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Il cuore di Ettore

Quando suonò il campanello, l’anziana signora si tolse il plaid che aveva sulle gambe, posò il libriccino che stava leggendo e si alzò con leggera fatica per andare ad aprire la porta. Con voce squillante, la ragazza che stava sul pianerottolo salutò la donna: «Ciao nonna! Come stai oggi?». La giovane entrò dirompente come una folata di vento quasi saltellando. «Come sempre» rispose l’anziana facendo spallucce, poco prima di richiudere la porta. «Ma nonna! Non puoi stare nella penombra anche oggi che fuori c’è una bellissima giornata.. – e, gettando lo sguardo all’angolo del salone, la giovane proseguì – Vedi? Anche Ettore è tutto triste». Ettore era il pappagallino della signora: le era stato regalato dalla nipote per tenerle compagnia ma non si era rivelato un grande intrattenimento per i pochi striduli che ogni tanto emetteva. «Visto che ora ci sono io a tenerti compagnia, Ettore si fa una vacanza sul terrazzo e prende un po’ di sole mentre qui apriamo un po’ di finestre per cambiare l’aria» disse la ragazza come per impartire un ordine a sé stessa. Prese il volatile con tutta la gabbietta e lo poggiò su una vecchia sedia che era sul terrazzo. L’anziana nonnina tollerava l’esuberanza della ragazza, anche perché ne apprezzava le cure e la compagnia, perciò quella volta le lasciò fare.

Passarono entrambe delle piacevoli ore fino al momento in cui la ragazza si avviò verso casa. Quella sera, mentre la giovane stava cenando, il telefono squillò. «Chi sarà mai a quest’ora – disse stupita la giovane mentre si avvicinava all’apparecchio – Pronto?». «Ciao tesoro, sono la nonna» – rispose la voce dall’altra parte. A sentire il tono insolito della voce la ragazza si preoccupò «Cos’è successo, nonna?» – chiese allora. «Non credo sia grave – la rassicurò la donna – ma Ettore…». «Sta male? Che ha?» – chiedeva preoccupata la ragazza. «Nulla di particolare – proseguiva la signora – è… è solo “diverso”. Fischia, canta, fa rumore, saltella… Lo senti come canta? Non aveva mai fatto dei versi così belli»

Forse realmente quella povera bestiola non era più la stessa: quelle poche ore trascorse fuori, ascoltando il canto del merlo e dell’usignolo, vedendo il sole che rendeva brillante ogni cosa, assaporando lo spettacolo che aveva davanti, avevano impressionato il piccolo volatile. Pappagallo com’era non poté fare altro che cercare di replicare felicemente e come meglio poteva quella bellezza che aveva ascoltato e visto, della quale aveva già nostalgia.

Pappagallo nella gabbia

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Progresso regresso

Qualche giorno fa mi è capitato di leggere questo componimento di Carlo Alberto Salustri, detto Trilussa:

Er Gambero e l’Ostrica
Ormai che me so’ messo
su la via der Progresso,
disse er Gambero a l’Ostrica – nun vojo
restà vicino a te che sei rimasta
sempre attaccata su lo stesso scojo. -
L’Ostrica je rispose: – E nun t’abbasta?
Chi nun te dice ch’er progresso vero
sia quello de sta’ fermi? Quanta gente,
che combatteva coraggiosamente
pe’ vince le battaje der Pensiero,
se fece rimorchià da la prudenza
ar punto de partenza?… -
Er Gambero, cocciuto,
je disse chiaramente: – Nun m’incanti!
Io vado all’antra riva e te saluto. -
Ma, appena ch’ebbe fatto quarche metro
co’ tutta l’intenzione d’annà avanti,
capì che camminava a parteddietro.

Ci battiamo e ci adoperiamo per ottenere un progresso, un diritto, una rivoluzione sociale, ma quante volte ciò per cui ci battiamo è realmente un progresso? Accade purtroppo spesso che alcune cose reclamate e definite “progresso” siano, in realtà, concetti antichi che – magari – sono stati debellati dopo tanti sforzi. Eh sì, a volte le mode e i costumi ci prendono proprio in giro.

Trilussa

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Una questione di copyright

Decenni e decenni fa, un giovane scrittore avveniristico e con lo sguardo che andava lontano utilizzò il computer della sua università per salvare su nastro il suo miglior racconto. Non ne esisteva copia cartacea, lo scopo pionieristico dell’intera faccenda era proprio quella di un uso esclusivo delle nuove tecnologie per poterci scrivere su la tesi del proprio dottorato.
Terminati gli studi, il nostro scrittore andò a lavorare altrove e il racconto da lui scritto rimase negli archivi dell’università.

Dopo qualche anno la tecnologia era cambiata. Ora c’erano i floppy e i computers erano molto più piccoli quindi l’università decise di trasferire il suo archivio su un supporto più moderno. Anche il racconto del nostro scrittore fu convertito in un nuovo file e salvato su un floppy. Nel frattempo i nastri originali erano stati gettati via perché non facenti parte di quei pochi che furono inviati al museo della tecnologia.
Passati altri anni, un tesista che faceva ricerche salvò una copia del file nel formato di word e, letto un racconto così bello, decise di distribuirne copie tra i suoi amici.

Accadde poco tempo dopo che il racconto fosse pubblicato e che finisse tra le mani di un quarantenne che aveva scritto un racconto su nastro. «Caspita! Il mio racconto!» esclamò l’uomo. Purtroppo per lui non rimaneva molto di tangibile riguardo a quei tempi di giovinezza e nulla poté certificare la paternità e la data di stesura dell’opera.

Quali tracce archeologiche lascia la scrittura di un libro? Se digito un testo su file qualcuno può fare un “cut and paste” su un nuovo file e alterare la data o cambiare l’autore. Come faccio a sapere quando un testo è stato scritto? Posso solo fare un confronto con altri testi che ne parlano, cercare testimonianze più “volatili” e meno tangibili, fidarmi di altri autori dell’epoca. Per molti testi che conosciamo la versione più antica pervenuta è posteriore alla loro scrittura: ad esempio i testi di Platone, scritti tra il 100 e il 44 a.C. ma giunti a noi in una copia del 900 d.C. (1000 anni dopo); oppure l’Iliade di Omero, redatta nel 1100 a.C. ma pervenutaci in una copia del 400 a.C. (700 anni dopo).
Molte di queste opere sarebbero andate perdute se nessuno le avesse pazientemente ricopiate, ma il fatto che fra le mani abbiamo solo una copia non falsifica certo l’autore originale. Si tratta di applicare un po’ di buon senso e di comprendere che quando mancano le prove si dovrebbe ammettere di non sapere, piuttosto che imporre una propria teoria.

Floppy

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La vigna nel vaso

Nel giorno del mercato rionale Luisa faceva sempre scorte per tutta la settimana. Anche quella volta concluse il giro delle bancarelle dal fruttivendolo. «Buon giorno, signora! Guardi che bel grappolo che ho qui». Il fruttivendolo acchiappò un enorme grappolo d’uva per il massiccio tralcio sollevandolo fino all’altezza del volto; sembrava essere stato staccato a colpi d’accetta dalla vigna di un gigante. «Il prezzo mi sembra buono e, con la voracità che ha Alfonso – pensò rapidamente Luisa – farebbe proprio al caso mio». «Va bene, lo compro» Disse poco dopo.
Mentre confezionava l’enorme grappolo il fruttivendolo, ammiccante e sorridente, si lasciò scappare un commento: «Se pianta questo tralcio le nasce una vite». «Visto l’affare che gli ho procurato, oggi il fruttivendolo ha voglia di scherzare» – pensò Luisa.

Quella sera, mentre ne mangiavano gli acini, Luisa raccontò la storia di quel grappolo al marito, Alfonso: «Mi ha detto che se avessi piantato il legno sarebbe nata una vite. Per me è una cosa assurda, ma voglio provare.» Fuori, sul balcone, si affacciava da un vaso uno spoglio segmento di tralcio.
Per mesi la donna annaffiava il legnetto senza osservare alcun cambiamento. «Lo sapevo… – pensava – ora libero il vaso e ci metto qualche bel fiore». La mano aveva già afferrato il legnetto, l’estirpazione era imminente… ALT! L’occhio attento di Luisa aveva scorto un minuscolo germoglio. La donna ritrasse la mano stupita. Era vero!
Ci volle circa un annetto affinché la pianta fosse abbastanza robusta per produrre i suoi primi piccoli acini.

Il fruttivendolo, conoscendo una cosa bella e vera – sebbene non conforme al sentire comune – non si è trattenuto dal raccontarla. Ad un giudizio superficiale sembra che abbia detto una follia con il fine di ingannare la cliente, magari per aumentare, con una storiella intrigante, il valore della sua merce. Luisa non è però superficiale e non si ferma alla prima impressione: vuole verificare e viene perciò premiata con qualcosa che prima non aveva, lo stupore per un germoglio, dei frutti inattesi.
Ecco. L’atteggiamento di fronte alla testimonianza non è lo scetticismo totale a priori né la fiducia incondizionata: alla verità basta quel tanto di fiducia che serve a verificarla con l’esperienza. In fondo, c’è ben poco da perdere e tanto più da guadagnare.

GrappoloSembra incredibile ma questa è una storia VERA

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Obsolescenza e caducità

Diceva la quercia all’abete: «Ma come puoi ancora sostenere il verde quando oggi è normalissimo portare il giallo e il bruno? La tua posizione è vecchia, ravvediti». L’abete taceva. «Sciocco! Ormai quelli come te sono impopolari, vedrai come fra qualche anno non ci sarete più».

Passò qualche mese e la quercia riprese: «Ma guardati! Ancora con quella opprimente roba verde addosso… Non vedi quanto sono libera? I miei rami sono leggeri; i tuoi sono appesantiti da quella roba preistorica che porti addosso» «Non sai quel che dici, quercia – rispondeva l’abete – vedrai quanto le tue mode siano passeggere» «Hahaha – rideva la quercia – non sono mode, è la modernità»

Finalmente arrivò la primavera e tutti gli alberi del bosco cominciarono a produrre verdi germogli. L’abete disse allora alla quercia: «Hai visto? Ora sono tutti verdi come me e faresti bene a mettere su qualche foglia se non vuoi seccare» Ma per orgoglio la quercia non ascoltò. «Siete tutti omologati ma io mi distinguo dalla massa» pensò.
Quando, in estate, passò di lì il taglialegna quella quercia secca fu tagliata.

Si dice obsoleto un dispositivo o un vocabolo che sia stato soppiantato da qualcosa di più moderno e più efficiente. Non tutto diventa però obsoleto, anzi sono più le cose intramontabili che quelle soggette alle mode del tempo. Facciamo attenzione a non rifiutare un concetto o un’idea o un consiglio o un valore bollandolo come “obsoleto”, come qualcosa di anacronistico, non al passo coi tempi. La nostra umanità non è qualcosa da deformare a piacimento, secondo i capricci della società e dei costumi, ma ha un nucleo “sempreverde”, un cuore che, riconoscendo i valori intramontabili e la bellezza, funge da “bussola” della coscienza.

Sempreverde

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Accadde proprio lì

Maria era stracotta di un suo compagno di classe, Antonio. Si sorprendeva spesso ad osservarlo intensamente; lo sguardo fisso su di lui; il tempo come rallentato mille volte cosicché ogni istante sembrava avere la durata di intere ore. Era successo poche volte che anche lui si voltasse verso di lei e, anche se si trovava all’altro capo della stanza, quell’incrociarsi di sguardi, pupilla contro pupilla, generava in Maria effetti di potenza paragonabili ad un uragano.
I due si scambiavano anche qualche parola ma la ragazza non aveva mai confessato i suoi sentimenti. Non pensava di essere considerata da Antonio qualcosa di più che una buona amica ma, in fondo al cuore, aveva come la sensazione che i suoi sentimenti fossero ricambiati.

Per il suo compleanno Maria aveva organizzato una piccola festicciola a casa sua. Aveva invitato diversi amici e, certamente, non si era lasciata sfuggire l’occasione di invitare anche Antonio. Ad un certo punto della festa, si era deciso di divertirsi tutti con un gioco da tavolo. Si rideva, si scherzava ma, mentre si giocava, Antonio si accorse che Maria non c’era. Alzatosi la andò a cercare.
Si incrociarono, anzi scontrarono, in un angolo tranquillo della casa. In quell’angolino anonimo, mentre si sentivano le risate dei loro amici provenire dall’altra stanza, avvenne la cosa più inaspettata e straordinaria che Maria potesse immaginare.

Anche a distanza di diversi giorni, a Maria bastava uno sguardo verso quell’angolo della casa per rievocare quell’istante meraviglioso. Decise allora di proteggere quel luogo dal tempo: sarebbe rimasto per sempre così, esattamente come quel giorno.
Non fu facile: dovette imporsi sui genitori e arrivare, qualche volta, al litigio; ne aveva straordinaria cura. Con il passare degli anni fece di tutto per restare in quella casa quando i genitori si trasferirono altrove. Anche quando era una mamma, non permetteva ai figli di giocherellare in quella zona e, quando furono abbastanza grandi, spiegò loro anche perché.
Ora, accompagnata dagli acciacchi dell’età, teneva per mano la nipotina e si preparava a raccontare ancora una volta la storia di quel luogo: «È proprio qui che il nonno ed io ci scambiammo il nostro primo bacio. È rimasto esattamente come quel giorno». Gli occhi della ragazzina erano pieni di stupore per quel luogo sopravvissuto per quasi un secolo ai cambiamenti che avevano subìto la casa e i suoi abitanti.

Quando in un dato luogo avviene qualcosa di veramente grande, una sorta di “big bang” della nostra storia, si tenta in tutti i modi di conservarlo, di preservarlo. Quel luogo, che prima era anonimo e uguale a tanti altri, non è più lo stesso: si carica di memoria e ne diventa segno tangibile, testimone di un avvenimento.

Soglia

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Delitto impossibile

Anche quella volta l’investigatore Ferguson si era fatto accompagnare da Herbert White – il famoso giallista che collaborava con la polizia nel ruolo di consulente – sul luogo del delitto. Si trattava di un appartamento in una palazzina con un unico ingresso custodito da un addetto alla portineria.

«Ferguson, polizia». Alla vista del distintivo il portiere alzò un sopracciglio e disse: «Da questa parte». Ferguson e White lo seguirono fin sul pianerottolo del terzo piano dove notarono già alcune orme di sangue, che per dimensione e andatura erano state probabilmente lasciate da un uomo di media statura. Il portiere aprì la porta. All’interno dell’appartamento erano presenti alcuni segni di colluttazione; una pozza di sangue e alcune orme.
Il corpo era stato portato via.
«Lei è stato tutto il tempo in portineria?» Si rivolse Ferguson al portiere. «Sissignore» rispose.
«E ha notato entrare o uscire qualcuno dall’ultima volta che ha visto la vittima?» – «Nossignore»
«Potrebbe non essersene accorto» osservò White. – «Nossignore. Se fosse passato qualcuno me ne sarei accorto. Da quando la signora Flint è rientrata nessun altro è passato dall’ingresso fino all’arrivo della signora delle pulizie»

Dopo l’arrivo della scientifica Ferguson e White andarono ad interrogare i negozianti che avevano una buona visuale sull’ingresso dell’edificio. La maggior parte erano stati troppo occupati per notare qualcosa ma due di loro, non avendo molta clientela quel giorno, sostennero di non aver visto nessuno né entrare, né uscire.
Ai successivi controlli tutti i condomini risultarono avere alibi di ferro, essendo successo il fatto in un giorno lavorativo.

Ferguson non ne veniva a capo: «Quel corpo non può essersi volatilizzato… Forse la signora Flint si è ferita accidentalmente ed in uno stato confusionale si è gettata dalla finestra». «Non ha senso: non è stato trovato nulla nei dintorni dell’edificio… E poi come le spieghi quelle orme?» ribattè White.
«Beh forse la signora Flint, sotto l’effetto di qualche sostanza, aveva assunto comportamenti anomali e, indossando scarpe da uomo, si è ferita lanciandosi poi dalla finestra e cadendo su qualche mezzo pesante… Un camion, per esempio»
«Questa è una delle ricostruzioni più fantasiose e improbabili che tu abbia mai fatto. Nel dubbio controllerei la circolazione di mezzi pesanti nei dintorni ma sono certo che l’omicida è entrato nello stabile»
«Lo hai visto anche tu che non è entrato nessuno. La mia ipotesi è più probabile della tua»
«Il caso è abbastanza improbabile da richiedere una spiegazione improbabile allora»

Per sfatare ogni dubbio decisero allora di ritornare sul luogo del delitto alla ricerca di tracce di sangue sulle finestre. Pochi istanti prima che varcassero la soglia dello stabile entrò il postino che, ignaro di quanto fosse accaduto, salutò il portiere e si diresse verso le cassette della posta. White osservò attentamente la reazione del portiere: sembrava perplesso, come se avesse avuto un deja vu. «Cosa c’è?» chiese White al portiere. «Niente, Signore. Solo che mi sembrava che oggi il postino fosse già passato».
«Cioè lei vuole dirmi che ha visto entrare il postino e ci ha detto che non era entrato nessuno?»
«Ma il postino non è “qualcuno”. È semplicemente il postino. Che può aver mai fatto a parte consegnare le lettere?»
«Glielo dico io cos’ha fatto: l’omicida, travestito da postino, ha poi portato fuori il cadavere dentro il sacco della posta»

Spesso non ci rendiamo conto dell’importanza di certe cose perché le riteniamo banali e scontate. Entrano talmente nella quotidianità che diventano come invisibili. Altrettanto spesso, quando non siamo in grado di comprendere qualcosa siamo anche disposti ad ignorare le orme lasciate al suolo e le contraddizioni delle spiegazioni “razionali” che formuliamo pur di non escludere una possibilità a noi scomoda. La realtà dev’essere l’ultima parola sulle nostre idee: non permettiamo mai alle ideologie di ingannarci con affascinanti risposte razionali ma inverosimili.

Ispirato e adattato da “L’uomo invisibile” di G.K. Chesterton

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La tarantola della baita

Un gruppo di giovani ragazzi e ragazze approfittarono delle vacanze estive per andare a trascorrere il fine settimana in una baita di montagna. Il panorama montano era splendido, il clima molto gradevole. Le due auto si fermarono accanto a quella del custode, che li stava già aspettando.
«Buongiorno!» «Buongiorno a voi – salutò il custode – vi dò alcune istruzioni e poi vi lascio».
Tra le varie istruzioni su come gestire l’acqua o su dove recuperare la legna ve ne fu una particolare: «Fate attenzione quando vi muovete perché prima che arrivaste ho visto una tarantola sgattaiolare fra le stanze – spiegò il custode – accendete la luce prima di entrare in una stanza; controllate i cassetti prima di metterci le mani; fate rumore quando vi muovete e la tarantola non vi farà alcun male. Sarebbe un gran peccato se vi mordesse.»

Il custode entrò nella sua auto e lasciò i giovani a godersi la baita. Iniziarono subito a portare le loro cose dalle auto fin nelle loro stanze. Per diverse ore non vi fu traccia di alcuna tarantola perciò alcuni cominciarono a dubitare delle istruzioni del custode. Qualcuno diceva: «Non sono sicuro che ci sia una tarantola. Potrebbe essere scappata via, ma nel dubbio è meglio comportarsi come ha detto il custode». Altri però furono meno ragionevoli: «Se non c’è alcuna tarantola perché devo affannarmi a controllare i cassetti e ad accendere le luci?». Il più giovane della compagnia, innervosito dalle posizioni dei suoi amici allora sostenne: «Sono persuaso, convinto e sicuro al cento per cento che non esiste alcuna tarantola in questa casa. Voi, sciocchi, potete continuare nelle vostre buffonate ma io mi comporterò liberamente».

Così fu. Ciascuno si comportò secondo le proprie convinzioni; chi credeva al custode; chi credeva nella propria deduzione che non vi fosse alcun pericolo.
Dal presumere l’assenza di tarantole nella baita e non essere quindi cauti nei propri spostamenti, il passo fu breve nel fare tutto l’opposto di ciò che il custode aveva raccomandato. Il giorno dopo, il più giovane della compagnia era andato a prendere un ciocco di legno da mettere sul fuoco. Invece di battere sulla catasta per far fuggire la tarantola, afferrò direttamente un ciocco e rientrò in casa. I suoi amici non furono abbastanza rapidi nell’avvertirlo di quella cosa nera che camminava sul ciocco… E zac! Un bel morso velenoso.

Quanto possiamo essere sprovveduti a volte! Troviamo difficile assumere una certa condotta prudente e giusta perciò cerchiamo in tutti i modi di squalificarne l’origine. Con deduzioni paraboliche diamo il valore di certezza a delle conclusioni che possono rivelarsi errate e riteniamo sciocco chi non le condivide. Ma la nostra posizione riguardo a queste nostre deduzioni è più fideista di quanto pensiamo.

Baita

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Il curatore

Si erano fatti strada nella giungla selvaggia per giorni e giorni, marciando con difficoltà, combattendo gli insetti mentre l’aria umida faceva ristagnare il sudore. Il quindicesimo giorno, i due esploratori trovarono una radura. La giungla si fermava di netto, lasciando il posto ad uno spettacolo di colori floreali.

«È stupendo – disse il primo – qualcuno deve sicuramente curare questo terreno». L’altro non era d’accordo: «Mah, potrebbe essere tutto spontaneo». «Aspettiamo e vediamo» rispose il primo. Così montarono le loro tende e si misero ad aspettare, ma dopo un paio d’ore ancora non si vedeva nessuno. Il terreno era veramente vasto: il misterioso curatore poteva essere stato in altre zone non a vista ed essere quindi passato inosservato.
Poiché sarebbe stato faticoso montare la guardia nella notte ad aspettare qualcuno che non sarebbe mai arrivato, il secondo esploratore disse sprezzante: «Tagliamo la testa al toro. Ora ci penso io!». Stufo di aspettare prese il filo spinato ed eresse una recinzione, che elettrificò. «Se viene qualcuno – disse soddisfatto – non ci sfuggirà».
Nessun grido di dolore fu udito durante la notte e il mattino dopo nessun corpo fu notato durante l’accurata ronda.

Mentre i due abbandonavano il terreno in cerca di qualcosa di più eccitante, lassù, in cima alla rupe, vestito di foglie intrecciate, li osservava seduto un anziano e calmo signore. «Che maleducati – pensò – Sono entrati nel mio giardino nel giorno di riposo e, non contenti, mi hanno pure messo filo spinato ovunque… – Un lungo sospiro non interruppe il pensiero – Ma perché, invece di venirmi a cercare, mi hanno tenuto alla larga dal mio stesso giardino? Cosa volevano? Che morissi per loro su quel fino spinato?».
I due figuri dovevano essere senza dubbio dei malintenzionati. Quando fu certo di essere di nuovo solo, il vecchio si alzò con il suo bastone in mano e incamminandosi concluse il suo pensiero: «Boh… Forse avrei dovuto farlo…».
Quante volte siamo stati avventati e impazienti? Quante volte non abbiamo saputo cercare e, non trovando, abbiamo smesso?  Che si tratti di metodo o di pazienza o di apertura mentale, se non riusciamo a vedere qualcosa è molto probabile che il motivo siamo noi stessi.

Giardino

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Cosmo orfano

Finalmente l’era spaziale, la vera era spaziale per la Terra era iniziata. Da quando, all’inizio del secolo, i fratelli Guiltmore avevano costruito il primo prototipo di astronave superluce, ogni nazione aveva fatto di tutto per dotarsi di questi mezzi. Un intero cosmo era sopra tutti loro in attesa di essere scoperto, esplorato, colonizzato.
Molti ragazzi avevano intrapreso la carriera scientifica con il sogno di poter mettere piede su quelle 345 astronavi presenti nel mondo. John Clever era uno di questi. Sarebbe diventato un buon sergente di macchine una volta imbarcato. Conosceva alla perfezione ogni passaggio del funzionamento dei motori e dei reattori dei nuovi modelli di astronavi. Era solo una questione di tempo e, terminati gli studi, si sarebbe imbarcato.

Il cinque ottobre di quello stesso anno l’astronave russa знаний aveva iniziato le procedure di discesa in atmosfera verso l’astroporto di Sanpietroburgo. Era in anticipo di due ore perché il capitano era talmente eccitato per la scoperta di un pianeta extrasolare abitabile da voler precipitarsi subito a casa a comunicare personalmente la notizia. Una fitta nebbia circondava l’astroporto, nel quale si preparava il decollo della разведка.
«Tutto operativo, signore»
«Bene… Tenente, com’è finita con il disturbo statico?»
«Ancora niente, signore. Rileviamo il radiofaro dell’astroporto ma le comunicazioni sono disturbate»
Pochi minuti dopo l’addetto alle comunicazioni prese la parola: «Signore… Comunicazione in arrivo»
«In viva voce»
“…. traiettoria….pista…at…libera”
Dopo qualche secondo il capitano concluse: «Via libera. Incanalarsi lungo la traiettoria di atterraggio». L’astronave entrò in quella strana nebbia scomparendo dai radar disturbati della torre di controllo. L’operatore capo della torre, osservati i radar, allora ordinò: «Comunicate il via libera alla разведка»
«Fra poco dovremmo vedere l’astroporto» bisbigliava un tenente della знаний al suo collega seduto lì vicino, mentre tutta la plancia guardava lo schermo principale. Tutti gli occhi erano fissi su quello schermo. Da un momento all’altro avrebbero rivisto il suolo.
Improvvisamente sullo schermo apparve la разведка che andava dritta verso di loro.
«Porco diavolo!» esclamò il capitano e fu l’ultima cosa che disse. A nulla servirono le manovre di emergenza: le due navi si scontrarono e, per l’impatto, entrambi i reattori principali delle due navi detonarono sprigionando tutta la loro energia. Fu distrutta qualsiasi cosa in un raggio di ottanta chilometri. L’intera città di Sanpietroburgo cancellata dalle cartine. Milioni di morti all’istante. L’asse della Terra si spostò di tre centimetri e la contaminazione si estese fino in Francia, in India e nel Canada.

Un anno dopo la tragedia iniziò lo smantellamento delle 343 astronavi rimanenti.
Una sera John era salito a riflettere sulla collina. In lontananza vedeva le carcasse di quei bastimenti dello spazio circondate dalle luci delle fiamme ossidriche. Sembravano immense carcasse di calabroni lentamente smembrati dalle formiche.
John alzò lo sguardo e sospirò guardando la volta celeste. Proprio in quel momento una stella cadente tagliò in due la sua visuale. Quel cosmo orfano di esploratori versava una lacrima per il piccolo pianeta che si era chiuso in sé stesso. Un mondo che aveva scelto di concludere la sua agonia entro i suoi limitati confini.

Stella cadente

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