L’assistente

L’altro ieri mi trovo all’aeroporto della mia città per l’ennesima trasferta di lavoro. Passati i controlli di sicurezza, mi metto a sedere vicino al mio gate in attesa dell’apertura.
Da una porta alla mia destra vedo uscire un addetto dell’aeroporto che spinge la sedia a rotelle di un anziano signore. Mentre mi passano davanti sento l’addetto parlare con il suo assistito:

«Qu…Qu…Quan…nn…ndo è pro…pro…prooon…nn…to m…mi chi…chi…chiam…mm….ma»

Il poveretto aveva una fortissima balbuzie e sforzava il suo viso con mille smorfie prima di riuscire a comunicare. Nel frattempo spingeva la carrozzella scomparendo fra la folla della grande sala di imbarco.

È stato proprio mentre osservavo questa scena che ho riscoperto un concetto importante. Certe volte ci viene difficile aiutare qualcuno perché ne abbiamo scarsa empatia, non riusciamo a comprendere la sua condizione, non conosciamo le difficoltà che deve affrontare. Quando però siamo noi ad avere – momentaneamente o permanentemente – qualche problema, in un modo o nell’altro, ci rendiamo conto del nostro vero valore e ci ridimensioniamo, scoprendo chi sta peggio di noi. A volte serve una bella spinta per scendere da quel piedistallo che ci fa sentire tanto alti da non dover fare caso a chi sta sotto.

Sedia a rotelle

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Biciclette e paure

Fin dai tempi più antichi che la mia memoria può ricordare, ho sempre avuto una bicicletta. Da bambino i miei genitori mi portavano nella casa di campagna o ai giardini pubblici, dove avevo a disposizione chilometri di strade, stradine e sentieri da percorrere a mio piacimento. Andare in bici è sempre stato bello e lo è diventato sempre più man mano che crescevo.

Il giorno in cui io e mio padre togliemmo le rotelle supplementari non era stato scelto a caso: mio papà aveva montato quelle rotelle in maniera tale che si sollevassero da terra quando riuscivo a stare inconsapevolmente in equilibrio. A rotelle rimosse, lui teneva la bici da dietro mentre io pedalavo e mi rendeva  consapevole del mio equilibrio battendo le mani. Ogni battito era un punto di coraggio e di orgoglio in più. Fu così che non ebbi più bisogno di rotelle e fu così che affrontai le prime ferite.

Andare in bici, soprattutto nei primi tempi, quando l’equilibrio è instabile, ci espone al rischio di cadere. Ricordo una volta in cui, per una distrazione, finì con il fianco sulle aguzze pietre che delimitavano un’aiuola: m’ero fatto così tanto male, che l’anziana signora che gestiva il vicino chiosco, mi corse in contro con del ghiaccio. Ricordo anche cadute più gravi, delle quali porto e porterò per sempre le cicatrici.
Nonostante tutte queste cadute e tutte queste ferite io ho continuato ad andare in bici perché so che una cosa del genere è pericolosa finché non se ne ha la giusta padronanza. Gli errori servono ad imparare, per capire come evitarli senza vietarsi nulla. Oggi cado con molta difficoltà perché ho imparato a fronteggiare le emergenze e sono preparato più o meno a tutto. Non sarei così se avessi detto “Mai più bici” alla prima ferita, al primo incidente grave. C’è gente  che lascia perdere una cosa possibilmente vantaggiosa o bella perché sono accaduti episodi spiacevoli. Insensate rinunce dettate dalla paura.

Bicicletta

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Esperienze coi pattini

Qualche giorno fa la mia ragazza mi raccontava che nella sua infanzia aveva coltivato, per un certo periodo di tempo, il desiderio di imparare ad usare i pattini in linea (rollerblade). Niente si impara istantaneamente, perciò i primi tempi il rischio di cadere a terra e farsi male era più che probabile. Quando cadeva a terra – racconta – si rialzava e continuava a pattinare per diversi minuti, nonostante la cocente delusione di aver sbagliato, nonostante il sentirsi incapaci di imparare una cosa così semplice e di dimostrarlo cadendo a terra, nonostante il dolore che l’impatto con il suolo aveva provocato. Si metteva le protezioni, certo, ma una volta spaccò una ginocchiera in due parti cadendo. Per non parlare dei bambini che la prendevano in giro per via delle protezioni che metteva. “Robocop” la chiamavano. Ma lei continuava a pattinare lo stesso, a rialzarsi quando cadeva e a resistere agli insulti dei bambini. Perché?
Perché una brutta esperienza, mal gestita, diventa un trauma e il trauma rende impossibile continuare un’attività e godersela, esattamente come un’ideologia impedisce di vedere la realtà e viverla appieno. Si rialzava e continuava a pattinare perché aveva bene in mente quanto fosse bello pattinare e, per quella bellezza, sarebbe stata disposta a cadere e cadere ancora cento volte se fosse stato necessario. Cadere e ricevere prese in giro era “incluso nel pacchetto” ma questa inclusione non ne riduceva la bellezza.

Quand’è che lasciamo diventare traumi le esperienze negative? Quando non vediamo con occhi sinceri che la sorgente di quella esperienza nasconde una bellezza che vale molto di più di qualche sbucciatura. La superficialità di giudicare soltanto in base ai pochi aspetti che non ci piacciono, in base ai nostri fallimenti, ci conduce poi a denigrare quella bellezza che non vediamo e a sminuire chi riesce a vederla, come fa la volpe della favola:

Una volpe affamata vide dei grappoli d’uva che pendevano da un pergolato, e tentò di afferrarli. Ma non ci riuscì. “Robaccia acerba!” disse allora tra sé e sé; e se ne andò. Così, anche fra gli uomini, c’è chi, non riuscendo per incapacità a raggiungere il suo intento, ne dà la colpa alle circostanze.

Esopo, XXXII; Fedro, IV, 3.

Pattini in linea

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