Il cielo sopra la visiera

Fa freddo, alzo il cappuccio e riparo il capo. È sera, la luce dei lampioni evidenzia le nuvolette di vapore che genero ad ogni respiro. Arrivo alla fermata del tram e aspetto. Mi guardo intorno, guardo dall’altra parte della strada. Gente come me che aspetta, anche se per andare nella direzione opposta, al di sotto dell’alto portico dell’edificio di fronte a me.

Improvvisamente una curiosità mi assale: sarà decorata la facciata di quel palazzo? Gli occhi si inclinano verso l’alto per superare l’altezza del portico ma incontrano la parte superiore del cappuccio. Mi rendo allora conto che la prospettiva avuta finora era bidimensionale o quasi. Vedevo solo ciò che si trovava al mio stesso livello senza rendermi conto di ciò che avevo sopra la testa: il cielo; le stelle; le decorazioni degli edifici.

La routine, le cattive idee, le ideologie, ci fanno credere che il mondo sia solo ciò che abbiamo sul nostro stesso piano. Sono come delle visiere sulla fronte, che limitano il campo a pochi metri dal suolo. Oltre la visiera, sopra di noi, la bellezza del cielo stellato. Basta un genuino desiderio di conoscere, un attimo di passione per l’infinito, e subito ci rendiamo conto della visiera che abbiamo addosso così, togliendola, possiamo apprezzare quello spettacolo che abbiamo sotto sopra il naso.

Cappello con visiera

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Ma a che serve?

In questi ultimi giorni si è parlato tanto di quella misura della velocità dei neutrini che ha fatto tanto scalpore. Non commento più di tanto perché una singola misura può voler dire tutto e niente, perché bisogna vedere se quanto osservato è esattamente la realtà o un miraggio dovuto ad una qualche svista. Ciò che piuttosto mi preme sottolineare è un comportamento dei giornalisti e della gran parte della gente comune: quando circolano di queste ricerche sensazionali – ma solo per gli addetti ai lavori – la prima domanda che viene fatta riguarda l’applicazione pratica. Tra le domande che si possono fare ad un ricercatore, all’indomani di una sua scoperta, “a che serve?” è certamente la peggiore.

Ci siamo veramente ridotti così in basso da dare valore solo a ciò che ha un riscontro pratico e un’utilità materiale?
Lo scopo della ricerca scientifica non è principalmente quello di migliorare la vita della gente. Quella è una conseguenza, un effetto che viene dopo – o addirittura molto dopo. Lo spirito scientifico è un discendente diretto dell’innata curiosità dell’uomo, del suo desiderio di comprendere il mondo e della corrispondente conoscibilità dell’Universo.
Il ricercatore è come un bambino che si è appena trasferito in una vecchia casa il cui solaio è stato chiuso a chiave da decenni. Non sarà curioso di sapere cosa c’è dietro quella porta chiusa? E, trovata la chiave, non andrà ad esplorare? Non è necessario che quella stanza abbia l’utilità pratica di dare posto ad altri mobili: potrebbe trovare fotografie antiche, oggetti curiosi e affascinanti anche se inutili perché obsoleti. “A cosa serve?” sarebbe quanto meno una domanda fuori luogo. Lo stesso discorso vale per gli esploratori e per chi cerca di battere i propri limiti sportivi: se Tizio o Caio vince la medaglia d’oro, a cosa ci serve? Intanto non ce lo chiediamo mai, in questi casi.

La mania materialista non dovrebbe prendere il sopravvento. Non è importante e degno di nota solo ciò che è utile o pratico nell’immediatezza di tutti i giorni. Non ha diritto di esistenza solo ciò che risponde ai nostri schemi; al contrario, devono essere i nostri schemi ad essere continuamente revisionati in base a ciò che esiste, anche se questa esistenza non determina alcuna apparente variazione nella nostra vita di tutti i giorni. In realtà la variazione c’è, per chi sa apprezzarne il valore. La conoscenza e la verità hanno il valore ed il potere di cambiarci fin nel cuore: chi ha il cuore trasformato dalla verità non può fare a meno di dire quello che sa, anche a costo di essere preso in giro, di non essere ascoltato e di veder dipinto chi lo ascolta come vittima di un imbroglio.

Asteroide teiera

Colgo l’occasione per comunicare – ancora una volta – che sono in partenza per un luogo che probabilmente non mi consente connessione ad internet e che quindi potrei non esserci nei prossimi 6 giorni.

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Scienza confutatoria?

Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione in questi ultimi anni ha favorito la diffusione degli argomenti scientifici alimentandone l’interesse anche fra i non addetti ai lavori. Sebbene da una parte ciò significhi un bene – perché il sapere è sempre una ricchezza – dall’altra, non essendoci stata – né prima, né durante -  alcuna educazione, si è finito con il travisare lo spirito scientifico.

Può darsi che nemmeno chi stia scrivendo sappia bene cosa sia il senso della scienza, fatto sta che quando un meccanismo funziona male, stride e il suo rumore dà fastidio.
Il lavoro di uno scienziato è simile a quello di un esploratore: vuole conoscere ciò che ancora non è conosciuto; comprendere ciò che  nessun uomo aveva compreso prima. Come l’esploratore affronta la tempesta per approdare alla spiaggia sconosciuta, così lo scienziato affronta le difficoltà sperimentali e si ingegna nel risolvere problemi per scoprire e capire ciò che sta al di là della frontiera del sapere umano.

Alcune persone hanno una maniera di concepire la scienza che, in qualche modo, la offende. Di fronte ad un evento nuovo, invece di approfondire ed esplorare, come l’apertura mentale alla base dello spirito scientifico vorrebbe, cercano di spiegarlo combinando uno o più eventi già noti avanzando ipotesi su ipotesi. È come se avessero paura della novità, di valicare quel confine che, secondo la leggenda, veniva definito “hic sunt leones”.
Probabilmente la paura c’è e, in nome di questa paura, usano barbaramente la scienza come accetta per abbattere i mostri. È la paura di ammettere di non sapere; il terrore che nel mondo ci sia ancora qualcosa che si può definire “mistero” (che parola rinnegata: la si trova solo nelle trasmissioni televisive basate sulla dietrologia). Tra loro e quelli che difendevano il sistema geocentrico con i circoli deferenti e gli epicicli non c’è differenza.

E dire che centinaia di migliaia di anni fa era scontato che il mondo fosse in gran parte mistero. Oggi lo è ancora, ma l’immenso oceano da scoprire fa paura e fa più comodo fare finta di trovarsi in una pozzanghera della quale si vedono bene i confini. Se i nostri antenati si fossero fermati a spiegare il Sole come “semplicemente” e “solamente” un grosso ceppo in fiamme, saremmo ancora come loro. Invece c’è stato chi è rimasto affascinato dal mistero e ha cercato di scoprirlo, di colmare quella sete inesauribile di sapere che, a causa del fraintendimento accennato all’inizio, viene oggi sempre più ignorata. Eppure, in un universo finito popolato da esseri finiti, questa sete infinita dovrebbe far riflettere.

Leones

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