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Automobili famose

Chi non ha mai sentito parlare di Herbie, il maggiolino tutto matto, o di KITT, la Supercar dell’omonimo telefilm? Sono i nomi di automobili famose per essere comparse sul grande schermo. Dietro l’immagine televisiva si nascondono però diversi “attori” particolari. Quando parlo di “attori” al plurale non mi sto riferendo ai protagonisti umani ma al gran numero di automobili gemelle che vengono prodotte quando si devono fare delle riprese per il cinema.

In molte scene vediamo che queste automobili si muovono da sole, senza conducente. In questi casi si utilizza sovente un modello radiocomandato in scala reale. Ebbene sì: esistono dei “super modellisti” che non si accontentano di una macchinina in scala 1:6 ma vogliono realmente guidare una vera automobile senza essere seduti dentro. Dei particolari servo-motori si occupano di muovere tutti i meccanismi del veicolo al posto del conducente e fanno anche di più: aprire sportelli; movimentare specchietti eccetera. Tutti i comandi vengono quindi impartiti attraverso onde radio.

Ora immaginiamo un alieno in visita sul nostro pianeta e gli diamo la nostra macchina radiocomandata. Lui la vedrà muoversi da sola e, poiché non è stupido, comincerà a studiarla scoprendo che determinate onde elettromagnetiche provocano alcuni movimenti dell’automobile. Noi raccontiamo al nostro alieno che, nascosto da qualche parte, c’è un manovratore che impartisce comandi al modellino, ma l’alieno imbraccia un generatore di onde e, interferendo, pretende di “dimostrarci” che non c’è alcun manovratore perché l’automobile sta soltanto reagendo alle onde elettromagnetiche dell’ambiente. Cosa dire del nostro alieno? Che non ha capito nulla. Esattamente come chi si diverte a dire che le persone sono solo macchine, dispositivi, delle “black box” che macinano un input per restituire un output. Dichiarazioni che farebbero stramazzare qualsiasi artista o chiunque abbia anche solo sentito parlare di filosofia.

Il maggiolino tutto matto

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L’olio di Lorenzo

Un film che mi ha fatto molto riflettere per il suo alto contenuto di valori, la storia vera di Augusto e Michaela Odone e del loro figlio Lorenzo. All’età di cinque anni a Lorenzo viene diagnosticata l’adrenoleucodistrofia, malattia rara, dolorosa e mortale per la quale non esistevano cure. Mentre la malattia del bambino progredisce paralizzandolo e sottoponendolo a tormenti che egli sopporta eroicamente, Augusto e Michaela non si danno per vinti.

Una mamma ed un papà che conoscevano poco o nulla della medicina e della biochimica ma che, con una forza che definirei “sovrumana”, hanno affrontato di petto la situazione studiando ogni articolo scientifico che, anche marginalmente, poteva essere correlato alla malattia del figlio. Dopo aver addirittura organizzato il primo simposio internazionale sull’adrenoleucodistrofia, nonostante lo scetticismo e la reticenza dell’ortodossia accademica degli scienziati, gli Odone hanno sviluppato “l’olio di Lorenzo“, una mistura di acidi grassi che inibisce l’agente dannoso nella malattia (non ripara i danni ma ne evita di nuovi).

Si possono fare diverse riflessioni su questa storia.
A volte noi scienziati non ci mostriamo abbastanza aperti alla realtà mostrando, come prima reazione, uno scetticismo che si basa su un’eccessiva e mal riposta fiducia sulle sole conoscenze accademiche “certificate”. Anche chi non è scienziato si lascia andare, in alcuni casi, a questo genere di resistenza ma, come si apprende da questa storia, dare una minima occasione alla novità non è solo onesto ma è anche proficuo per tutti.
Nel film alcuni genitori esasperati si oppongono agli Odone perché ritengono più opportuno accelerare la morte del figlio per “porre fine alle sue sofferenze”. Inutile ribadire quale dei due atteggiamenti abbia effettivamente prodotto un grande beneficio per la collettività. Significative le parole di disprezzo scaturite dalla bocca di una stanca infermiera riferendosi allo stato di coscienza di Lorenzo: “non c’è nessuno in casa”. Lorenzo è morto all’età di 30 anni (molto più di quanto prospettato da un decorso non ostacolato della malattia) cosciente ed in grado di comunicare con le dita e gli occhi.
Ultimo ma non meno importante il coraggio e la combattività, di Lorenzo per primo e dei suoi genitori dopo. Il dramma, il male della malattia non sono l’ultima parola: questa storia è un caso notevole di una disgrazia che alla fine conduce a qualcosa di grande. Ascoltando i racconti di chi vive drammi simili si può intravedere la stessa carica di senso e di coraggio, la volontà e la forza di trasformare un dramma in un motivo di vita e di speranza.

L'olio di Lorenzo

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Protagonisti o spettatori

Quante volte, guardando un bel film d’avventura come Indiana Jones o Guerre stellari o Il signore degli anelli, abbiamo desiderato o immaginato di essere dentro l’avventura affrontando pericoli ed esplorando l’ignoto?
Sperimentiamo un certo piacere e delle belle emozioni standocene comodamente seduti davanti ad uno schermo, senza però riflettere sul fatto che esse siano il frutto di qualcosa che ci viene messo davanti, una rappresentazione di una realtà che non ci appartiene, che non stiamo vivendo.

No: non è assolutamente una critica ai film d’avventura. Vivere un’avventura, una storia, non è la stessa cosa che assimilarla passivamente. Vivendo qualcosa essa ti appartiene; è tua ogni singola emozione, ogni minuto che passa; ne sperimenti integralmente gioie e dolori, botte di fortuna e difficoltà. Vivere significa questo. Certo, essere protagonisti di un’avventura in costante realizzazione impedisce di sapere come va a finire la storia; pone anzi il rischio di non giungere ad un lieto fine. Nonostante ciò è più bello vivere un’avventura da protagonisti che scoprirsi spettatori di una storia inventata di sana pianta.

La realtà, la verità del mondo circostante è un’avventura da vivere. Spesso preferiamo vivere la felicità di un “lieto fine” impacchettato e pronto all’uso; una falsità che ci può dare, al limite, lo stesso piacere di uno spettatore; una storia che degli attori ci stanno raccontando e che noi scegliamo di proseguire perché, in fin dei conti, è meno faticosa e più piacevole. In altre parole, aderiamo ad una ideologia.
Spenta la televisione, dobbiamo però fare i conti con la realtà. A differenza delle fiction, la realtà consente di essere vissuta da protagonisti, di verificare sulla nostra carne, sulla nostra coscienza e sulla nostra felicità la fondatezza di quanto riteniamo vero. Quando si conosce la verità e la si vede in ogni cosa – compresa la sofferenza – “rigare dritto”, giungere al lieto fine diventa solo una naturale conseguenza e non più uno sforzo della volontà.

Spettatori

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Acchiappafantasmi

Uno strumento di misura può vedere solo ciò per cui è stato progettato. Come il nostro occhio vede solo una piccola porzione dello spettro visibile e il nostro orecchio ode solo un limitato intervallo di frequenze. Come possiamo allora sperare di poter osservare, percepire o scoprire ciò del quale non possiamo immaginare la natura?

Mi viene in mente il primo film degli acchiappafantasmi, perfettamente a cavallo tra fantasy, fantascienza e commedia. L’intero film è una parodia basata sull’esagerazione di quelle scienze o pseudo-scienze che studiano i fenomeni paranormali. Nel film, il dottor Egon Spengler ha progettato e costruito strumenti che  misurano la presenza dei fantasmi ed altre attrezzature per la loro cattura ed il loro stoccaggio.
Non manca neanche la figura dello scettico, Walter Peck, un colletto bianco del ministero dell’ambiente che definisce gli acchiappafantasmi “consumati venditori di fumo che usano gas sensorii e nervini per provocare allucinazioni”.

Ma come facciamo a sapere chi ha ragione? Lo spettatore vede tutto e ha meno dubbi, ma se il caso del film fosse una realtà bisognerebbe avanzare con i piedi di piombo perché mentre da una parte abbiamo delle misure e delle rivelazioni, dall’altra abbiamo la possibilità che quanto sia stato misurato sia del banale rumore di fondo o altri fenomeni noti ma non considerati nelle misure. Ciò però non ci autorizza a formulare fantasiose ricostruzioni che non si basino su dati veri. È qui che Walter Peck si sbaglia: sostiene la tesi dei gas allucinogeni senza averne misurato la presenza ma soltanto perché ai suoi occhi è più accettabile che sia così; finisce quindi con il provocare un disastro perché convinto di una cosa sbagliata.

L’uso corretto della ragione non è uno sterile scetticismo ideologico ma una attenta e paziente valutazione dei fatti e delle persone considerando anche la possibilità – a volte la necessità – di doversi fidare laddove necessario.

Rivelatore acchiappafantasmi

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Ordine e disordine

Avevo vagamente accennato al disordine parlando di entropia, una quantità legata anche alla reversibilità dei processi naturali, cioè legata alla possibilità di “tornare indietro”, di riportare qualcosa al suo stato iniziale. C’è un film di fantascienza, dal titolo “Punto di non ritorno“, che offre spunti di riflessione anche su questa tematica.

L’equipaggio dell’astronave “Lewis & Clark” è incaricato di raggiungere la “Event horizon”, un’astronave prototipo di grandi dimensioni contenente il primo motore interdimensionale il cui nucleo centrale è una sfera che racchiude un buco nero artificiale. Durante il primo test dell’innovativo motore la Event horizon ha fatto perdere le sue tracce nei dintorni di Nettuno e, dopo molto tempo, era misteriosamente riapparsa nello stesso luogo della scomparsa.
I membri dell’equipaggio della Lewis & Clark, tra i quali c’è anche lo scienziato che ha progettato il motore interdimensionale, scoprono che la Event horizon è deserta ma che una forte attività biologica diffusa viene rivelata all’interno della nave. La (o le) misteriosa entità a bordo proviene dal luogo dove la nave si era trasferita con il suo primo test. Si tratta di una «dimensione di puro caos e puro male», come si apprende dallo scienziato stesso dopo essere stato plagiato dall’invisibile entità, il cui scopo è di attirare nuove prede umane nella sua dimensione.

È particolarmente evidente come più o meno tutti associamo all’ordine un’idea positiva e al caos un’idea negativa. Le forze dell’ordine; andare per ordine; fare ordine; una persona ordinata; l’ordine naturale delle cose; sono tutte espressioni che infondono sicurezza, bellezza e bontà. Al contrario, il caos, il disordine, la non intelligibilità di un fenomeno o di un comportamento richiamano immediatamente insofferenza, tristezza, paura.
In particolare, l’intelligibilità dell’Universo, cioè la sua caratteristica di essere governato da leggi a noi comprensibili, costituisce un specie di ordine supremo; un ordine che – mi è capitato di dire altre volte – poteva non essere necessario. Eppure questo ordine c’è e dovremmo interrogarci sul perché esista e sul motivo del fascino che esso esercita su di noi (e dovremmo anche interrogarci sui motivi che ci spingono a farci queste domande).

Punto di non ritorno

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Io robot: cuore e cervello

Isac Asimov ha dedicato molti dei suoi scritti all’intelligenza artificiale e ai robot, in generale. Mi è casualmente ritornato il pensiero su un film ispirato dai racconti di Asimov, “Io robot“, e sul protagonista robotico, Sonny.
Sonny è un robot “unico” nel suo genere, dimostra di avere dei sentimenti, di non essere puramente analitico o puramente logico; riesce addirittura ad avere dei sogni. Le sue qualità derivano da un elemento che altri robot non hanno: un cervello “doppione” che sta nel suo torace e che è apparentemente in contraddizione con il cervello “ordinario” che si trova nella sua scatola cranica.

Sonny ha un Cuore. Un cuore cibernetico, qualcosa che la libertà della narrativa di fantascienza permette di conferire anche ad una creazione dell’uomo. Possiamo però dire che Sonny è più “umano” dei suoi fratelli robot proprio perché ha questa parte tanto fondamentale e diffusa tra gli uomini quanto assente nei robot.
Ciò che rende un umano veramente “umano” è il Cuore. Non a caso una persona che si dice “senza cuore” non è umana. Entrambe le entità, Cuore e mente, devono coesistere ed essere valutate per la grande importanza che hanno senza far prevaricare l’una a scapito dell’altra. Rinunciare al proprio Cuore per valorizzare eccessivamente la “ragione”, la logica e il conseguente materialismo significa auto-infliggersi una mutilazione.

Ci sono persone, ahimè, che per qualche motivo – suppongo qualche brutto evento che ha ferito il loro Cuore – hanno deciso di farne a meno. Sarà anche logico – se non c’è un cuore non c’è niente da ferire – ma è ingiusto e sbagliato, innanzitutto verso sé stessi. L’uomo è un essere razionale ma è anche un essere che non può basare la sua esistenza solo sulla ragione asettica di un pensiero eccessivamente logico. Il risultato più evidente di un’umanità vissuta pienamente è la bellezza della creatività, della passione e della ricerca di quel qualcosa che va oltre i confini biologici di un organo ospitato all’interno del cranio. Il Cuore trascende la materialità del cervello eppure è ciò che ci spinge verso le cose più grandi.

Sonny, Io robot

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Il nocciolo

Prima della relatività di Einstein, il termine “teoria” significava una cosa ben precisa: un sistema di ipotesi e seguenti tesi che rappresenta una delle possibili spiegazioni ad un fenomeno. La teoria della relatività fu intesa in questo modo finché non furono osservati alcuni fenomeni – la differenza temporale fra orologi atomici in orbita, le lenti gravitazionali – che ne verificarono i postulati. Il nome “teoria” è però rimasto davanti a “relatività”, perciò si è dovuto agire sul significato del termine per permettere questa eccezione:

teoria 1 [te-o-rì-a] s.f.

  • 1 Formulazione rigorosa e sistematica dei principi di una scienza, di una filosofia o di qualsiasi altra forma di sapere: la t. della relatività; ipotesi scientifica formulata per la spiegazione di fenomeni particolari: formulare una t. sullo sviluppo economico
  • 2 Nel l. com., opinione, punto di vista riguardo a qlco.: ho una mia t. su come educare i figli
  • 3 Insieme di norme e principi generali e astratti su cui si fonda un’attività pratica; l’attività intellettuale, concettuale: la t. economica, politica || esame di t., prova scritta necessaria per conseguire la patente di guida che precede la prova pratica |in t., dal punto di vista puramente teorico: in t. la cosa è semplice

dal sabatini-coletti

Nonostante le (in)opportune correzioni, una teoria è e resta sempre in antitesi con la “pratica” e, per estensione, anche con la “realtà”. I principi di una scienza, anche se formulati rigorosamente e sistematicamente, possono ancora essere considerati non definitivi, una delle tante possibili spiegazioni, qualcosa che potrebbe rivelarsi falso in qualsiasi momento. E non finisce mica qui.
I principi di una scienza molto raramente sono autoconsistenti, cioè raramente non necessitano di alcuna base sulla quale poggiarsi. Nella stragrande maggioranza dei casi un principio altro non è che quella tesi conseguente alle ipotesi in quel sistema che rappresenta una delle possibili spiegazioni ad un fenomeno. Ciò implica che quanto più un’ipotesi si allontana dal caso reale, tanto più la teoria si trasforma in una fantasia adattata ad alcuni fatti – e che pretende di esserne poi avvalorata; non è neanche più la rappresentazione di un caso “ideale” – cioè senza imprevisti.

Per fare un esempio pratico possiamo citare il film “The core“, non tanto per il contenuto scientifico o meno ma per l’approccio alla scienza che viene più volte messo in risalto all’interno del film. Di fronte alla teoria che spiega – o spiegherebbe – come è fatto l’interno del pianeta, più volte viene presentato il dubbio: “E se non fosse così?”. Ed effettivamente il dubbio viene confermato più volte perché, nonostante tutte le prove che possono avvalorare la nostra teoria, la prova definitiva – cioè la misura in loco – non c’è. In questo, come in moltissimi altri casi nella storia della scienza, dall’archeologia all’astrofisica, la realtà si dimostra sempre ricca di sorprese; sorprese che possono distruggere in un batter d’occhio le nostre teorie.

Lo scienziato troppo fiducioso delle proprie teorie e/o troppo sicuro di sé oppure ideologicamente convinto di qualcosa (o della sua non verità ), di fronte all’evento nuovo può imbarcarsi nelle spiegazioni più contorte e impressionanti, ma l’invito concreto che dev’essergli mosso è lo stesso che sentiamo in una scena del film: «Ripeti con me: “non-lo-so“». L’umiltà di fronte al mondo circostante innanzitutto.

The core

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Non è tutto vero ciò che è semplice

Nel film “Contact” di Robert Zemeckis (1997) la protagonista si ritrova, dopo varie vicissitudini, a sostenere un avvenimento della quale è l’unica testimone e per il quale non è in grado di fornire altra prova se non la sua stessa testimonianza. La spiegazione più “semplice” che il mondo scientifico dà all’accaduto è che sia stato tutto una colossale truffa. In realtà lo spettatore, che “ha visto tutto”, sa che la spiegazione della protagonista è vera e sa anche che una telecamera che registra in pochi millesimi di secondo un rumore di diciotto ore è una prova da non rigettare.
Il film mostra come, ignorando o rigettando alcuni elementi che sono in realtà validi, sia possibile giungere a conclusioni totalmente errate.


Spoiler: consiglio di non guardare a chi non vuole rovinato il finale del film.
Il volume è un po’ basso ma spero si senta lo stesso.

Il mondo della scienza non è nuovo a questo tipo di approccio fallace: lo abbiamo visto per quanto riguarda i fossili, ma cose analoghe sono successe per le meteore, i microrganismi e, perfino, il concetto stesso di “Big Bang”. Pensiamo, per esempio, all’esperimento di Rutherford: bombardare con particelle alfa un foglio d’oro e osservare i bagliori prodotti su uno schermo fluorescente dall’impatto di queste particelle. La maggior parte dei bagliori sono osservati dall’altra parte del foglio, evidenziandone l’attraversamento da parte delle particelle alfa. Una piccolissima quantità di bagliori viene però vista all’indietro: la spiegazione più “semplice” sarebbe quella di imputare questi ultimi bagliori a rumore di fondo e perturbazioni dall’esterno. Avessimo dato credito a questa spiegazione, penseremmo ancora che l’atomo sia un panettone con gli elettroni e i protoni al posto dei canditi. Come invece sappiamo, la spiegazione vera è più complessa: un nucleo; un grande spazio vuoto; elettroni che orbitano all’esterno.

Il Rasoio di Occam è il principio metodologico, formulato nel XIV secolo da Guglielmo di Occam, secondo il quale la spiegazione di un fenomeno è tanto migliore quanto minori sono le ipotesi ad essa necessarie. Potrebbe anche essere formulato, in altri termini, sostenendo che, a parità di fattori, la spiegazione più “semplice” sarebbe quella migliore.
L’esperienza personale insegna però che a maneggiare un rasoio con poca perizia si rischia di provocarsi qualche doloroso taglio o di restarci addirittura secchi. Il principio, di per sé, non è errato ma, di fatto, può essere applicato solo a casi abbastanza ipotetici, dove si può imporre l’ipotesi che l’osservatore sia a conoscenza della totalità dei fattori con grande precisione. Nel momento in cui l’osservatore ha a disposizione solo una piccola porzione degli elementi in gioco o sceglie arbitrariamente di ignorare alcuni fattori, si fa in modo che la spiegazione più semplice sia la propria. A questo punto, applicare il Rasoio di Occam diventa solo un modo per piegare i fatti alla propria teoria perché, per chiusura mentale, ne abbiamo stabilito la validità a priori.

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Ammoniaca

Si vede spesso nei film o nei telefilm la classica torta lasciata sul davanzale della finestra. Questa procedura non serve a farla “raffreddare” come sembrerebbe e non è neanche una procedura scaramantica di qualche tipo. Allora perché lasciare i propri dolci a disposizione di insetti, ladri e burloni?

Il motivo di questa procedura sta nel lievito. Quando si utilizza un lievito organico, come il lievito di birra, si aggiungono dei particolari batteri all’impasto. Questi batteri, se lasciati in ambiente sufficientemente caldo, si moltiplicano, mangiano gli zuccheri dell’impasto e producono anidride carbonica (CO2). Con la cottura poi l’impasto cristallizza e i batteri muoiono. La lievitazione biologica richiede però tempi lunghi: bisogna lasciare l’impasto sotto le coperte per gonfiarsi al calduccio.

L’alternativa al lievito biologico è il lievito chimico. Uno di questi è il bicarbonato di ammonio (NH4)HCO3 che permette di ottenere della CO2 senza ridurre gli zuccheri della pietanza (e probabilmente è per questo che si usa per i dolci). Il problema è che questo tipo di lievito non produce solo anidride carbonica ma anche ammoniaca (NH3). È per questo che il dolce viene messo a prendere aria subito dopo la cottura: deve mandare via l’ammoniaca. E anche per questo che gli affamati in cerca di uno spuntino facile non mangiano mai i dolci abbandonati sul davanzale: avrebbero un odore ed un sapore orribile – ho fatto anche io questa esperienza con alcuni dolci appena comprati in pasticceria.

Per poter gustare il dolce senza inconvenienti bisogna aspettare che l’ammoniaca sia andata via tutta o in gran parte. Il golosone precipitoso ha perciò una brutta sorpresa.
Ci sono molte cose, nella vita, nelle quali non bisogna correre né esagerare. C’è un tempo per ogni cosa e bisogna saper aspettare prima di concedersi certi piaceri perché si corre altrimenti il rischio di rimanere con l’amaro in bocca. Rispettare i tempi sarà anche uno sforzo di volontà ma certo assicura il meglio a tempo debito.

Ammoniaca per dolci

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The abyss

Oggi parliamo di un film di James Cameron – il regista di Terminator, di Alien e del recente “Avatar” – uscito in Italia nel 1989. The abyss (l’abisso) è un film ambientato sul fondo dell’oceano e, per questo, è stato girato, in parte, in un bacino allagato nel cantiere di una centrale nucleare. In fondo all’oceano, in quell’ambiente “di frontiera” i protagonisti si trovano di fronte a delle misteriose creature luminescenti provenienti dalla vicina fossa oceanica.

Si possono osservare due diversi atteggiamenti di fronte a queste creature. I “buoni” cercano di entrare in contatto, di capire cosa hanno davanti, di scoprire l’ignoto nascosto dietro quelle rapidissime sagome luminose con dovuta prudenza ma senza ingiustificati timori. I “cattivi” sono invece spaventati e, facilitati dalla paranoia di una non identificata “sindrome”, saltano molto presto alla conclusione che quelle creature siano tecnologie di un governo avversario per spiare e distruggere la patria. Mossi da questa conclusione – dettata dalla loro ideologia del “nemico della Nazione” – trafugano una testata nucleare da un sommergibile affondato e la innescano per eliminare per sempre la minaccia.

Questo comportamento lo si nota anche fra la gente comune, ogni volta che ci si trova di fronte a qualcosa di non comprensibile o di inspiegabile, anche e soprattutto se a risultare incomprensibile non è un fenomeno naturale, ma il ragionamento e il comportamento di persone o gruppi di persone. In questo caso, l’ideologia e il pregiudizio fanno il loro mestiere di mettere il gruppo incompreso nei panni del “nemico” da distruggere, con le conseguenze che conosciamo: chiusura mentale, ostilità, critica ad oltranza, denigrazione.

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