tutto. Un peccato…

Qualsiasi coltivatore sa, infatti, che se si lascia il frutto sull’albero e non lo si raccoglie al momento giusto l’albero ne risente e l’anno dopo farà frutti più piccoli. Anche per le rose è così: se ogni anno non si tagliano le rose sbocciate ma le si lasciano diventare frutto succede che la pianta fa sempre meno rose o le fa sempre più piccole o sempre più brutte. Il frutto non è fatto per la pianta che lo ha generato.

E i nostri frutti? Sono soddisfazioni, certo, ma la soddisfazione lascia il tempo che trova, dura finché non si scopre chi fa meglio di noi o finché dura ciò che abbiamo realizzato; dura finché non sopraggiunge la noia, l’assuefazione. Allora succede che ci sentiamo i rami già carichi abbastanza e invece di fare nuovi frutti più belli dei precedenti, non ne facciamo più o continuiamo a fare gli stessi. Oppure diventiamo acerbi, divorati dall’invidia e cotti dalla delusione. Proprio come l’albero abbandonato alla calura, alla siccità e all’incuranza, senza nessuno che lo concimi e lo poti. Un buon agricoltore, che ha cura dei suoi alberi, è contento dei frutti e sa coglierli al momento giusto facendo il bene dell’albero e di coloro che ne mangeranno i frutti. Dà dignità e senso ad alberi, frutti e lavoro.

agrumeto

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