Lo scoglio addobbato

Chi usa immergersi con la maschera, nuotando fra gli scogli, sa che talvolta si può incontrare qualche roccia “addobbata” come fosse un albero di natale. Non è la mania di qualche burlone filo-natalizio né uno scherzo della natura: si tratta di esche finte.
I pescatori lanciano le loro esche colorate – e costosissime – fra gli scogli perché hanno maggiore probabilità di pescare qualche pesce ricercato. Il rovescio della medaglia è che capita sovente di incastrare l’amo nelle irregolarità di qualche roccia del fondale; magari lo stesso sasso dove tutti i pescatori che frequentano quel luogo commettono lo stesso errore. Quando capita, al pescatore non resta che tagliare il filo e procurarsi un’altra esca.

Pur non avendo mai pescato neanche una sardina in tutta la mia vita, ho una collezione di ami, esche e pezzetti di filo – tra gli scogli c’era anche un piccolo pesciolino di gomma, chissà quanto sarà costato all’incauto pescatore…
Il pescatore che ha esperienza sa dove lanciare l’esca e come tirare il mulinello per evitare di perderla su qualche scoglio. Se tiene alla sua esca è disposto a tuffarsi per recuperarla. L’esperienza ed il senso del valore non crescono però sugli alberi.

Forse quello scoglio “addobbato” è proprio lì per insegnare qualcosa: c’è chi dell’errore fa tesoro, ascolta la voce di chi ha più esperienza ed impara il valore di ciò che rischia; c’è però chi vuole vivere sereno, abbassa mentalmente e di proposito il valore dell’esca cosicché, anche lasciandola sistematicamente sullo scoglio, possa raccontarsi di non aver perso nulla di valore. Purtroppo i valori della vita sono ben più preziosi di qualche costosa esca e non dovrebbero essere barattati per una vita apparentemente senza pensieri.

Esca finta

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Maniaco dell’ordine

Un tipo un po’ cervellotico stava con lo sguardo perso verso le quattro pareti della sua stanza. C’era tanto disordine e lui aveva appena preso le vacanze perciò, visto che aveva tempo da vendere, cominciò ad ordinare.

All’inizio spostò soltanto gli oggetti liberando la superficie coperta della scrivania. Si guardò intorno e pensò che non era sufficiente. Allora cominciò a riporre gli oggetti nei cassetti e sugli scaffali. Si guardò ancora intorno e si accorse che il disordine permaneva sopra gli scaffali e dentro i cassetti e dentro l’armadio. Si mise all’opera: svuotava i cassetti e rimetteva dentro le cose in modo che fossero allineate, parallele, organizzate, razionalizzate. Finiva un cassetto e andava ad uno scaffale per poi tornare ai cassetti o concentrarsi sull’armadio.

Dopo molto lavoro finalmente tutto era quasi perfetto ma, prima che potesse iniziare un altro ciclo, un amico lo chiamò al telefono: «Hey, ti ricordi cosa c’era scritto in quella cartolina che mi hai mostrato?» «Controllo subito». Il tipo tornò nella stanza e cominciò a cercare creando un moderato disordine, andò a comunicare l’informazione all’amico e ritornò indietro, nella sua stanza. Ancora disordine! Ed eccolo di nuovo  a sfacchinarsi nell’ordinare, sistemare, razionalizzare tutto, perfino l’orientamento degli oggetti e la faccia giusta che i fogli dovevano rivolgere verso l’alto. Ogni volta però capitava qualcosa – un libro da leggere, un oggetto da utilizzare, un’informazione da cercare – che produceva altro disordine. Un ciclo senza fine aveva intrappolato il nostro amico.

Ci sono cose che non si possono eliminare: si può combattere lo sporco ma non lo si può annientare; si può fare ordine ma non si può annullare il disordine una volta per tutte. Il moralista non soltanto combatte il male ma lo vuole annientare e rischia così di diventare prigioniero del suo proposito. Un buon proposito – ci mancherebbe – ma estremizzato al punto che si dimentica dell’umanità delle persone, del fatto che in loro l’errore è sempre dietro l’angolo, il male sempre una scelta possibile anche se si cerca di respingerla. Ciò che conta non è una perfezione impossibile e utopistica ma sapere distinguere il bene dal male, riprendendo la strada del primo quando capita di smarrirsi nel secondo.

Disordine

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Chauvenet e dintorni

Non esistono quantità che possiamo misurare con precisione infinita: i nostri strumenti sono limitati e questo limite si trasmette ai risultati delle nostre misure. Questa precisione non si limita soltanto a definire il numero di cifre significative che il nostro numero, rappresentante la grandezza misurata, può avere dopo la virgola decimale; rappresenta ben di più. Il dato con cui dichiariamo l’imprecisione della nostra misura viene detto “errore” o “indeterminazione” ed ha un significato ben preciso ed importante.

Per semplificare, se misuro la lunghezza di un tavolo con un metro da sarta – che ha una divisione della scala ogni cinque millimetri – potrò dire che esso è lungo 150 centimetri e che la mia indeterminazione è di mezzo centimetro. Questo vuol dire che io non so se il tavolo è lungo 150.5 o 149.5 centimetri o una qualsiasi delle lunghezze che si trovano comprese tra questi due numeri.
Questa indeterminazione non è soltanto un valore “a corredo” della misura – ovvero un numero che dice soltanto quanto essa sia buona – perché può influenzare le nostre conclusioni. Se infatti una fabbrica di tavoli mi incaricasse di controllare che i suoi prodotti siano tutti conformi fra loro potrei dire che un tavolo lungo 150.5 centimetri ed uno lungo 149.5 centimetri sono della stessa lunghezza entro la mia indeterminazione di 0.5 centimetri. Nessuno infatti mi proibisce di dire che il valore “vero” – a noi sconosciuto – della lunghezza del tavolo sia per entrambi 150.0 centimetri.
Dichiarare l’errore della nostra misura e tenerne conto nelle nostre conclusioni è un atto di onestà e di umiltà.

Ci sono dei metodi matematici che sono qualche volta utilizzati per affinare i dati ma che si rivelano delle affilatissime armi a doppio taglio. Il criterio di Chauvenet, per esempio, è un test statistico che ci consente addirittura di rigettare dei dati misurati. Se usato bene, permette di localizzare un errore di battitura, per esempio. Se viene usato però su dati “buoni” può diventare un metodo di fare andare l’esperimento “come vorremmo che andasse” e non “come va realmente”. Può darci cioè il potere di imporre la nostra visione sulla realtà, con tutte le conseguenze che ciò comporta – comprese conclusioni forzate o addirittura fasulle.
Pensiamo per un attimo all’esperimento di Rutherford e a cosa sarebbe successo se avesse applicato Chauvenet a quei pochissimi anomali dati che rivelavano particelle deflesse in una direzione inaspettata: penseremmo ancora che l’atomo sia un panettone che ha per canditi protoni ed elettroni.

La statistica è una scienza che ha fornito decine di test per manipolare i dati; tutti armi a doppio taglio come il test di Chauvenet. Purtroppo esistono scienziati disonesti e davvero poco umili di fronte alla realtà che forzano i loro esperimenti alle loro teorie facendo uso massiccio di questi test. È così che appare magicamente un picco nelle fluttuazioni del rumore di fondo oppure che una misura poco significativa diventa invece la dimostrazione di una teoria. Non è molto diverso da chi sente messaggi in codice sussurrati nelle canzoni dei Beatles.
Le conseguenze di questo “dogmatismo” scientifico (deve andare così perciò dev’essere così) sono terribili: va a finire che tutti ritengano vero qualcosa che ancora non è verificato. Una misura ben fatta è una misura già così palese che non ha bisogno di test statistici per aumentare la sua validità. Facciamo attenzione: non tutto ciò che è scientifico può esser preso per oro colato.

 

Imbrogliare coi numeri

Robin Williams cambia un 3 in 8 nel film Mrs. Doubtfire

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La ragazzata

Era una noiosa serata invernale giù all’acciaieria. Il turno di Peter finiva alle 20 ma le sue mansioni erano così alienanti che avrebbe preferito andarsene via subito. Sembrava essere solo: la mattina non c’era un solo metro quadro della struttura che non fosse occupato da qualcuno; a partire dalle tre del pomeriggio il numero delle persone diminuiva e alle 19 non si vedeva quasi più nessuno.

In questo clima desolato il cervello di Peter aveva cominciato ad oscillare tra pensieri sempre più assurdi. “Chissà quanto ci mette l’acido per la pulizia del metallo a bucare un bicchiere di plastica…” pensò. Pochi minuti dopo aveva messo un dito di acido dentro un bicchiere di plastica.

Non sembrava succedere granché e il turno stava ormai per finire. Lasciare quell’acido nella propria stanza per tutta la notte l’avrebbe riempita di esalazioni perciò Peter posò quel bicchiere appena fuori dalla stanza e andò a fare il solito giro prima di tornare a casa.
L’acido bucò il bicchiere e colò verso il basso dove si trovava un estintore. Inutile dire che il fluido corrose il recipiente sotto pressione facendolo esplodere. Il boato attirò tutti i presenti.

«Peter! Peter! – chiamò una collega – È esploso l’estintore che sta vicino alla tua stanza». “Oh cavolo, il bicchiere!” pensò Peter. Quando giunse sul luogo, i colleghi discutevano sul far revisionare gli estintori. Alcuni colleghi avevano già cominciato a smontare gli estintori per evitare altre esplosioni. Evidentemente l’ipotesi dei colleghi era quella di un cedimento accidentale.
Poi però qualcuno vide quel bicchiere e capì cos’era avvenuto. “Ecco, sono impanato e fritto” pensò Peter. Il clima si fece un po’ più acceso. «Dobbiamo segnalarlo al capo»…«E cosa può fare se non sa chi è stato?»…«Almeno farà un richiamo pubblico». Uno dei colleghi di Peter, quello che aveva scoperto il bicchiere, gli si avvicinò guardandolo. “Sono finito, mi licenzieranno… – pensò Peter – Che cosa stupida che ho fatto!” Neanche il tempo di concludere questo pensiero e il collega disse: «Il burlone che ha fatto questa ragazzata doveva proprio volerti male per farlo davanti al tuo studio». “Già… Non ho peggior nemico di me stesso” pensò Peter.
Il giorno dopo, il caso era già chiuso. Peter, dal canto suo, aveva uno sguardo diverso verso le persone: sapere che anche noi siamo capaci del peggio, ci può fare guardare alle debolezze degli altri con maggiore serenità.

Puffo burlone

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Biciclette e paure

Fin dai tempi più antichi che la mia memoria può ricordare, ho sempre avuto una bicicletta. Da bambino i miei genitori mi portavano nella casa di campagna o ai giardini pubblici, dove avevo a disposizione chilometri di strade, stradine e sentieri da percorrere a mio piacimento. Andare in bici è sempre stato bello e lo è diventato sempre più man mano che crescevo.

Il giorno in cui io e mio padre togliemmo le rotelle supplementari non era stato scelto a caso: mio papà aveva montato quelle rotelle in maniera tale che si sollevassero da terra quando riuscivo a stare inconsapevolmente in equilibrio. A rotelle rimosse, lui teneva la bici da dietro mentre io pedalavo e mi rendeva  consapevole del mio equilibrio battendo le mani. Ogni battito era un punto di coraggio e di orgoglio in più. Fu così che non ebbi più bisogno di rotelle e fu così che affrontai le prime ferite.

Andare in bici, soprattutto nei primi tempi, quando l’equilibrio è instabile, ci espone al rischio di cadere. Ricordo una volta in cui, per una distrazione, finì con il fianco sulle aguzze pietre che delimitavano un’aiuola: m’ero fatto così tanto male, che l’anziana signora che gestiva il vicino chiosco, mi corse in contro con del ghiaccio. Ricordo anche cadute più gravi, delle quali porto e porterò per sempre le cicatrici.
Nonostante tutte queste cadute e tutte queste ferite io ho continuato ad andare in bici perché so che una cosa del genere è pericolosa finché non se ne ha la giusta padronanza. Gli errori servono ad imparare, per capire come evitarli senza vietarsi nulla. Oggi cado con molta difficoltà perché ho imparato a fronteggiare le emergenze e sono preparato più o meno a tutto. Non sarei così se avessi detto “Mai più bici” alla prima ferita, al primo incidente grave. C’è gente  che lascia perdere una cosa possibilmente vantaggiosa o bella perché sono accaduti episodi spiacevoli. Insensate rinunce dettate dalla paura.

Bicicletta

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L’eccentrico imprenditore

Quando l’auto aveva nuovamente girato l’angolo Sabrina era ancora lì, a sorridere con le labbra ma non con gli occhi a quelle vetture che transitavano per la strada a passo d’uomo. Alcune si fermavano un po’ più avanti, alcune un po’ prima e caricavano le altre ragazze che, come Sabrina aspettavano.
L’eccentrico guidatore era già passato di lì per altri motivi ma, passando veloce, non aveva potuto fare a meno di notare il viso di Sabrina fra gli altri. Perciò aveva fatto il giro dell’isolato tornando indietro e mescolandosi agli altri automobilisti.

Lei si accomodò nei sedili posteriori e l’auto ripartì. Aveva notato lo sguardo strano del guidatore attraverso lo specchio retrovisore: sembrava guardare indietro, a quel luogo, come un profugo che avesse appena attraversato il confine del suo paese in guerra.
Di sguardi strani ne aveva visti abbastanza nonostante la sua carriera fosse iniziata da relativamente poco rispetto ad altre. Continuò a masticare la sua gomma e, quando furono abbastanza lontani, iniziò il solito “spettacolo” che faceva per tenere in caldo l’automobilista fino al luogo dove si sarebbero fermati. Aveva appena iniziato a sciogliere dei lacci quando notò che lo sguardo attraverso lo specchietto retrovisore non era “normale”. Stavolta non guardava indietro, guardava lei ma mancava quella brama che aveva visto luccicare altre volte. La cosa interruppe le sue operazioni.
«Dev’essere un pivello alla sua prima volta» – pensò Sabrina. Allora chiese: «Che c’è? Non hai mai visto una ragazza in vita tua?».
L’eccentrico uomo sospirò e disse: «È un vero peccato…» – guardò la strada, poi riprese – «Non meriti questo, sei fatta per cose più grandi». «Hai dei problemi?» – rispose Sabrina con il leggero timore di essere entrata nell’auto di un assassino o di un folle. «Cosa diresti se un grande compositore come Mozart non avesse fatto altro nella vita che lavare le scale?» – continuò l’uomo – «Cosa diresti se le sculture di Michelangelo fossero state usate come materia prima per farci i muri? È un peccato…» – «Ok, fammi scendere» – disse di scatto la ragazza, capendo che con quel matto non ci avrebbe ricavato un quattrino.
L’auto accostò ma, prima che Sabrina avesse aperto la portiera, l’uomo si era voltato allungando verso di lei un biglietto da visita e diverse banconote. «Nel caso volessi cambiare vita» – disse. Sabrina afferrò il mazzetto e uscì sbattendo la portiera. L’eccentrico uomo si aggiustò i polsini dell’elegante vestito e andò via. I soldi erano sufficienti per giustificare tutta la serata. Stranamente era scesa proprio vicino a casa sua.

Quella sera il sonno tardava a venire. Continuava a pensare a ciò che le era accaduto, a quell’uomo così bizzarro, a quello che le aveva detto, al suo sguardo. Poi pensò alla sua vita, al fatto che per la prima volta qualcuno credeva che lei avrebbe potuto fare qualcosa di meglio. Fino ad allora Sabrina si era convinta di essere una buona a nulla, di poter ambire al massimo a ciò che aveva già e faceva già.

Il giorno dopo versò la percentuale al bruto che “la possedeva”. L’individuo era talmente insensibile che non si accorse della differenza nel saluto e nel modo di guardarlo.
Pochi chilometri in autobus e si trovò all’indirizzo riportato sul biglietto da visita. Davanti a lei una grande azienda con un enorme cancello. Non si riusciva a vedere l’interno, forse nessuno in città c’era mai riuscito. La tentazione di alzare i tacchi era forte: in fondo poteva essere tutto un tranello, poteva ficcarsi in qualche guaio. Suonò al citofono. Non rispose nessuno ma il cancello automatico cominciò a scorrere aprendosi. Poco oltre il cancello c’era una casetta rurale ristrutturata dove viveva il guardiano. Attraverso il vetro lo vide parlare al telefono e sorridere. Poco dopo arrivò l’eccentrico uomo. «Grazie Antonio» – disse guardando il custode. Poi si voltò verso di lei – «Sono contento che tu abbia deciso di venire qui, Sabrina». La ragazza era un po’ stranizzata: era sicura di non aver mai pronunciato il suo nome a quell’uomo. Il suo pensiero fu interrotto dalla voce dello stravagante signore: «Seguimi!».

Mentre penetravano nell’enorme complesso Sabrina incrociava lo sguardo di quelli che lavoravano là dentro: non c’era ombra di tristezza, di fatica, di delusione. «Antonio, il custode…» – diceva l’eccentrico signore – «Sai che era un ubriacone? Ha accettato anche lui ed ora ha una famiglia, una casa e un lavoro.» – continuò indicando altrove – «Vedi quell’ingegnere a quella scrivania? Sta progettando un sistema estremamente complesso che solo lui può sviluppare. L’ho trovato che faceva il barbone dopo aver fondato la sua esistenza sul successo e aver fallito per aver fatto il passo più lungo della gamba. Ora lavora con noi e fa delle cose meravigliose.» – passando vicino ad un operaio che saldava una paratia – «Armando, aveva fatto un grosso sbaglio nella sua vita. Ho dovuto creargli un’identità nuova per convincerlo ad unirsi a noi. Ora è letteralmente ri-nato: la sua vita piena di errori si è trasformata in una vita piena di valori.» – giunti ad un ufficio che non era stato assegnato a nessuno, l’uomo la guardò e disse: «È il tuo momento, Sabrina. Oggi inizia la tua nuova vita nella nostra famiglia, amica mia».

Chiedo scusa per il post estremamente lungo. Non contento aggiungo questo cortometraggio della durata di circa venti minuti. Ringrazio Vittoria per avermelo fatto notare.

 

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Mani sporche

In un paese molto ricco prosperavano tante industrie e aziende distribuite nei settori più disparati. Ce n’erano di veramente grandi e quelle più piccole prosperavano anche grazie agli scambi commerciali e alle attività delle più grandi. Il motivo di tanta ricchezza erano stati, diversi anni prima, alcuni imprenditori che avevano saputo sfruttare al meglio le risorse del territorio amministrando con astuzia le loro aziende. La gente di quel luogo non conosceva disoccupazione né povertà e la maggior parte di loro stimavano quegli imprenditori per il benessere che avevano realizzato in quel paese.

Nonostante questo benessere c’erano persone che non erano contente: mormoravano perché alcuni erano più ricchi di altri; si lamentavano perché a, loro dire, i fondi destinati agli aiuti umanitari erano esigui; erano arrabbiati perché non avevano sufficiente benessere e libertà. Forse sentivano puzza di bruciato, forse avevano pure ragione o forse il loro cuore inquieto si era fatto ammaliare dal troppo benessere e li conduceva a pensare che ottenendone altro avrebbero saziato tutti i loro desideri. Ad ogni modo, finì che queste persone cominciarono a detestare gli imprenditori di quel paese.

Fecero ricerche approfondite e scoprirono così che un dirigente tradiva la moglie, che un altro dirigente aveva rubato un’auto quand’era ragazzo, che un grande imprenditore aveva amici furfanti etc. Queste notizie fecero scalpore; furono avviati processi e inchieste; dettagli scottanti venivano rivelati ogni giorno. Finalmente si stava facendo giustizia.
Molti incriminati, che erano tra i più stimati, ammisero le loro colpe ma la gente non se ne faceva nulla delle scuse. Un dirigente si impiccò, altri due si dimisero abbandonando la loro azienda, un quarto fu incarcerato, altri vennero scagionati ma la gente mormorava che avessero comprato la giuria perciò boicottarono i loro prodotti.

Pian piano le aziende cominciarono a chiudere: si poteva dire di tutto su quegli imprenditori tranne che non sapessero fare il loro mestiere. Molta gente perse il lavoro; i prezzi salirono; venne la carestia e la crisi.
Il desiderio di giustizia è una cosa sacrosanta ma non dev’essere confuso con la vendetta né con il moralismo perché la prima produce solo vittime mentre il secondo si ritorce facilmente contro chi lo pratica.

Abandoned factory

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Copertura

Annalisa amava Francesco; lo amava di quell’amore vero, sincero e razionale che guarda al futuro e fa attenzione all’altro nella sua interezza; difetti inclusi.
Una sera Francesco rientrò molto agitato. Era in ritardo ed Annalisa non aveva mai visto quell’espressione sul suo volto. Per Francesco era impossibile nascondere ad Annalisa ciò che era successo – quello che aveva fatto – perciò, chiusa la porta, si sedette con lei al tavolo della cucina ed iniziò a raccontare del suo errore.

Il racconto andava avanti sempre più lentamente, la voce di Francesco si faceva sempre più flebile e soffocata dall’emozione della colpa. Quando cominciò a parlare delle vittime non poté trattenere il pianto ed il racconto si interruppe più volte per singhiozzi e crisi. Le mani di Francesco passavano ripetutamente dai suoi capelli ai suoi occhi coprendo, ogni tanto, l’intero volto devastato da quella colpa troppo grande.
Anche Annalisa piangeva, non perché fosse ferita o oltraggiata in qualche modo da ciò che aveva fatto Francesco – e lo era – ma perché percepiva nettamente la sofferenza ed il pentimento di Francesco.

«La mia vita è finita, non c’è più speranza per uno come me» – concluse Francesco, lasciando immaginare che di lì a poco l’avrebbe fatta finita in qualche modo. Annalisa lo guardò negli occhi – «No, Francesco. Io ti conosco e ti amo: so cosa è meglio per te e so come ti stai sentendo ora. Proprio per questo so che quanto è accaduto oggi non si ripeterà mai più e…»
Rumori provenienti da fuori interruppero la frase. «Nasconditi qui e non fiatare» – disse rapidamente Annalisa mentre trascinava per un braccio Francesco. Lui avrebbe voluto non farlo, ma era troppo scosso per muovere qualsiasi obiezione.

Pochi istanti dopo bussarono alla porta. Era un gruppo di sei o sette persone che cercavano Francesco perché “doveva pagare”.
«Non è qui. Potete anche controllare se volete» – replicò loro Annalisa. Dopo essersi guardati un po’ intorno, quelli se ne andarono e Francesco poté nuovamente sedersi a parlare con Annalisa – «So che quanto è accaduto oggi non si ripeterà mai più e che tu sei realmente pentito. Ora, l’unica cosa della quale hai bisogno è di cominciare una vita nuova, una vita migliore. Hai bisogno di essere accolto ed amato, non di essere punito, perché è già tremenda la punizione che stai infliggendo a te stesso. L’unica cosa della quale devi preoccuparti è di riparare il riparabile, di ricavare un bene dal male che è già stato compiuto, non di scontare pene.»

Annalisa è stata forse una criminale per aver “coperto” Francesco? Si può rimediare al male con altro male? Spesso noi pretendiamo che ciascuno paghi a caro prezzo i propri errori, ma non riflettiamo che anche noi ne commettiamo e che fa parte della natura umana sbagliare. Non riflettiamo, soprattutto, sul dolore che certe persone si portano dietro, sul fatto che la condanna e l’esecuzione non sono sempre la strada giusta per combattere il male. Accogliere, non significa certamente essere accondiscendenti, ma implica osservazione e riflessione affinché anche chi ha commesso il male abbia la possibilità di essere una persona buona. Se poi costui inganna e finge il pentimento, non è bene sospettare la malafede e, in ogni caso, ogni nodo verrà prima o poi al pettine.

Disperato

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