Storie di sacchetti e di scatole

Verso le sei del pomeriggio arriva una donna esile, quasi tremolante, dai movimenti lenti e ponderati come se ogni azione significasse un enorme sforzo per l’organismo. Sulla testa un foulard dal quale non sporgeva neanche un capello, anzi, era indossato in quel modo tipico di chi vuole nascondere la traccia più evidente della sua terribile malattia.
Si avvicina spingendo il carrello quasi vuoto. Nella tremolante mano destra un sacchetto giallo annodato. Lo allunga verso il volontario; prende il biglietto di ringraziamento e poi torna a spingere il carrello verso l’uscita. Oltrepassata la zona dell’ingresso, ingombrata dagli scatoloni, la donna si mette da parte a controllare lo scontrino minuziosamente: non devono esserci errori; lei non può permettersi errori. Mentre accade questo il mondo è fermo per quel volontario, immobile con ancora quel sacchetto fra le mani, a commuoversi per quanto stava osservando.

Un’ora dopo un’altra donna giunge nella zona dell’ingresso. Cammina veloce, ben vestita, sguardo alto o – per meglio dire – altezzoso. Il suo sguardo non si permette di incrociare quello del volontario e sfreccia oltre, quasi con stizza. Oltrepassato l’ingresso, dove il suo volto non può più essere visto da nessuno dei volontari, esclama: «Tanto se le tengono» (alludendo alle varie buste gialle da loro ricevute). La coscienza raramente la si prende in giro e per le cose cattive consiglia vergogna (e quella esclamazione tanto ricorda la favola “La volpe e l’uva” di Fedro).

Arriva il camion per ritirare le donazioni. L’autista scende con un carrellino sapendo che dovrà trasportare centinaia di chili dividendoli in più viaggi.
Accade però un imprevisto: i ragazzi si chiamano fra loro; spontaneamente formano una catena e si passano gli scatoloni l’un l’altro. In un attimo il camion è pieno.

Per queste scene realmente avvenute è superflua ogni ulteriore meditazione: ciascuno può trarre le dovute conclusioni senza aiuti.

Busta gialla

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L’olio di Lorenzo

Un film che mi ha fatto molto riflettere per il suo alto contenuto di valori, la storia vera di Augusto e Michaela Odone e del loro figlio Lorenzo. All’età di cinque anni a Lorenzo viene diagnosticata l’adrenoleucodistrofia, malattia rara, dolorosa e mortale per la quale non esistevano cure. Mentre la malattia del bambino progredisce paralizzandolo e sottoponendolo a tormenti che egli sopporta eroicamente, Augusto e Michaela non si danno per vinti.

Una mamma ed un papà che conoscevano poco o nulla della medicina e della biochimica ma che, con una forza che definirei “sovrumana”, hanno affrontato di petto la situazione studiando ogni articolo scientifico che, anche marginalmente, poteva essere correlato alla malattia del figlio. Dopo aver addirittura organizzato il primo simposio internazionale sull’adrenoleucodistrofia, nonostante lo scetticismo e la reticenza dell’ortodossia accademica degli scienziati, gli Odone hanno sviluppato “l’olio di Lorenzo“, una mistura di acidi grassi che inibisce l’agente dannoso nella malattia (non ripara i danni ma ne evita di nuovi).

Si possono fare diverse riflessioni su questa storia.
A volte noi scienziati non ci mostriamo abbastanza aperti alla realtà mostrando, come prima reazione, uno scetticismo che si basa su un’eccessiva e mal riposta fiducia sulle sole conoscenze accademiche “certificate”. Anche chi non è scienziato si lascia andare, in alcuni casi, a questo genere di resistenza ma, come si apprende da questa storia, dare una minima occasione alla novità non è solo onesto ma è anche proficuo per tutti.
Nel film alcuni genitori esasperati si oppongono agli Odone perché ritengono più opportuno accelerare la morte del figlio per “porre fine alle sue sofferenze”. Inutile ribadire quale dei due atteggiamenti abbia effettivamente prodotto un grande beneficio per la collettività. Significative le parole di disprezzo scaturite dalla bocca di una stanca infermiera riferendosi allo stato di coscienza di Lorenzo: “non c’è nessuno in casa”. Lorenzo è morto all’età di 30 anni (molto più di quanto prospettato da un decorso non ostacolato della malattia) cosciente ed in grado di comunicare con le dita e gli occhi.
Ultimo ma non meno importante il coraggio e la combattività, di Lorenzo per primo e dei suoi genitori dopo. Il dramma, il male della malattia non sono l’ultima parola: questa storia è un caso notevole di una disgrazia che alla fine conduce a qualcosa di grande. Ascoltando i racconti di chi vive drammi simili si può intravedere la stessa carica di senso e di coraggio, la volontà e la forza di trasformare un dramma in un motivo di vita e di speranza.

L'olio di Lorenzo

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Spezzare la catena

Qualche tempo fa raccontavo un piccolo episodio che mi era accaduto interagendo con un utente di un gioco online. Una cosa molto simile, sebbene ambientata e raccontata meglio, accade nell’episodio numero 22 di Full metal alchemist brotherhood.

ScarScar è un abitante di Ishval, un paese che ha sofferto la tragedia di una guerra civile e i cui abitanti ritengono che l’uso dell’alchimia sia un’offesa al creatore. Nel corso della guerra, Scar perde i suoi genitori e suo fratello, oltre a migliaia di compaesani. Viene salvato da una coppia di dottori, i coniugi Rockbell, ma sopraffatto dal risentimento e dall’odio per quegli occidentali responsabili della devastazione del suo paese, li assassina.

Recatosi nella capitale, Scar si trasforma in un serial killer che uccide gli alchemisti di stato e racconta a sé stesso che le sue azioni non sono guidate dalla vendetta ma dal volere del creatore che punirebbe così gli alchimisti. È qui che, braccato dai militari, incontra Winry, la figlia dei coniugi Rockbell.
Quando la ragazza viene a sapere che Scar è l’assassino dei suoi genitori ha la tentazione di sparargli, ma alla fine desiste. Questo fatto, insieme ad altre vicende che si sviluppano nel corso della storia, cambia radicalmente Scar liberandolo dalla morsa dell’odio. Tra gli episodi conclusivi della serie, vittime e aggressori saranno infatti schierati fianco a fianco nella lotta contro il male.

WinryLa storia sottolinea l’esistenza di una catena dell’odio: la vittima che diventa a sua volta aggressore in un mix di vendette e generalizzazioni che producono a loro volta altre vittime che avranno i medesimi sentimenti. L’odio chiama altro odio e conduce ad una serie di eventi dolorosi che non si concludono mai. O meglio, si concludono solo se uno degli anelli della catena non si comporta come gli altri. L’istinto vorrebbe che ad ogni sopruso si reagisca con cattiveria uguale o maggiore a quella subita. Il perdono è invece, da questo punto di vista, una vera e propria rivoluzione, qualcosa capace di recidere il meccanismo una volta per tutte, qualcosa di alieno rispetto al meccanismo stesso.

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Spada demoniaca

Un anime che ho seguito con una certa assiduità è Inuyasha. Si tratta delle avventure di un mezzo demone, un ragazzo nato da madre umana e padre demone. Il padre di Inuyasha era un demone cane tra i più potenti dell’epoca ed ha lasciato in eredità al figlio minore una spada demoniaca di nome Tessaiga.
Una spada demoniaca è un’arma forgiata con zanne, ossa, scaglie, artigli o quant’altro di solido si possa ricavare da un demone. Tanto più è potente il demone originario, tanto più formidabile risulta essere l’arma forgiata con le sue parti.

Brandire una spada demoniaca non è però da tutti. Inuyasha, essendo per metà demone, riesce a brandire Tessaiga, ad imparare nuove tecniche, a scoprirne i poteri nascosti e perfino a dialogare con la sua arma, come se avesse una volontà propria capace di insegnare al ragazzo l’utilizzo corretto di se stessa.
Spada DakkiNel corso della serie accade diverse volte che un normale essere umano si impadronisca di una spada demoniaca, dato il noto potere di una spada di questo tipo. Sistematicamente ogni volta succede che il potere della spada prende il sopravvento sulla coscienza dell’uomo che ha osato troppo, pensando di brandire un’arma fuori dalla sua portata. Un esempio fra gli ultimi, la spada Dakki: il suo fabbro umano ignora gli avvertimenti di lasciare perdere la spada e finisce con il mutare lentamente in un mostro fondendo il suo braccio all’arma. Inutile specificare la sua tragica fine.

Purtroppo le spade demoniache non esistono solo nel mondo di fantasia di Inuyasha. Pensiamo per esempio alla satira. In molti fanno uso e abuso sia del termine, sia della pratica: credono che sia sufficiente etichettare un’accusa o un insulto sotto la categoria “satira” per ottenere impunità e lode da parte di tutti, ad esclusione dell’offeso il quale, corrispondentemente, non può protestare perché altrimenti sarebbe tacciato di censura.
Arthur Schopenhauer annoverava la beffa del proprio interlocutore tra una delle tecniche (sleali) per ottenere ragione: se non si può vincere con la forza dei propri argomenti allora conviene fare ridere la platea ridicolizzando l’altro. La satira è un’arma demoniaca che bisogna saper usare, che richiede moderazione e, perché no, anche rispetto di chi si parla. Si rischia altrimenti di perdere il senso della misura e trasformarsi in creature assai brutte, non tanto esteticamente ma a livello di coscienza. Si può fare ridere per parlare di un problema reale oppure si possono inventare problemi per fare ridere. La differenza, come per le spade demoniache è che, nel secondo caso, prima o poi l’arma prende il sopravvento su chi la brandisce e lo consuma.

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Il migliore amico

Quando ero bambino c’era un mio compagnetto delle elementari che definivo “il mio migliore amico”. Affrontavo gli altri per ottenere il diritto di sedermi accanto a lui ed ogni volta che lo scorgevo altrove lo avvicinavo per parlare o giocare. Passavo diversi pomeriggi a casa sua.

Riportando alla memoria quei tempi, temo che quel mio amico non fosse proprio d’accordo con le mie definizioni. Non è che non gli volessi bene – anzi, personalmente ho riservato simili sentimenti a pochissime persone – però qualcosa non andava.
Mi ero talmente preso a cuore “il suo bene” che mi impegnavo nel spiegargli tutto ciò che sapevo e soprattutto nel correggerlo in ogni sbaglio in modo da aiutarlo. Facevo veramente il suo bene? Probabilmente no. Concentrandomi solo sull’aspetto logico, solo sul distinguere le affermazioni vere da quelle false, trascuravo buona parte del resto, a cominciare dalla sensibilità verso l’altro. Ricordo che spesso il mio amico finiva per piangere a causa delle mie lezioncine, del mio continuo correggere, della mia pretesa di avere sempre ragione.

Oggi questa persona non mi rivolge la parola da decenni.
Per fare cose buone non bastano le buone intenzioni. Se la dobbiamo dire tutta sono spesso le buone intenzioni – mal gestite, mal perseguite – a condurci verso risultati diametralmente opposti: invece di fare il bene facciamo il male; invece di costruire distruggiamo pur avendo tutt’altre intenzioni. Non basta avere un buon obiettivo ma occorre che anche “il come” sia buono. Volere bene, amare qualcuno non giustifica qualsiasi tipo di amore, nessun fine può cioè giustificare i mezzi, perché certi mezzi illudono chi li adopera e lo conducono decisamente fuori strada.
L’esperienza personale insegna che il bene si persegue con il proprio sacrificio (non con quello degli altri); facciamo attenzione alle strade in discesa che conducono verso il miraggio di un buon proposito.

Segnale scuola

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Bello ma velenoso

Ci sono tanti animali e piante che hanno dei colori sgargianti e disegni incredibili. Rispetto ad altre creature che cercano di mimetizzarsi o che non hanno proprio voglia di attirare i predatori risaltano subito per la loro bellezza.
Nella natura però i colori accesi e i disegni appariscenti significano “veleno”: le bande gialle e nere della vespa mettono in guardia dal pungiglione; certe bacche rosse evidenziano la loro tossicità; alcuni molluschi marini mettono in guardia da aculei urticanti e cellule tossiche.

Noi siamo affascinati dai colori appariscenti, dai contrasti evidenti, come siamo affascinati da tutto ciò che ci sembra piacevole, comodo o conveniente. Certi comportamenti discutibili li compiamo per il fascino che inizialmente essi esercitano su di noi. Evitare il peggio è spesso un saper guardare oltre la superficie accattivante e scorgere la sostanza delle nostre azioni.

Mollusco velenoso

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Maniaco dell’ordine

Un tipo un po’ cervellotico stava con lo sguardo perso verso le quattro pareti della sua stanza. C’era tanto disordine e lui aveva appena preso le vacanze perciò, visto che aveva tempo da vendere, cominciò ad ordinare.

All’inizio spostò soltanto gli oggetti liberando la superficie coperta della scrivania. Si guardò intorno e pensò che non era sufficiente. Allora cominciò a riporre gli oggetti nei cassetti e sugli scaffali. Si guardò ancora intorno e si accorse che il disordine permaneva sopra gli scaffali e dentro i cassetti e dentro l’armadio. Si mise all’opera: svuotava i cassetti e rimetteva dentro le cose in modo che fossero allineate, parallele, organizzate, razionalizzate. Finiva un cassetto e andava ad uno scaffale per poi tornare ai cassetti o concentrarsi sull’armadio.

Dopo molto lavoro finalmente tutto era quasi perfetto ma, prima che potesse iniziare un altro ciclo, un amico lo chiamò al telefono: «Hey, ti ricordi cosa c’era scritto in quella cartolina che mi hai mostrato?» «Controllo subito». Il tipo tornò nella stanza e cominciò a cercare creando un moderato disordine, andò a comunicare l’informazione all’amico e ritornò indietro, nella sua stanza. Ancora disordine! Ed eccolo di nuovo  a sfacchinarsi nell’ordinare, sistemare, razionalizzare tutto, perfino l’orientamento degli oggetti e la faccia giusta che i fogli dovevano rivolgere verso l’alto. Ogni volta però capitava qualcosa – un libro da leggere, un oggetto da utilizzare, un’informazione da cercare – che produceva altro disordine. Un ciclo senza fine aveva intrappolato il nostro amico.

Ci sono cose che non si possono eliminare: si può combattere lo sporco ma non lo si può annientare; si può fare ordine ma non si può annullare il disordine una volta per tutte. Il moralista non soltanto combatte il male ma lo vuole annientare e rischia così di diventare prigioniero del suo proposito. Un buon proposito – ci mancherebbe – ma estremizzato al punto che si dimentica dell’umanità delle persone, del fatto che in loro l’errore è sempre dietro l’angolo, il male sempre una scelta possibile anche se si cerca di respingerla. Ciò che conta non è una perfezione impossibile e utopistica ma sapere distinguere il bene dal male, riprendendo la strada del primo quando capita di smarrirsi nel secondo.

Disordine

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Scale

Un modo di dire recita: “Il mondo è fatto a scale, c’è chi scende e c’è chi sale”. Purtroppo quando si enunciano queste parole ci si riferisce al successo, alla carriera, alla ricchezza. Senza dubbio è vero che il raggiungimento di queste mete ricordi delle vere e proprie scalate ma le scale “serie” non hanno in cima il plauso della comunità o l’orgoglio di essere migliori di altri o certi piaceri che si concludono in pochi minuti. Spesso è proprio chi sale le scale del successo a scendere ben altre scale.

Noi ci troviamo sempre lungo delle scale. Possiamo scegliere di salire sfidando la gravità e, pertanto, faticare; oppure possiamo scegliere di scendere facilmente sentendoci meno oppressi dalla forza che ci tira verso il basso. Attenzione però: ogni gradino facile riduce la nostra quota, diminuisce la nostra energia potenziale. Possiamo ancora risalire, se ci rendiamo conto di essere scesi e se decidiamo di riprendere il cammino verso l’alto. Così come anche chi generalmente sale è continuamente stuzzicato dalla forza di gravità e può scendere o fermarsi per stanchezza.

Anche l’orgoglio può farci scendere: la riluttanza a seguire chi si trova qualche gradino più sù e sa indicarci la direzione. Possibilmente è qualcuno che è riuscito a scorgere la sommità delle scale e ne è rimasto talmente affascinato da raccontarlo ad altri che stanno salendo. Al contrario, lungo la discesa non serve alcun aiuto, ma alla fine della scala c’è un burrone, un baratro tremendo che non si può risalire e che risulta tanto più difficile da evitare quanto più velocemente si scendono i gradini.

Scale Moria

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Giustizia

“Giustizia è fatta”, “consegnare alla giustizia”, “giustizia sommaria”; utilizziamo questa parola spesso ma ho ultimamente avuto l’impressione che nell’uso comune il termine si sia un po’ discostato dal suo significato.
Partiamo da “giusto”. Quando subiamo un torto o vediamo qualcuno subirlo e abbiamo un attimo di empatia, noi diciamo “non è giusto” o “è un’ingiustizia”. Fare giustizia è però estremamente difficile perché richiede la conoscenza di tutte le condizioni al contorno. Se vedo un uomo colpirne un altro con il proprio cappello posso presumere che egli sia un gradasso ma se sapessi che con quel gesto ha allontanato un’ape da un individuo allergico, salvandogli la vita, il nostro giudizio sarebbe diverso. È più giusto punire soltanto il colpevole oppure riparare il danno e ottenere un bene dal male compiuto?

Possiamo passare tutta l’esistenza a pretendere la prigionia per ogni persona che abbia sbagliato, ma siamo sicuri che invocheremmo lo stesso trattamento per un nostro errore, per una nostra mancanza momentanea?
Diciamo anche che un uomo che abbia sbagliato debba “pagare il suo debito verso la società” ma se c’è un debito, questo è tra una vecchietta ed il suo scippatore.
E se il rapinatore, il giorno dopo lo scippo, ritorna dalla vecchina con la refurtiva e mille scuse? Per la legge è ancora qualcuno da mettere dentro; per la società sarebbe ancora un debitore, ma perché insistere? È ovvio che la legge debba fare ordine e che per fare ordine bisogna classificare i comportamenti in reati e non reati, prevedendo delle sanzioni. È vero però che le persone non sono oggetti o macchinari, che anche il più indicibile criminale può cambiare radicalmente e desiderare un colpo di spugna: iniziare una nuova vita.

Nella puntata “La coscienza del re” della serie originale di Star Trek, Kodos il carnefice viene riconosciuto da alcuni testimoni superstiti in Anton Karidian, un attore di una compagnia teatrale itinerante. Kodos aveva arbitrariamente fatto uccidere la metà della popolazione di un pianeta per garantire la sopravvivenza dei sopravvissuti in un momento di scarsità alimentare. Quando il tenente Riley, uno dei testimoni, minaccia di uccidere Anton Karidian, dietro le quinte, viene fermato dal capitano Kirk. Come si può pensare di riparare ad una ingiustizia con un’altra ingiustizia?

Il problema sono i moralisti, quelli che non gliene importa nulla se sei cambiato oppure no perché per loro devi pagare ugualmente; non gliene importa nulla se sei stato debole o se hai riconosciuto il tuo errore, devi saldare il debito con la società.
Ma chi sono i moralisti? Spesso è gente che assume questo comportamento solo contro una tipologia di persone. Dicono spesso di stare dalla parte delle vittime ma poi denunciano i crimini solo se a compierli sono i loro nemici ideologici. E le vittime degli altri criminali? Quelli dei quali non parlano? Forse i moralisti stanno solo dalla parte di alcune vittime: quelle che fanno comodo.
Giustizia non è sinonimo di vendetta e non fa rima con “persecuzione”. “Giusto” sarebbe comprendere, prima ancora di giudicare.

La coscienza del re

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Ordine e disordine

Avevo vagamente accennato al disordine parlando di entropia, una quantità legata anche alla reversibilità dei processi naturali, cioè legata alla possibilità di “tornare indietro”, di riportare qualcosa al suo stato iniziale. C’è un film di fantascienza, dal titolo “Punto di non ritorno“, che offre spunti di riflessione anche su questa tematica.

L’equipaggio dell’astronave “Lewis & Clark” è incaricato di raggiungere la “Event horizon”, un’astronave prototipo di grandi dimensioni contenente il primo motore interdimensionale il cui nucleo centrale è una sfera che racchiude un buco nero artificiale. Durante il primo test dell’innovativo motore la Event horizon ha fatto perdere le sue tracce nei dintorni di Nettuno e, dopo molto tempo, era misteriosamente riapparsa nello stesso luogo della scomparsa.
I membri dell’equipaggio della Lewis & Clark, tra i quali c’è anche lo scienziato che ha progettato il motore interdimensionale, scoprono che la Event horizon è deserta ma che una forte attività biologica diffusa viene rivelata all’interno della nave. La (o le) misteriosa entità a bordo proviene dal luogo dove la nave si era trasferita con il suo primo test. Si tratta di una «dimensione di puro caos e puro male», come si apprende dallo scienziato stesso dopo essere stato plagiato dall’invisibile entità, il cui scopo è di attirare nuove prede umane nella sua dimensione.

È particolarmente evidente come più o meno tutti associamo all’ordine un’idea positiva e al caos un’idea negativa. Le forze dell’ordine; andare per ordine; fare ordine; una persona ordinata; l’ordine naturale delle cose; sono tutte espressioni che infondono sicurezza, bellezza e bontà. Al contrario, il caos, il disordine, la non intelligibilità di un fenomeno o di un comportamento richiamano immediatamente insofferenza, tristezza, paura.
In particolare, l’intelligibilità dell’Universo, cioè la sua caratteristica di essere governato da leggi a noi comprensibili, costituisce un specie di ordine supremo; un ordine che – mi è capitato di dire altre volte – poteva non essere necessario. Eppure questo ordine c’è e dovremmo interrogarci sul perché esista e sul motivo del fascino che esso esercita su di noi (e dovremmo anche interrogarci sui motivi che ci spingono a farci queste domande).

Punto di non ritorno

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