Articoli da giugno 2011



Semaforo lampeggiante

A pochi metri da casa mia c’è un incrocio. È il punto di intersezione tra una strada larga e poco trafficata ed una strada più stretta ma molto più trafficata perciò è un incrocio un po’ sofferto: il semaforo ha sempre i tempi sballati così le autovetture sulla strada stretta ma trafficata si accumulano spesso in lunghe file mentre per la strada larga non passa neanche la polvere sollevata dal vento. Questa situazione, oltre ad aumentare le code, spinge anche alcuni automobilisti a scavalcare la fila invadendo la corsia del senso opposto di marcia e, infine, a passare con il rosso.

Una persona a me molto cara che fu un educatore nella mia adolescenza, quelle volte che mi riaccompagnava a casa, quando vedeva che quel semaforo era lampeggiante o spento diceva: «Di male in meglio». In effetti un semaforo scalibrato e generatore di traffico è una bella grana un po’ per tutti, perciò ci si sente molto più liberi e felici quando siamo noi a scegliere il momento di attraversare l’incrocio. Questa libertà si paga però a caro prezzo.

Come ogni mattina, oggi camminavo con il mio libro aperto fra le mani verso quell’incrocio, dove il semaforo è lampeggiante da circa una settimana. Girato l’angolo mi accorgo di due autovetture ferme proprio nel centro dell’incrocio: praticamente un’auto ad alta velocità che proveniva dalla strada larga ha centrato la fiancata di un’altra macchina che veniva – da destra – dalla strada stretta.
Ecco fatto: traffico al quadrato.
E non è la prima volta: è successo di automobili che sono finite completamente fuori strada rovinando addosso ad altri veicoli parcheggiati o penetrando all’interno dei cortili dei condomini limitrofi.

Noi siamo convinti che il “fastidio” che deriva da una norma, un precetto, un’imposizione, una limitazione della nostra libertà non valga il beneficio della nostra sicurezza, della nostra integrità e, in ultima analisi, del nostro bene. Anzi vogliamo sentirci più liberi e presumiamo di essere così bravi, giudiziosi e coscienziosi da essere sempre in grado di usare tutte le nostre libertà senza mai produrre conseguenze, da saper badare benissimo da soli al nostro bene (magari pensando che il nostro bene sia bruciare un semaforo per arrivare in orario piuttosto che salvaguardare la nostra stessa vita).
C’è anche chi si crede così in gamba da essere libero di passare con il rosso – “finché non mi vede il vigile passo, tanto questo rosso non lo condivido” – almeno finché non viene lo sbaglio fatale. Gli avvertimenti ci sono, siamo liberi di ignorarli contro il nostro bene.
È ovvio che una regola applicata sterilmente, come il semaforo che non fa bene il suo lavoro, ci faccia supporre che la regola (o il suggerimento di comportamento) non sia valida o sia insensata, ma ciò che dovremmo contestare non è il principio della regola (la presenza del semaforo) quanto la sua applicazione non ragionevole perché tanto è eccessiva la libertà data dal semaforo spento, quanto è opprimente l’imposizione non ragionata di un segnale rosso inutile.

Semaforo lampeggiante

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La combriccola dei nucleoni

Una delle cose più affascinanti della fisica nucleare – tra quelle che mi spinsero ad intraprenderne gli studi – è il concetto di difetto di massa. Il nucleo di ogni atomo è formato da nucleoni, il nome che diamo a protoni e neutroni quando stanno insieme in un nucleo. Quando stanno da soli, ciascuno per conto proprio, ogni protone ha una massa a riposo di 1.672 · 10−27 Kg ed ogni neutrone ha una massa a riposo simile (1.674 ·10−27 Kg) perciò, se la matematica non è un’opinione, chiunque concluderebbe che un nucleo di oro peserebbe esattamente la somma di 76 volte il peso del protone e 118 volte il peso del neutrone.
Invece non è così: un nucleo di oro pesa di meno! Una parte della massa “scompare” per essere spesa in energia di legame. Come e perché ciò avvenga non è chiaro al 100% ma non è di questo che voglio parlare.

Tra i più antichi ricordi che ho ci sono quelli di quando andavo all’asilo: eravamo bambini un po’ monelli, incapaci di frenare un commento o un comportamento che potesse ferire l’altro. Infatti si era formato il gruppo dei “normali” mentre gli altri erano esclusi e spesso insultati. Ricordo un compagnetto che veniva emarginato per la sua benda da occhio pigro, un altro che se ne stava isolato perché tirava su con il naso e poi c’ero io, del colore sbagliato. Non so come, invece di starcene ciascuno per conto proprio a piagnucolare sulla propria emarginazione, cominciammo a stare insieme e a giocare. Anche a me faceva impressione l’occhio pigro o il continuo tirare su con il naso, come penso che anche ai miei compari facesse uno strano effetto il mio aspetto però avevo imparato che, come i nucleoni, bisogna rinunciare ad un po’ della propria massa – pregiudizi, impressioni, esteriorità, nomea – per stare insieme. L’energia di legame nel gruppo dei “normali” era invece nulla e questo comportava divisioni e litigi, la pretesa di ciascuno per la quale devono sempre essere gli altri ad adeguarsi a noi e non il viceversa.

Un caso più calzante è quello del matrimonio: due umani (nucleoni) di diversa natura (un uomo/neutrone e una donna/protone) stanno insieme ma non può esserci vero amore senza sacrificio (difetto di massa) altrimenti, prima o poi, la coppia esplode.
Altro caso si verifica nel mondo dei blog e bloggers: ci sono quelli del “giro grosso” e quelli “strani” che in pochi vanno a visitare, piccole nicchie con grandi tesori che in pochi conoscono. Colgo allora l’occasione per ringraziare i miei 6 lettori pregandoli di restare “connessi” con questa piccola nicchia anche se per qualche giorno non avrò il tempo di pubblicare materiale nuovo. Grazie.

Nucleo e nucleoni

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Meccanica “non si sa”

Quando vogliamo fare una previsione per un sistema classico ci bastano un’equazione e alcuni dati al contorno per ottenere quel che cerchiamo. Se, ad esempio, voglio prevedere l’orario di arrivo di un treno mi basta applicare la legge del moto rettilineo uniforme conoscendo la lunghezza del percorso, la velocità media del treno e l’orario di partenza.

Quando le dimensioni del nostro sistema si riducono considerevolmente o il numero di variabili cresce, questa operazione diventa praticamente impossibile. L’unico espediente per riuscire a darsi verso è quello del formalismo della meccanica quantistica (o ondulatoria) che, nonostante tutto, non consente di prevedere dove e quando troverò una particella. Il formalismo della meccanica quantistica tratta le probabilità, cioè di un sistema posso solo sapere quanto è probabile che avvenga un determinato fenomeno ma non so esattamente quando avverrà. Insomma, un’impotenza conoscitiva nascosta sotto un tappeto matematico.

Se costruisco un aeroplano di carta e lo lancio dal tetto della mia casa, potrò dire che probabilmente cadrà da qualche parte davanti a me e meno probabilmente mi cadrà dietro ma, considerando che una qualsiasi corrente d’aria può portarlo in posti imprevedibili, non sono in grado di sapere dove esattamente l’aereo cadrà (e potrebbe cadere proprio dietro di me).
Ecco: spesso pensiamo che con la scienza abbiamo tutto a portata di mano, tutto calcolabile e tutto definibile; invece basta aumentare il numero delle variabili o rimpicciolire abbastanza il sistema ché dobbiamo “accontentarci” di un calcolo delle probabilità, perché in effetti non sappiamo prevedere granché. La scienza ha i suoi limiti e la meccanica quantistica – ovvero meccanica “non lo so come finisce ma in un caso su cento finisce bene” – ne è la testimonianza.

Funzioni d'onda dell'idrogeno

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La dimostrazione sbagliata

La prima volta che ho aiutato seriamente qualcuno nello studio non è stato affatto semplice. Finché si trattava di passare qualche appunto o spiegare solo qualche passaggio me l’ero sempre cavata in poco tempo: in fondo, anche se c’era qualcosa che non ricordavo bene potevo sempre dedurre la situazione dal contesto e riempire il buco facendo ricorso anche a ciò che invece mi ricordavo.

Quando dovetti invece cimentarmi nel fare il (quasi) docente ero totalmente impreparato, vuoi perché ancora non avevo terminato i miei studi e non avevo molto tempo, vuoi perché un’attività del genere richiede una preparazione che non sia soltanto conoscere bene quel che si è studiato.
Capitò allora un problema nel quale si richiedeva una particolare preparazione sulla dinamica di rotazione, argomento che -guarda caso – quando ero studente non fu trattato adeguatamente lasciando una lacuna. Senza perdermi d’animo attaccai il problema della persona che aiutavo con una dimostrazione matematica che portò ad una bella formula da applicare per risolvere l’esercizio. Ah, che soddisfazione: ancora una volta me l’ero cavata.
Lo svolgimento fu consegnato al docente e fu valutato… malissimo. Da quel giorno la persona che aiutavo diffidò di tutte le mie “dimostrazioni” che non fossero replicate tali e quali su qualche libro. Dopo quella volta mi sono messo a studiare diverse cose da autodidatta cercando di colmare le lacune e di essere un po’ più preparato.

Ci sono almeno tre riflessioni che si possono fare a partire da questa storia.
Innanzitutto dimostra che confidare troppo in sé stessi porta prima o poi a sbagliare. Nessuno è perfetto – si dice – e questa imperfezione non la si può mettere da parte, ignorare. Chi fa affidamento solo sull’uomo, sull’umanità, deve sapere che questa fallibilità può rovinare anche il piano più studiato e che la sua fiducia potrà essere tradita in ogni momento.
In secondo luogo fa riflettere la diffidenza di fronte a tutte le altre dimostrazioni che vennero dopo, cose che ho fatto fino all’altro ieri per il mio lavoro e che nella maggior parte dei casi si sono rivelate corrette. Noi dobbiamo sempre verificare e vagliare tutto, con la nostra esperienza e con la verifica in prima persona però dobbiamo evitare gli eccessi: il rifiuto a priori di tutto quanto ci viene detto per via di pochi errori.
Terzo ed ultimo, se non mi fossi cimentato nell’aiuto scolastico e se non fosse mai avvenuto quel che abbiamo letto qua sopra, io sarei rimasto con le mie lacune, non avrei imparato a verificare quel che facevo, avrei continuato a riporre erroneamente la mia fiducia nelle mie sole capacità esponendomi a guai ben peggiori, non avrei mai scritto questo post con tutte le conclusioni che ne conseguono. In parole povere, anche quella sconfitta, quel momento di male e di sofferenza alla fine hanno avuto un senso, uno scopo, che in ultima analisi può anche riparare il danno riportato dalla persona che aiutavo (almeno si spera).

Dimostrazione

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Il nocciolo

Prima della relatività di Einstein, il termine “teoria” significava una cosa ben precisa: un sistema di ipotesi e seguenti tesi che rappresenta una delle possibili spiegazioni ad un fenomeno. La teoria della relatività fu intesa in questo modo finché non furono osservati alcuni fenomeni – la differenza temporale fra orologi atomici in orbita, le lenti gravitazionali – che ne verificarono i postulati. Il nome “teoria” è però rimasto davanti a “relatività”, perciò si è dovuto agire sul significato del termine per permettere questa eccezione:

teoria 1 [te-o-rì-a] s.f.

  • 1 Formulazione rigorosa e sistematica dei principi di una scienza, di una filosofia o di qualsiasi altra forma di sapere: la t. della relatività; ipotesi scientifica formulata per la spiegazione di fenomeni particolari: formulare una t. sullo sviluppo economico
  • 2 Nel l. com., opinione, punto di vista riguardo a qlco.: ho una mia t. su come educare i figli
  • 3 Insieme di norme e principi generali e astratti su cui si fonda un’attività pratica; l’attività intellettuale, concettuale: la t. economica, politica || esame di t., prova scritta necessaria per conseguire la patente di guida che precede la prova pratica |in t., dal punto di vista puramente teorico: in t. la cosa è semplice

dal sabatini-coletti

Nonostante le (in)opportune correzioni, una teoria è e resta sempre in antitesi con la “pratica” e, per estensione, anche con la “realtà”. I principi di una scienza, anche se formulati rigorosamente e sistematicamente, possono ancora essere considerati non definitivi, una delle tante possibili spiegazioni, qualcosa che potrebbe rivelarsi falso in qualsiasi momento. E non finisce mica qui.
I principi di una scienza molto raramente sono autoconsistenti, cioè raramente non necessitano di alcuna base sulla quale poggiarsi. Nella stragrande maggioranza dei casi un principio altro non è che quella tesi conseguente alle ipotesi in quel sistema che rappresenta una delle possibili spiegazioni ad un fenomeno. Ciò implica che quanto più un’ipotesi si allontana dal caso reale, tanto più la teoria si trasforma in una fantasia adattata ad alcuni fatti – e che pretende di esserne poi avvalorata; non è neanche più la rappresentazione di un caso “ideale” – cioè senza imprevisti.

Per fare un esempio pratico possiamo citare il film “The core“, non tanto per il contenuto scientifico o meno ma per l’approccio alla scienza che viene più volte messo in risalto all’interno del film. Di fronte alla teoria che spiega – o spiegherebbe – come è fatto l’interno del pianeta, più volte viene presentato il dubbio: “E se non fosse così?”. Ed effettivamente il dubbio viene confermato più volte perché, nonostante tutte le prove che possono avvalorare la nostra teoria, la prova definitiva – cioè la misura in loco – non c’è. In questo, come in moltissimi altri casi nella storia della scienza, dall’archeologia all’astrofisica, la realtà si dimostra sempre ricca di sorprese; sorprese che possono distruggere in un batter d’occhio le nostre teorie.

Lo scienziato troppo fiducioso delle proprie teorie e/o troppo sicuro di sé oppure ideologicamente convinto di qualcosa (o della sua non verità ), di fronte all’evento nuovo può imbarcarsi nelle spiegazioni più contorte e impressionanti, ma l’invito concreto che dev’essergli mosso è lo stesso che sentiamo in una scena del film: «Ripeti con me: “non-lo-so“». L’umiltà di fronte al mondo circostante innanzitutto.

The core

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Fumetto sperimentale

Fumetto - Prima parteFumetto - seconda parte

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Il contenuto del web

Continuando la riflessione su Facebook e, per estensione, internet, un effetto “collaterale” dell’eccessiva “libertà” di questi mezzi può riportarci ad esaminare la realtà in modo più lucido.

Nel mondo di Facebook ciascuno ha la sua bacheca dove ha la possibilità di pubblicare tutto ciò che vuole: frasi; immagini; links. Anche nel mondo più ampio di internet, una volta attivato uno spazio gratuito o a pagamento, ciascuno è “libero” di pubblicare ciò che vuole. Troviamo infatti un sito per ogni postulato – vero o falso che sia – che la mente umana è riuscita a generare nei secoli: dagli UFO alla medicina alternativa; dalle foto dei corpi straziati in incidenti stradali ai forum che pullulano di polemiche. È chiaro che l’assenza totale di controllo e di regolamentazione dei contenuti è più un problema che un vantaggio, ma un effetto di questa situazione è un’uguaglianza, se non effettiva, almeno apparente.

Per assurdo io posso pubblicare sulla mia bacheca o sul mio spazio web lo stemma o lo slogan di un gruppo o organizzazione che è invisa a gran parte dei miei contatti/lettori. Ciascuno di loro si vedrà comparire sulla pagina principale questo messaggio scomodo e potrà pure indignarsi ma il massimo che potrà fare è evitare di guardare (nascondere la pubblicazione) o pubblicare a sua volta un contenuto opposto. Ciò che non è consentito fare è di obbligare qualcuno a non pubblicare o a rimuovere del materiale solo perché orientato verso quella determinata entità della quale non condividiamo finalità e intenti. L’uguaglianza – che in questo caso, per molte ragioni, non ritengo si possa definire “piena” – sarebbe garantita dal fatto che chiunque può pubblicare contenuti buoni per sé stesso ma scomodi per gli altri.

Al contrario, nel mondo “materiale” c’è un folto gruppo di persone che ritengono corretto il poter obbligare una persona o una istituzione ad una presunta “neutralità” degli spazi. Eppure è contraddittorio che su internet si vanti una libertà di espressione quando si pubblica – anche in spazi altrui – del contenuto “scomodo”, mentre nel mondo materiale si pretenda una censura quasi totale in nome di un’impossibile uguaglianza/neutralità. Gli antichi dicevano “in medio stat virtus” per invitare alla moderazione; forse è bene riflettere sugli eccessi di entrambi gli scenari e agire di conseguenza.

Affissione

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Deformazione professionale

Recenti studi neuropsichiatrici hanno evidenziato che utilizzare uno strumento modifica il cervello. Riflettendoci è una cosa quasi scontata: man mano che uso uno strumento “imparo” ad averne maggiore dimestichezza adattandomi con plasticità. In fondo, modi di dire come “deformazione professionale” descrivono bene questi effetti. Esiste però un limite oltre il quale questa “deformazione” diventa nociva?

Uno strumento che è ormai diffuso in ogni casa è la televisione. La televisione ci ha abituati ad essere spettatori, ad un rapporto privo di interazione con quanto ci viene proposto, ma ci ha anche abituati allo zapping: se un programma non mi piace, cambio canale; se non so cosa guardare, cambio canale. La cosa è ancora più marcata quando l’offerta di canali si aggira attorno al centinaio.
La conclusione di queste abitudini, quando non riusciamo a separare la vita davanti allo schermo da quella a contatto con il resto del mondo, è che pretendiamo di poter fare zapping anche con tutto ciò sul quale pensiamo di avere il benché minimo potere. Ci scegliamo gli amori, ci scegliamo la carriera, ci scegliamo il cibo, il momento per uscire, le attività della giornata, il valore stesso della propria esistenza e di quella degli altri. È così almeno finché non sopraggiunge un “imprevisto” che riporta la realtà ad imporsi sui nostri capricci.

Altro strumento è Facebook. Mi è capitato in questi ultimi giorni di sperimentare “l’effetto Facebook” cioè la trasformazione dei propri contatti e amici in una facciata web, con annessa matrice di pixel (fotografia) ed insieme di caratteri (contenuto dello stato). Quando smettiamo di vedere la persona, oltre il dato numerico che ci viene presentato attraverso la pagina, il nostro comportamento degenera rapidamente: una pagina web si può insultare, offendere e ridicolizzare quanto vogliamo; una persona che abbiamo davanti e ci guarda negli occhi no, specie se è un “amico”. Quanto più l’ideologia scende al livello della tifoseria da stadio, tanto più sostituirò la stima personale ed il rispetto con le loro antitesi.
Tutto ciò non è prerogativa di Facebook: succede praticamente con qualsiasi cosa della quale, per un motivo o per un altro, perdiamo il valore.

La nostra riflessione non deve però condurci a proibire la televisione o Facebook, come per soddisfare una qualche legge del taglione, ma deve produrre un’attenzione particolare, un costante richiamo al valore delle proprie amicizie e ad un corretto rapporto con il reale.

 

Internet cane

"su internet nessuno sa che sei un cane"

 

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Cosmo orfano

Finalmente l’era spaziale, la vera era spaziale per la Terra era iniziata. Da quando, all’inizio del secolo, i fratelli Guiltmore avevano costruito il primo prototipo di astronave superluce, ogni nazione aveva fatto di tutto per dotarsi di questi mezzi. Un intero cosmo era sopra tutti loro in attesa di essere scoperto, esplorato, colonizzato.
Molti ragazzi avevano intrapreso la carriera scientifica con il sogno di poter mettere piede su quelle 345 astronavi presenti nel mondo. John Clever era uno di questi. Sarebbe diventato un buon sergente di macchine una volta imbarcato. Conosceva alla perfezione ogni passaggio del funzionamento dei motori e dei reattori dei nuovi modelli di astronavi. Era solo una questione di tempo e, terminati gli studi, si sarebbe imbarcato.

Il cinque ottobre di quello stesso anno l’astronave russa знаний aveva iniziato le procedure di discesa in atmosfera verso l’astroporto di Sanpietroburgo. Era in anticipo di due ore perché il capitano era talmente eccitato per la scoperta di un pianeta extrasolare abitabile da voler precipitarsi subito a casa a comunicare personalmente la notizia. Una fitta nebbia circondava l’astroporto, nel quale si preparava il decollo della разведка.
«Tutto operativo, signore»
«Bene… Tenente, com’è finita con il disturbo statico?»
«Ancora niente, signore. Rileviamo il radiofaro dell’astroporto ma le comunicazioni sono disturbate»
Pochi minuti dopo l’addetto alle comunicazioni prese la parola: «Signore… Comunicazione in arrivo»
«In viva voce»
“…. traiettoria….pista…at…libera”
Dopo qualche secondo il capitano concluse: «Via libera. Incanalarsi lungo la traiettoria di atterraggio». L’astronave entrò in quella strana nebbia scomparendo dai radar disturbati della torre di controllo. L’operatore capo della torre, osservati i radar, allora ordinò: «Comunicate il via libera alla разведка»
«Fra poco dovremmo vedere l’astroporto» bisbigliava un tenente della знаний al suo collega seduto lì vicino, mentre tutta la plancia guardava lo schermo principale. Tutti gli occhi erano fissi su quello schermo. Da un momento all’altro avrebbero rivisto il suolo.
Improvvisamente sullo schermo apparve la разведка che andava dritta verso di loro.
«Porco diavolo!» esclamò il capitano e fu l’ultima cosa che disse. A nulla servirono le manovre di emergenza: le due navi si scontrarono e, per l’impatto, entrambi i reattori principali delle due navi detonarono sprigionando tutta la loro energia. Fu distrutta qualsiasi cosa in un raggio di ottanta chilometri. L’intera città di Sanpietroburgo cancellata dalle cartine. Milioni di morti all’istante. L’asse della Terra si spostò di tre centimetri e la contaminazione si estese fino in Francia, in India e nel Canada.

Un anno dopo la tragedia iniziò lo smantellamento delle 343 astronavi rimanenti.
Una sera John era salito a riflettere sulla collina. In lontananza vedeva le carcasse di quei bastimenti dello spazio circondate dalle luci delle fiamme ossidriche. Sembravano immense carcasse di calabroni lentamente smembrati dalle formiche.
John alzò lo sguardo e sospirò guardando la volta celeste. Proprio in quel momento una stella cadente tagliò in due la sua visuale. Quel cosmo orfano di esploratori versava una lacrima per il piccolo pianeta che si era chiuso in sé stesso. Un mondo che aveva scelto di concludere la sua agonia entro i suoi limitati confini.

Stella cadente

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Per quel piccolo neo

«Mamma, io a scuola non ci vado»
«Che cosa?!?! … Avanti, non fare i capricci e preparati»
«NO! Non è un capriccio, mamma: io ragiono con la mia testa e l’educazione che voglio me la scelgo io»
«Non è un motivo per non andare. Preparati se non vuoi restare ignorante come un somaro»
«Non insultare la mia scelta. Io non sarò un somaro. E poi lo sappiamo cosa fanno gli insegnanti…»
«Sentiamo. Cosa fanno?»
«Gli insegnanti sottopongono gli studenti ad indicibili derisioni, picchiano coloro che dovrebbero istruire e spesso ne abusano sessualmente. Non permetto a queste persone di pretendere di insegnarmi alcunché»
«La verità è che non vuoi studiare perché è faticoso. Ora fila a scuola o te le suono di santa ragione.»

Siamo sempre pronti a lamentarci, a puntare il dito e concentrare la nostra attenzione sul peggio. Andiamo a cercare anche il più piccolo neo e quando lo troviamo generalizziamo subito classificando un’intera categoria in base a quel solo piccolo neo, magari ingigantendolo diverse volte, fino a farlo diventare il marchio distintivo di quelle persone che non ci vanno a genio. Non è che lo facciamo per amore della verità, perché delle persone che ci piacciono non amiamo perdere tempo nel cercare macchie e scheletri nell’armadio. Lo facciamo perché, per altri motivi, abbiamo bisogno del torto nelle ragioni altrui.
Quando qualcuno dice o fa delle cose per noi sconvenienti, soprattutto se in cuor nostro sappiamo essere vere e/o giuste, allora cerchiamo scuse su scuse per giustificare innanzitutto noi stessi rendendo ingiustificabile quel qualcuno. Eppure questo comportamento è un chiudere gli occhi di fronte all’immenso bene che fanno quelle persone delle quali cerchiamo gli orrori, è un “tagliare fuori” una parte della realtà per i propri fini. In parole povere, un’ideologia.

Maestra

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