Articoli da luglio 2011



Giustizia

“Giustizia è fatta”, “consegnare alla giustizia”, “giustizia sommaria”; utilizziamo questa parola spesso ma ho ultimamente avuto l’impressione che nell’uso comune il termine si sia un po’ discostato dal suo significato.
Partiamo da “giusto”. Quando subiamo un torto o vediamo qualcuno subirlo e abbiamo un attimo di empatia, noi diciamo “non è giusto” o “è un’ingiustizia”. Fare giustizia è però estremamente difficile perché richiede la conoscenza di tutte le condizioni al contorno. Se vedo un uomo colpirne un altro con il proprio cappello posso presumere che egli sia un gradasso ma se sapessi che con quel gesto ha allontanato un’ape da un individuo allergico, salvandogli la vita, il nostro giudizio sarebbe diverso. È più giusto punire soltanto il colpevole oppure riparare il danno e ottenere un bene dal male compiuto?

Possiamo passare tutta l’esistenza a pretendere la prigionia per ogni persona che abbia sbagliato, ma siamo sicuri che invocheremmo lo stesso trattamento per un nostro errore, per una nostra mancanza momentanea?
Diciamo anche che un uomo che abbia sbagliato debba “pagare il suo debito verso la società” ma se c’è un debito, questo è tra una vecchietta ed il suo scippatore.
E se il rapinatore, il giorno dopo lo scippo, ritorna dalla vecchina con la refurtiva e mille scuse? Per la legge è ancora qualcuno da mettere dentro; per la società sarebbe ancora un debitore, ma perché insistere? È ovvio che la legge debba fare ordine e che per fare ordine bisogna classificare i comportamenti in reati e non reati, prevedendo delle sanzioni. È vero però che le persone non sono oggetti o macchinari, che anche il più indicibile criminale può cambiare radicalmente e desiderare un colpo di spugna: iniziare una nuova vita.

Nella puntata “La coscienza del re” della serie originale di Star Trek, Kodos il carnefice viene riconosciuto da alcuni testimoni superstiti in Anton Karidian, un attore di una compagnia teatrale itinerante. Kodos aveva arbitrariamente fatto uccidere la metà della popolazione di un pianeta per garantire la sopravvivenza dei sopravvissuti in un momento di scarsità alimentare. Quando il tenente Riley, uno dei testimoni, minaccia di uccidere Anton Karidian, dietro le quinte, viene fermato dal capitano Kirk. Come si può pensare di riparare ad una ingiustizia con un’altra ingiustizia?

Il problema sono i moralisti, quelli che non gliene importa nulla se sei cambiato oppure no perché per loro devi pagare ugualmente; non gliene importa nulla se sei stato debole o se hai riconosciuto il tuo errore, devi saldare il debito con la società.
Ma chi sono i moralisti? Spesso è gente che assume questo comportamento solo contro una tipologia di persone. Dicono spesso di stare dalla parte delle vittime ma poi denunciano i crimini solo se a compierli sono i loro nemici ideologici. E le vittime degli altri criminali? Quelli dei quali non parlano? Forse i moralisti stanno solo dalla parte di alcune vittime: quelle che fanno comodo.
Giustizia non è sinonimo di vendetta e non fa rima con “persecuzione”. “Giusto” sarebbe comprendere, prima ancora di giudicare.

La coscienza del re

Share

Il piatto

Leggevo poco tempo fa un ragionamento che si può riassumere così: “Dimmi come mangi e ti dirò chi sei”. In effetti i modi di approcciarsi al piatto che si ha davanti possono essere diversi. Io, ad esempio, preferisco dividere i vari sapori e demolire la pietanza lasciando l’elemento (o gli elementi) più gustosi alla fine. Lì dove leggevo quel ragionamento, il mio modo di fare era presentato come positivo infatti, mentre la fame rende più gustosi i primi bocconi, il confronto con gli ultimi ne amplifica il buon sapore. In conclusione non si scarta nulla del piatto che si ha di fronte.

Conosco però una persona che mangia, secondo me, ad un livello superiore rispetto a quello appena descritto. Io divido le pietanze, lei le mescola. Invece di classificare i sapori in “più buoni”, “buoni”, “meno buoni” e “cattivi” sperimenta intrecci, fusioni, perfino collaborazioni. Nel suo caso non è detto che un sapore cattivo o meno buono non possa collaborare a rendere il piatto ancora più delizioso. In fondo, se la persona che lascia per ultime le cose buone è elogiata perché non butta via niente, lei fa di più: non cerca soltanto di evitare il rifiuto di ciò che è negativo, ma potenzia la resa totale del piatto facendo uso di tutte le sue parti.

È vero, la vita è come una pietanza che ci viene messa davanti e chi riesce a non tagliarne fuori nulla vivendo senza ideologie è meritevole però è anche vero che non possiamo scegliere di mettere la parte brutta della vita all’inizio e quella bella alla fine. È fatta così: una mescolanza di alti e bassi, di cadute e ascese, di vizi e virtù. Riuscire a farne qualcosa di globalmente significativo sfruttando tutto, facendo convergere anche la nostra miseria in una ricchezza, è ben più che viverne la parte bella tollerando quella brutta.

Piatto separato

Share

Altre dimensioni

In genere, se spostiamo un oggetto, qualsiasi suo movimento può essere considerato come la somma di tre traslazioni lungo le tre direzioni: x; y; z. La posizione di un oggetto è quindi definita dalle sue tre coordinate e dall’informazione sull’istante in cui occupava quella posizione: x; y; z; t.
Se c’è una cosa interessante dei fisici teorici è che sognano e fanno sognare: una delle ipotesi più affascinanti che siano state concepite è che non esistano soltanto le dimensioni spaziali e la dimensione temporale alle quali siamo abituati, ma che esistano altre coordinate delle quali non riusciamo a percepire l’esistenza.

Per fare un paragone esemplificativo possiamo considerare il desktop di Linux: sul mio pc Linux posso disporre di ben quattro desktop, ciascuno di essi selezionabili nella parte inferiore destra dello schermo. È come avere quattro schermi contemporaneamente, ciascuno con le sue finestre e i suoi programmi ma che hanno stesse dimensioni, stesse icone e stesso sfondo. Due programmi diversi possono allora avere identica posizione ma non essere sovrapposti perché appartenenti a due desktop differenti.

Se l’ipotesi dei teorici è corretta potrebbe anche darsi che proprio lì dove stiamo guardando lo schermo di un computer ci sia anche – in una diversa coordinata non percepibile – un fiore con petali esagonali o un drago viola o lo spazio interstellare. Chiaramente stiamo sfociando nella fantascienza, ma ci sono ricercatori che intendono utilizzare il Large Hadron Collider proprio per traslare alcune particelle lungo quelle coordinate impercettibili provocandone la letterale sparizione dal nostro universo.

Tutto questo discorso ci interroga sulla possibilità che esistano delle cose invisibili, intangibili e non misurabili ma che stiano esattamente dove siamo noi: sarebbero lì ma non le percepiremmo. Esiste soltanto ciò che possiamo percepire e/o misurare?

Selettore area di lavoro

Share

Modelli

Un modello è un sistema di equazioni e regole che descrivono bene un soggetto fisico ed il suo comportamento, ma che sono basati su delle ipotesi che possono anche non essere sempre verificate o che, pur non essendo vere, semplificano il problema. Per fare un esempio, una delle ipotesi che si fa più spesso è quella di supporre che il sistema che stiamo studiando sia omogeneo, cioè di composizione e caratteristiche identiche in ogni suo punto. La realtà invece è che ci sono punti dell’oggetto più amalgamati di altri o con composizione chimica diversa.

Uno stesso oggetto può essere descritto da più modelli. Ad esempio, il comportamento di un nucleo può essere descritto dal modello a goccia liquida (ottimo per descrivere la fissione) o dal modello a shell (buono per descrivere le eccitazioni e alcuni tipi di decadimento); c’è poi il modello statistico (utile per descrivere il processo di fusione) oppure il modello a cluster e così via…
Il fisico che si appresta a studiare un sistema sceglie di utilizzare il modello che funziona meglio nelle condizioni del suo esperimento. Non c’è un modello che ha più ragione di altri e neanche significa che il modello dica realmente come si comporti un nucleo. Infatti il modello a goccia di liquido suppone che il nucleo possa comportarsi come una goccia sferica di materia liquida ma non dice che il nucleo è un liquido. È semplicemente un modo di descrivere dei comportamenti e fare delle previsioni senza alcuna pretesa che la realtà sia esattamente quella che il modello ipotizza.

Noi non sappiamo ancora quale sia l’esatta realtà del nucleo. Ci appelliamo ai modelli per indagare meglio la natura ma non sappiamo intimamente quali siano i reali meccanismi che stanno dietro ad un determinato sistema.
La scienza funziona così: le spiegazioni che “funzionano” vengono adottate in mancanza d’altro ma il buon funzionamento di un modello o di una teoria non significa che quel modello o quella teoria dicano la verità sulla natura del sistema descritto. E ciò non vale soltanto per i nuclei, ma anche per tutto ciò che crediamo assodato e certificato. Neanche la legge di gravità sopravvive alla “prova perché”, cioè esiste sempre un momento in cui la domanda “perché?” non ha più risposta poiché sconosciuta.

Pensiamo al sistema geocentrico: un complesso modello di equazioni spiegava come calcolare la traiettoria dei pianeti visti da terra, compreso il fatto che ad un certo punto invertissero il moto sulla volta celeste. La spiegazione che “funziona” meglio, non è detto che sia la più “vera”.

simulazione calcio

Share

Charlie X

Nell’episodio “Charlie X” della serie originale “Star Trek” l’Enterprise prende a bordo l’unico superstite di un naufragio spaziale. Il ragazzo, fin dall’età di tre anni è vissuto in solitudine sul pianeta Thasus non entrando mai in contatto con altri umani. Fin da subito l’adolescente mostra comprensibili reazioni anomale nell’interazione con gli altri membri dell’equipaggio ma il capitano e gli altri ufficiali si rendono presto conto che Charlie è diverso.

I misteriosi abitanti di Thasus hanno conferito a Charlie il loro potere, la capacità di piegare la realtà al proprio volere, e lo hanno fatto per consentirgli la sopravvivenza sul pianeta. Charlie però, più di molti adolescenti, non sa ancora come comportarsi e mal gestisce il suo potere. Quando perde ad una partita a scacchi, fonde col pensiero tutti i pezzi. Arriva a trasformare in lucertola una ragazza sua coetanea, paralizzare il signor Spock e fare scomparire delle persone.

Charlie è abituato ad avere tutto ciò che vuole perché può averlo. Se può ottenere qualcosa facendo uso del suo potere, perché non ottenerlo?
Spesso ci comportiamo anche noi come Charlie. Pensiamo che tutto ciò che siamo in potere di fare possiamo farlo e la società deve garantircelo. Ci appropriamo, in altri termini, di tutto il potere che possiamo finché questo può essere giustificato con ragionamenti, alcuni dei quali costituiscono una sorta di auto-inganno per credere che un comportamento non arrechi danno ad alcuno, a cominciare da noi stessi.
Alla fine dell’episodio Charlie viene recuperato dai thasiani nonostante le sue lamentele e i suoi pianti. Siamo sempre pronti a fare uso e abuso delle nostre facoltà finché non ci rendiamo conto che non siamo noi stessi a darcele e che quel che abbiamo può esserci tolto da un momento all’altro.

Charlie X

Share

Acchiappafantasmi

Uno strumento di misura può vedere solo ciò per cui è stato progettato. Come il nostro occhio vede solo una piccola porzione dello spettro visibile e il nostro orecchio ode solo un limitato intervallo di frequenze. Come possiamo allora sperare di poter osservare, percepire o scoprire ciò del quale non possiamo immaginare la natura?

Mi viene in mente il primo film degli acchiappafantasmi, perfettamente a cavallo tra fantasy, fantascienza e commedia. L’intero film è una parodia basata sull’esagerazione di quelle scienze o pseudo-scienze che studiano i fenomeni paranormali. Nel film, il dottor Egon Spengler ha progettato e costruito strumenti che  misurano la presenza dei fantasmi ed altre attrezzature per la loro cattura ed il loro stoccaggio.
Non manca neanche la figura dello scettico, Walter Peck, un colletto bianco del ministero dell’ambiente che definisce gli acchiappafantasmi “consumati venditori di fumo che usano gas sensorii e nervini per provocare allucinazioni”.

Ma come facciamo a sapere chi ha ragione? Lo spettatore vede tutto e ha meno dubbi, ma se il caso del film fosse una realtà bisognerebbe avanzare con i piedi di piombo perché mentre da una parte abbiamo delle misure e delle rivelazioni, dall’altra abbiamo la possibilità che quanto sia stato misurato sia del banale rumore di fondo o altri fenomeni noti ma non considerati nelle misure. Ciò però non ci autorizza a formulare fantasiose ricostruzioni che non si basino su dati veri. È qui che Walter Peck si sbaglia: sostiene la tesi dei gas allucinogeni senza averne misurato la presenza ma soltanto perché ai suoi occhi è più accettabile che sia così; finisce quindi con il provocare un disastro perché convinto di una cosa sbagliata.

L’uso corretto della ragione non è uno sterile scetticismo ideologico ma una attenta e paziente valutazione dei fatti e delle persone considerando anche la possibilità – a volte la necessità – di doversi fidare laddove necessario.

Rivelatore acchiappafantasmi

Share

Ordine e disordine

Avevo vagamente accennato al disordine parlando di entropia, una quantità legata anche alla reversibilità dei processi naturali, cioè legata alla possibilità di “tornare indietro”, di riportare qualcosa al suo stato iniziale. C’è un film di fantascienza, dal titolo “Punto di non ritorno“, che offre spunti di riflessione anche su questa tematica.

L’equipaggio dell’astronave “Lewis & Clark” è incaricato di raggiungere la “Event horizon”, un’astronave prototipo di grandi dimensioni contenente il primo motore interdimensionale il cui nucleo centrale è una sfera che racchiude un buco nero artificiale. Durante il primo test dell’innovativo motore la Event horizon ha fatto perdere le sue tracce nei dintorni di Nettuno e, dopo molto tempo, era misteriosamente riapparsa nello stesso luogo della scomparsa.
I membri dell’equipaggio della Lewis & Clark, tra i quali c’è anche lo scienziato che ha progettato il motore interdimensionale, scoprono che la Event horizon è deserta ma che una forte attività biologica diffusa viene rivelata all’interno della nave. La (o le) misteriosa entità a bordo proviene dal luogo dove la nave si era trasferita con il suo primo test. Si tratta di una «dimensione di puro caos e puro male», come si apprende dallo scienziato stesso dopo essere stato plagiato dall’invisibile entità, il cui scopo è di attirare nuove prede umane nella sua dimensione.

È particolarmente evidente come più o meno tutti associamo all’ordine un’idea positiva e al caos un’idea negativa. Le forze dell’ordine; andare per ordine; fare ordine; una persona ordinata; l’ordine naturale delle cose; sono tutte espressioni che infondono sicurezza, bellezza e bontà. Al contrario, il caos, il disordine, la non intelligibilità di un fenomeno o di un comportamento richiamano immediatamente insofferenza, tristezza, paura.
In particolare, l’intelligibilità dell’Universo, cioè la sua caratteristica di essere governato da leggi a noi comprensibili, costituisce un specie di ordine supremo; un ordine che – mi è capitato di dire altre volte – poteva non essere necessario. Eppure questo ordine c’è e dovremmo interrogarci sul perché esista e sul motivo del fascino che esso esercita su di noi (e dovremmo anche interrogarci sui motivi che ci spingono a farci queste domande).

Punto di non ritorno

Share

Il curatore

Si erano fatti strada nella giungla selvaggia per giorni e giorni, marciando con difficoltà, combattendo gli insetti mentre l’aria umida faceva ristagnare il sudore. Il quindicesimo giorno, i due esploratori trovarono una radura. La giungla si fermava di netto, lasciando il posto ad uno spettacolo di colori floreali.

«È stupendo – disse il primo – qualcuno deve sicuramente curare questo terreno». L’altro non era d’accordo: «Mah, potrebbe essere tutto spontaneo». «Aspettiamo e vediamo» rispose il primo. Così montarono le loro tende e si misero ad aspettare, ma dopo un paio d’ore ancora non si vedeva nessuno. Il terreno era veramente vasto: il misterioso curatore poteva essere stato in altre zone non a vista ed essere quindi passato inosservato.
Poiché sarebbe stato faticoso montare la guardia nella notte ad aspettare qualcuno che non sarebbe mai arrivato, il secondo esploratore disse sprezzante: «Tagliamo la testa al toro. Ora ci penso io!». Stufo di aspettare prese il filo spinato ed eresse una recinzione, che elettrificò. «Se viene qualcuno – disse soddisfatto – non ci sfuggirà».
Nessun grido di dolore fu udito durante la notte e il mattino dopo nessun corpo fu notato durante l’accurata ronda.

Mentre i due abbandonavano il terreno in cerca di qualcosa di più eccitante, lassù, in cima alla rupe, vestito di foglie intrecciate, li osservava seduto un anziano e calmo signore. «Che maleducati – pensò – Sono entrati nel mio giardino nel giorno di riposo e, non contenti, mi hanno pure messo filo spinato ovunque… – Un lungo sospiro non interruppe il pensiero – Ma perché, invece di venirmi a cercare, mi hanno tenuto alla larga dal mio stesso giardino? Cosa volevano? Che morissi per loro su quel fino spinato?».
I due figuri dovevano essere senza dubbio dei malintenzionati. Quando fu certo di essere di nuovo solo, il vecchio si alzò con il suo bastone in mano e incamminandosi concluse il suo pensiero: «Boh… Forse avrei dovuto farlo…».
Quante volte siamo stati avventati e impazienti? Quante volte non abbiamo saputo cercare e, non trovando, abbiamo smesso?  Che si tratti di metodo o di pazienza o di apertura mentale, se non riusciamo a vedere qualcosa è molto probabile che il motivo siamo noi stessi.

Giardino

Share

Chauvenet e dintorni

Non esistono quantità che possiamo misurare con precisione infinita: i nostri strumenti sono limitati e questo limite si trasmette ai risultati delle nostre misure. Questa precisione non si limita soltanto a definire il numero di cifre significative che il nostro numero, rappresentante la grandezza misurata, può avere dopo la virgola decimale; rappresenta ben di più. Il dato con cui dichiariamo l’imprecisione della nostra misura viene detto “errore” o “indeterminazione” ed ha un significato ben preciso ed importante.

Per semplificare, se misuro la lunghezza di un tavolo con un metro da sarta – che ha una divisione della scala ogni cinque millimetri – potrò dire che esso è lungo 150 centimetri e che la mia indeterminazione è di mezzo centimetro. Questo vuol dire che io non so se il tavolo è lungo 150.5 o 149.5 centimetri o una qualsiasi delle lunghezze che si trovano comprese tra questi due numeri.
Questa indeterminazione non è soltanto un valore “a corredo” della misura – ovvero un numero che dice soltanto quanto essa sia buona – perché può influenzare le nostre conclusioni. Se infatti una fabbrica di tavoli mi incaricasse di controllare che i suoi prodotti siano tutti conformi fra loro potrei dire che un tavolo lungo 150.5 centimetri ed uno lungo 149.5 centimetri sono della stessa lunghezza entro la mia indeterminazione di 0.5 centimetri. Nessuno infatti mi proibisce di dire che il valore “vero” – a noi sconosciuto – della lunghezza del tavolo sia per entrambi 150.0 centimetri.
Dichiarare l’errore della nostra misura e tenerne conto nelle nostre conclusioni è un atto di onestà e di umiltà.

Ci sono dei metodi matematici che sono qualche volta utilizzati per affinare i dati ma che si rivelano delle affilatissime armi a doppio taglio. Il criterio di Chauvenet, per esempio, è un test statistico che ci consente addirittura di rigettare dei dati misurati. Se usato bene, permette di localizzare un errore di battitura, per esempio. Se viene usato però su dati “buoni” può diventare un metodo di fare andare l’esperimento “come vorremmo che andasse” e non “come va realmente”. Può darci cioè il potere di imporre la nostra visione sulla realtà, con tutte le conseguenze che ciò comporta – comprese conclusioni forzate o addirittura fasulle.
Pensiamo per un attimo all’esperimento di Rutherford e a cosa sarebbe successo se avesse applicato Chauvenet a quei pochissimi anomali dati che rivelavano particelle deflesse in una direzione inaspettata: penseremmo ancora che l’atomo sia un panettone che ha per canditi protoni ed elettroni.

La statistica è una scienza che ha fornito decine di test per manipolare i dati; tutti armi a doppio taglio come il test di Chauvenet. Purtroppo esistono scienziati disonesti e davvero poco umili di fronte alla realtà che forzano i loro esperimenti alle loro teorie facendo uso massiccio di questi test. È così che appare magicamente un picco nelle fluttuazioni del rumore di fondo oppure che una misura poco significativa diventa invece la dimostrazione di una teoria. Non è molto diverso da chi sente messaggi in codice sussurrati nelle canzoni dei Beatles.
Le conseguenze di questo “dogmatismo” scientifico (deve andare così perciò dev’essere così) sono terribili: va a finire che tutti ritengano vero qualcosa che ancora non è verificato. Una misura ben fatta è una misura già così palese che non ha bisogno di test statistici per aumentare la sua validità. Facciamo attenzione: non tutto ciò che è scientifico può esser preso per oro colato.

 

Imbrogliare coi numeri

Robin Williams cambia un 3 in 8 nel film Mrs. Doubtfire

Share

Utile e repellente

Tra i ricordi del periodo in cui mi sono trasferito nel luogo dove vivo da ormai più di vent’anni ci sono i tramonti del tardo pomeriggio estivo. Fu in uno di quei momenti che vidi per la prima volta i pipistrelli. Ce n’erano sempre un paio che volteggiavano davanti casa in cerca di piccoli insetti con il loro incredibile sistema ad ultrasuoni. Con il passare degli anni sono state costruite case e strade lì intorno e i pipistrelli non sono più tornati. In compenso le zanzare sono aumentate.

Molta gente – e la comprendo bene – prova grande repulsione per gechi, pipistrelli e ragni. Certo non sono gli animali più affascinanti del mondo ed alcuni di essi hanno la pelle urticante o dei cheliceri velenosi. Non si può negare però che la loro alimentazione ci libera dal proliferare di insetti ben più fastidiosi o pericolosi. Non mi dilungo sulle malattie che una zanzara può trasmettere ma credo sia più fastidioso un ronzio che disturba il sonno notturno o un pomfo pruriginoso rispetto alla condizione estetica di altre creature.

A volte, se troviamo un ragnetto all’interno della nostra casa pensiamo più a finirlo che ad accompagnarlo fuori – dove tra l’altro avrebbe più possibilità di trovare insetti e farebbe meglio il suo utile lavoro. È uno di quei casi in cui lasciamo che la cosa più facile e più sopportabile prevale su un bene maggiore che però richiede uno sforzo.
Conosco molte persone che si impegnano giorno dopo giorno in una vita che apparentemente sembra infernale, costellata di difficoltà e fatiche, priva di piacere. In realtà, da ciò che si può osservare con meno superficialità, quel modo di vivere è migliore nonostante le fatiche e i fastidi perché, superato il primo impatto con la fatica, il bene che si ricava è di gran lunga superiore all’assenza della fatica e del fastidio.

Pipistrello

Share
Pagina 1 di 212