Nella realtà, non misurabile

Prendiamo un quadro di un artista famoso, una creazione di grande bellezza. Tutti sappiamo che il suo valore non è dato soltanto dal costo della tela, dei pigmenti e della manodopera dell’artista. Possiamo anzi dire che il valore di un’opera d’arte ha ben poco a che fare con le sue caratteristiche fisiche o l’insieme delle sue proprietà misurabili e scientificamente interpretabili. La bellezza non è misurabile ma esiste, non c’è sensore al mondo in grado di rilevarla ma tutti possiamo apprezzarla.

Certo, c’è chi potrebbe dire che il valore estetico è qualcosa di arbitrariamente deciso dall’uomo o che la bellezza è qualcosa di soggettivo, ma chi parla così ha quanto meno la memoria corta: le mode passano; la bellezza resta.
Non stiamo parlando del valore nominale di una banconota. Da qualsiasi posto sperduto del mondo una persona possa provenire, la reazione davanti alla bellezza è la stessa – purché sia vera bellezza e non l’opinabile gusto dettato dalla critica o dalla moda del momento. Se proprio non vogliamo considerare un’opera dell’uomo, verifichiamo quante persone non apprezzerebbero lo spettacolo di un tramonto mozzafiato. La bellezza, è una delle poche cose universali che l’uomo conosca.

Universale, non misurabile, intangibile, ma reale, presente, sperimentabile con gli strumenti del cuore dell’uomo, i quali sono validi tanto quanto i rivelatori al germanio iperpuro. La porzione della realtà che si rivela investigabile con i soli strumenti che la scienza mette a disposizione è marginale. Forse aumenterà, forse resterà tale; non lasciamo che il materialismo riduca la nostra esperienza ad un foglio di calcolo. Cominciamo ad apprezzare la bellezza di una bella opera d’arte come questa:

Natività di Lorenzo LottoNatività – Lorenzo Lotto (1530 circa)

Consideratela il mio augurio di un felice Natale e buone feste.

Share

L’assistente

L’altro ieri mi trovo all’aeroporto della mia città per l’ennesima trasferta di lavoro. Passati i controlli di sicurezza, mi metto a sedere vicino al mio gate in attesa dell’apertura.
Da una porta alla mia destra vedo uscire un addetto dell’aeroporto che spinge la sedia a rotelle di un anziano signore. Mentre mi passano davanti sento l’addetto parlare con il suo assistito:

«Qu…Qu…Quan…nn…ndo è pro…pro…prooon…nn…to m…mi chi…chi…chiam…mm….ma»

Il poveretto aveva una fortissima balbuzie e sforzava il suo viso con mille smorfie prima di riuscire a comunicare. Nel frattempo spingeva la carrozzella scomparendo fra la folla della grande sala di imbarco.

È stato proprio mentre osservavo questa scena che ho riscoperto un concetto importante. Certe volte ci viene difficile aiutare qualcuno perché ne abbiamo scarsa empatia, non riusciamo a comprendere la sua condizione, non conosciamo le difficoltà che deve affrontare. Quando però siamo noi ad avere – momentaneamente o permanentemente – qualche problema, in un modo o nell’altro, ci rendiamo conto del nostro vero valore e ci ridimensioniamo, scoprendo chi sta peggio di noi. A volte serve una bella spinta per scendere da quel piedistallo che ci fa sentire tanto alti da non dover fare caso a chi sta sotto.

Sedia a rotelle

Share

Storie di sacchetti e di scatole

Verso le sei del pomeriggio arriva una donna esile, quasi tremolante, dai movimenti lenti e ponderati come se ogni azione significasse un enorme sforzo per l’organismo. Sulla testa un foulard dal quale non sporgeva neanche un capello, anzi, era indossato in quel modo tipico di chi vuole nascondere la traccia più evidente della sua terribile malattia.
Si avvicina spingendo il carrello quasi vuoto. Nella tremolante mano destra un sacchetto giallo annodato. Lo allunga verso il volontario; prende il biglietto di ringraziamento e poi torna a spingere il carrello verso l’uscita. Oltrepassata la zona dell’ingresso, ingombrata dagli scatoloni, la donna si mette da parte a controllare lo scontrino minuziosamente: non devono esserci errori; lei non può permettersi errori. Mentre accade questo il mondo è fermo per quel volontario, immobile con ancora quel sacchetto fra le mani, a commuoversi per quanto stava osservando.

Un’ora dopo un’altra donna giunge nella zona dell’ingresso. Cammina veloce, ben vestita, sguardo alto o – per meglio dire – altezzoso. Il suo sguardo non si permette di incrociare quello del volontario e sfreccia oltre, quasi con stizza. Oltrepassato l’ingresso, dove il suo volto non può più essere visto da nessuno dei volontari, esclama: «Tanto se le tengono» (alludendo alle varie buste gialle da loro ricevute). La coscienza raramente la si prende in giro e per le cose cattive consiglia vergogna (e quella esclamazione tanto ricorda la favola “La volpe e l’uva” di Fedro).

Arriva il camion per ritirare le donazioni. L’autista scende con un carrellino sapendo che dovrà trasportare centinaia di chili dividendoli in più viaggi.
Accade però un imprevisto: i ragazzi si chiamano fra loro; spontaneamente formano una catena e si passano gli scatoloni l’un l’altro. In un attimo il camion è pieno.

Per queste scene realmente avvenute è superflua ogni ulteriore meditazione: ciascuno può trarre le dovute conclusioni senza aiuti.

Busta gialla

Share

Il migliore amico

Quando ero bambino c’era un mio compagnetto delle elementari che definivo “il mio migliore amico”. Affrontavo gli altri per ottenere il diritto di sedermi accanto a lui ed ogni volta che lo scorgevo altrove lo avvicinavo per parlare o giocare. Passavo diversi pomeriggi a casa sua.

Riportando alla memoria quei tempi, temo che quel mio amico non fosse proprio d’accordo con le mie definizioni. Non è che non gli volessi bene – anzi, personalmente ho riservato simili sentimenti a pochissime persone – però qualcosa non andava.
Mi ero talmente preso a cuore “il suo bene” che mi impegnavo nel spiegargli tutto ciò che sapevo e soprattutto nel correggerlo in ogni sbaglio in modo da aiutarlo. Facevo veramente il suo bene? Probabilmente no. Concentrandomi solo sull’aspetto logico, solo sul distinguere le affermazioni vere da quelle false, trascuravo buona parte del resto, a cominciare dalla sensibilità verso l’altro. Ricordo che spesso il mio amico finiva per piangere a causa delle mie lezioncine, del mio continuo correggere, della mia pretesa di avere sempre ragione.

Oggi questa persona non mi rivolge la parola da decenni.
Per fare cose buone non bastano le buone intenzioni. Se la dobbiamo dire tutta sono spesso le buone intenzioni – mal gestite, mal perseguite – a condurci verso risultati diametralmente opposti: invece di fare il bene facciamo il male; invece di costruire distruggiamo pur avendo tutt’altre intenzioni. Non basta avere un buon obiettivo ma occorre che anche “il come” sia buono. Volere bene, amare qualcuno non giustifica qualsiasi tipo di amore, nessun fine può cioè giustificare i mezzi, perché certi mezzi illudono chi li adopera e lo conducono decisamente fuori strada.
L’esperienza personale insegna che il bene si persegue con il proprio sacrificio (non con quello degli altri); facciamo attenzione alle strade in discesa che conducono verso il miraggio di un buon proposito.

Segnale scuola

Share

Giustizia

“Giustizia è fatta”, “consegnare alla giustizia”, “giustizia sommaria”; utilizziamo questa parola spesso ma ho ultimamente avuto l’impressione che nell’uso comune il termine si sia un po’ discostato dal suo significato.
Partiamo da “giusto”. Quando subiamo un torto o vediamo qualcuno subirlo e abbiamo un attimo di empatia, noi diciamo “non è giusto” o “è un’ingiustizia”. Fare giustizia è però estremamente difficile perché richiede la conoscenza di tutte le condizioni al contorno. Se vedo un uomo colpirne un altro con il proprio cappello posso presumere che egli sia un gradasso ma se sapessi che con quel gesto ha allontanato un’ape da un individuo allergico, salvandogli la vita, il nostro giudizio sarebbe diverso. È più giusto punire soltanto il colpevole oppure riparare il danno e ottenere un bene dal male compiuto?

Possiamo passare tutta l’esistenza a pretendere la prigionia per ogni persona che abbia sbagliato, ma siamo sicuri che invocheremmo lo stesso trattamento per un nostro errore, per una nostra mancanza momentanea?
Diciamo anche che un uomo che abbia sbagliato debba “pagare il suo debito verso la società” ma se c’è un debito, questo è tra una vecchietta ed il suo scippatore.
E se il rapinatore, il giorno dopo lo scippo, ritorna dalla vecchina con la refurtiva e mille scuse? Per la legge è ancora qualcuno da mettere dentro; per la società sarebbe ancora un debitore, ma perché insistere? È ovvio che la legge debba fare ordine e che per fare ordine bisogna classificare i comportamenti in reati e non reati, prevedendo delle sanzioni. È vero però che le persone non sono oggetti o macchinari, che anche il più indicibile criminale può cambiare radicalmente e desiderare un colpo di spugna: iniziare una nuova vita.

Nella puntata “La coscienza del re” della serie originale di Star Trek, Kodos il carnefice viene riconosciuto da alcuni testimoni superstiti in Anton Karidian, un attore di una compagnia teatrale itinerante. Kodos aveva arbitrariamente fatto uccidere la metà della popolazione di un pianeta per garantire la sopravvivenza dei sopravvissuti in un momento di scarsità alimentare. Quando il tenente Riley, uno dei testimoni, minaccia di uccidere Anton Karidian, dietro le quinte, viene fermato dal capitano Kirk. Come si può pensare di riparare ad una ingiustizia con un’altra ingiustizia?

Il problema sono i moralisti, quelli che non gliene importa nulla se sei cambiato oppure no perché per loro devi pagare ugualmente; non gliene importa nulla se sei stato debole o se hai riconosciuto il tuo errore, devi saldare il debito con la società.
Ma chi sono i moralisti? Spesso è gente che assume questo comportamento solo contro una tipologia di persone. Dicono spesso di stare dalla parte delle vittime ma poi denunciano i crimini solo se a compierli sono i loro nemici ideologici. E le vittime degli altri criminali? Quelli dei quali non parlano? Forse i moralisti stanno solo dalla parte di alcune vittime: quelle che fanno comodo.
Giustizia non è sinonimo di vendetta e non fa rima con “persecuzione”. “Giusto” sarebbe comprendere, prima ancora di giudicare.

La coscienza del re

Share

La ragazzata

Era una noiosa serata invernale giù all’acciaieria. Il turno di Peter finiva alle 20 ma le sue mansioni erano così alienanti che avrebbe preferito andarsene via subito. Sembrava essere solo: la mattina non c’era un solo metro quadro della struttura che non fosse occupato da qualcuno; a partire dalle tre del pomeriggio il numero delle persone diminuiva e alle 19 non si vedeva quasi più nessuno.

In questo clima desolato il cervello di Peter aveva cominciato ad oscillare tra pensieri sempre più assurdi. “Chissà quanto ci mette l’acido per la pulizia del metallo a bucare un bicchiere di plastica…” pensò. Pochi minuti dopo aveva messo un dito di acido dentro un bicchiere di plastica.

Non sembrava succedere granché e il turno stava ormai per finire. Lasciare quell’acido nella propria stanza per tutta la notte l’avrebbe riempita di esalazioni perciò Peter posò quel bicchiere appena fuori dalla stanza e andò a fare il solito giro prima di tornare a casa.
L’acido bucò il bicchiere e colò verso il basso dove si trovava un estintore. Inutile dire che il fluido corrose il recipiente sotto pressione facendolo esplodere. Il boato attirò tutti i presenti.

«Peter! Peter! – chiamò una collega – È esploso l’estintore che sta vicino alla tua stanza». “Oh cavolo, il bicchiere!” pensò Peter. Quando giunse sul luogo, i colleghi discutevano sul far revisionare gli estintori. Alcuni colleghi avevano già cominciato a smontare gli estintori per evitare altre esplosioni. Evidentemente l’ipotesi dei colleghi era quella di un cedimento accidentale.
Poi però qualcuno vide quel bicchiere e capì cos’era avvenuto. “Ecco, sono impanato e fritto” pensò Peter. Il clima si fece un po’ più acceso. «Dobbiamo segnalarlo al capo»…«E cosa può fare se non sa chi è stato?»…«Almeno farà un richiamo pubblico». Uno dei colleghi di Peter, quello che aveva scoperto il bicchiere, gli si avvicinò guardandolo. “Sono finito, mi licenzieranno… – pensò Peter – Che cosa stupida che ho fatto!” Neanche il tempo di concludere questo pensiero e il collega disse: «Il burlone che ha fatto questa ragazzata doveva proprio volerti male per farlo davanti al tuo studio». “Già… Non ho peggior nemico di me stesso” pensò Peter.
Il giorno dopo, il caso era già chiuso. Peter, dal canto suo, aveva uno sguardo diverso verso le persone: sapere che anche noi siamo capaci del peggio, ci può fare guardare alle debolezze degli altri con maggiore serenità.

Puffo burlone

Share

Fumetto sperimentale

Fumetto - Prima parteFumetto - seconda parte

Share

Il campo di forza

Quando, circa cento anni fa, gli Attanistei avevano iniziato a solcare gli immensi spazi del cosmo, le loro navi non erano nulla di speciale: corazze in metallo; propulsori a curvatura; armi a particelle. Vedevano lo spazio interstellare come un immenso mare da esplorare con innumerevoli porti ad attenderli, popoli da conoscere, mondi da esplorare. Quanto di più affascinante un popolo aveva da dare loro lo accoglievano arricchendosi e poi facevano altrettanto con tutto ciò che avevano visto e imparato.

Purtroppo anche lo spazio nasconde delle insidie. Oltrepassata la nube di Liodo, gli Attanistei furono assaliti più e più volte dai pirati dello spazio. Ci fu pure una volta in cui gli assalitori non erano in cerca di mercanzie ma di materiale biologico. Gli Attanistei, che erano un popolo sensibile e aperto, si erano fatti imbrogliare e uccidere fin troppo: subivano il dolore e il male come assorbivano la bellezza degli altri popoli.
Fu così che gli Attanistei cambiarono, si chiusero. Per loro era amico solo un altro Attanisteo, tutti gli altri erano nemici e si doveva attaccare prima di diventare il bersaglio. Inventarono un potente campo di forza che respingeva ogni cosa e si dotarono di armi veramente pericolose.

Successe allora che, per un guasto al sistema di traduzione, vi fu un equivoco e aprirono il fuoco contro una nave di Arsictini, colpevoli solo di esistere. Quelli si difesero ma il campo di forza riflesse all’indietro i colpi e tutto l’equipaggio di quella nave morì.

Ci sono persone che, dopo aver vissuto delle sofferenze e dei momenti negativi, costruiscono come un muro, pesante, oppressivo, spesso, intorno al loro cuore. Se ridono, lo fanno con un retrogusto di amarezza, quando si sbeffeggia l’avversario politico o ideologico. Se provano un sentimento, questo è solo un rancore che non si riesce a sedare, neanche vincendo le battaglie in nome della propria ideologia. In alcuni casi, il muro è così spesso, che queste persone si riducono a delle macchine: per non soffrire più eliminano completamente tutto ciò che giudicano non razionale e logico.
L’uomo non è soltanto “mente” e tessuti. Di ogni essere umano è importante il cervello ma è ugualmente importante il cuore, inteso non come muscolo cardiaco ma come nocciolo ineffabile, elemento centrale della coscienza situato al di là della sfera logica. Se scegliamo di rinunciare al cuore, rinneghiamo la nostra umanità.

Scudo spaziale

Share

Un uso sbagliato

A chi non capita presto o tardi di discutere con qualcuno sulla visione che si ha del mondo o di un qualche argomento che reputa importante?
Le modalità e la direzione che la discussione può prendere dipendono dalle persone coinvolte, da quanto sono state educate, dal rispetto che hanno per l’altro, tuttavia anche persone educate e oneste, anche quelle che hanno perfettamente ragione, anche (e soprattutto) quelle che hanno buone intenzioni e bellissimi nobili obiettivi possono ottenere l’effetto esattamente opposto a quello desiderato.

Non di rado chi è nel torto vi permane quasi con irritante ostinazione perché chi gli parla, pur avendo ragione da vendere, pur essendo consapevole di come stanno di cosa e dei rischi che corre l’altro, fa un uso sbagliato di quello che sa, della verità che conosce.
Il modo sicuro, infatti, per impedire ogni cambiamento nella persona è sbatterle in faccia il suo peggio: «Tu sei un ladro!»; «Tu sei un meschino!»; «Tu sei sporco, viscido, cattivo etc.».

In questo modo non è mai cambiato nessuno perché la primissima reazione a frasi di questo tipo è la rabbia. “Solleticando” in questo modo l’orgoglio del proprio interlocutore non si ottiene altro che l’erezione di un muro ancora più solido e alto, trasformandosi da “salvatori” a “invasori” e “assedianti”.

Ma se questo è un modo sbagliato di usare la verità c’è ovviamente un modo giusto di farlo. La responsabilità di chi conosce la verità è grande ed il suo compito è quello di proporla come alternativa valida e, soprattutto, migliore della convinzione del proprio interlocutore: usare i fatti conosciuti come un’arma, come uno strumento per ferire l’altro ci trasforma in mercenari. Non basta “evitare” di ferire l’altro: bisogna anche fornire tutti gli strumenti necessari per permettergli di capire dov’è il problema e come risolverlo. Non si può liquidare il ladro dicendo: «Tu sei un ladro, sta attento a non rubare». Bisogna condurlo all’onestà e al rispetto delle proprietà altrui mostrandogli che la vita onesta è migliore, facendogli provare una vita che noi sappiamo benissimo essere più bella, ma che dal suo punto di vista è un terreno totalmente sconosciuto.

Solo così parlare con qualcuno può avere senso, altrimenti si sta solo perdendo tempo in due (nel migliore dei casi).

Fuggitivi

Share

Pretese

Per questo week-end mi trovo a casa di mio zio. Uno dei membri della sua famiglia è un simpatico cagnolino di nome Ciro.
È una bestiola molto educata che segue ovunque i suoi padroni e fa la festa anche ai visitatori.

Secondo i ritmi biologici dei cani corrisponde ad un sessantenne che soffre già dei primi acciacchi: non fa più le scale due gradini per volta ed ora il veterinario gli ha anche proibito di mangiare troppo. In effetti Ciro sembra il classico “pozzo senza fondo” perché, finita la sua porzione, fa il giro dei commensali con una espressione pietosa e battendo le zampe sulle loro gambe per avere un boccone dal piatto degli umani.

Povera bestia, non conosce il senso della misura e il significato delle conseguenze delle proprie pretese. Fra noi umani, questo comportamento lo chiamiamo “vizio“, un difetto, un’imperfezione del senso della misura. Noi che siamo uomini, a differenza del povero Ciro, conosciamo le conseguenze di ogni azione e di ogni comportamento; abbiamo un tipo di sensibilità “speciale” che scatta come un allarme ogni volta che facciamo qualcosa di viziato, anche quando ci raccontiamo che non vi sarebbe motivo “razionale” per trovarci qualcosa di male. Ciro è giustificato: è soltanto un cane, in fondo. Noi no, perché quella sensibilità speciale che abbiamo, e che ci distingue da lui, implica delle responsabilità dalle quali nessuno – nemmeno noi stessi; neanche una scusa che appaia razionale – può sollevarci.

Ciro

Share
Pagina 1 di 212