Radiazioni, queste sconosciute

Qualcuno, già leggendo la prima parola del titolo, si sarà spaventato. Quanta paura, paura per cosa? Una cosa naturale, naturalissima, forse tra le responsabili della nostra stessa esistenza e presenza nell’universo. Ne siamo pervasi, ne siamo persino sorgenti. Un eccesso ci fa male – vero – come l’eccesso in qualsiasi cosa. Qualsiasi.

La differenza con tutte le altre cose è che non vediamo le radiazioni, o meglio, vediamo solo ciò che i nostri sensi riescono a vedere: la radiazione dal rosso al violetto. Eh, già! Si chiama radiazione nel visibile. Anche l’eccesso in quella fa male, con scottature e abbagli, ma fa meno paura perché è visibile, perché è conosciuta.
Chi conosce anche le altre radiazioni impara ad usarle per indagare il mondo, come se fossero i suoi nuovi occhi. C’è addirittura chi le usa per curare le persone. Eh, già! Un fascio di radiazioni ben collimato e ben selezionato in energia è più efficace di un bisturi e molto meno doloroso – anzi – per nulla doloroso. Per non parlare di radiografie, TAC, liquido di contrasto…

Nella natura, ogni animale sa che dietro un angolo inesplorato può nascondersi un predatore; che ogni cosa che non sia ordinaria è un potenziale pericolo. L’animale teme l’ignoto e lo evita. Anche noi, belli cresciuti e razionali, sentiamo l’istinto di temere ciò che non conosciamo. Un istinto che ci fa agire in due modi: o gli diamo retta ignorando l’analisi ragionevole e finendo per combattere l’ignoto; oppure filtriamo l’istinto con pensieri più sofisticati e tipici della natura umana, abbattendo il muro della novità e arricchendo la nostra conoscenza. Non è il caso di sottolineare che il vero progresso richiede di agire in quest’ultimo modo.

Radiografia neutroni

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Interpolazioni

Circa quattro anni fa durante una lezione di “Fisica nucleare con sonde elettromagnetiche” il docente mostrò agli studenti un grafico estratto da un articolo scientifico. Nel grafico stavano, evidentemente disposti su una retta, i dati sperimentali che quegli autori avevano raccolto.

Retta

I ricercatori, osservando i dati sperimentali, conclusero che la legge che legava le due quantità sugli assi era di tipo lineare.

y = 0.7·x – 5

Qualche tempo dopo questo esperimento la tecnologia fece alcuni passi avanti e fu possibile estendere le misure al di là dei  limiti precedenti. Con grande sorpresa si scoprì che i dati sperimentali, in realtà, non ne volevano proprio sapere di stare su una retta:

Saturazione

Quindi la legge che univa le due quantità sugli assi non era per niente lineare, ma era un cosiddetto “gradino smussato”. I punti misurati nel primo esperimento continuavano a stare (correttamente) sulla curva, ma la conclusione dedotta a partire da una limitata conoscenza della realtà era sbagliata.

Sono poche le cose che l’umanità conosce in modo esteso: più ci si spinge nell’infinitamente piccolo o nell’infinitamente grande, più si va idietro o avanti nel tempo, più ci si spinge verso le bassissime energie o altissime energie e meno ne sappiamo. Il ricercatore onesto sa che può pronunciarsi solo su ciò che conosce e limitarsi a formulare discutibilissime ipotesi per quanto riguarda tutto il resto; e questo “tutto il resto” e enormemente grande e altrettanto oscuro.
Spesso le ipotesi e le teorie degli scienziati si trasformano in verità assolute quando passano nella bocca dell’uomo comune, con la conseguenza che ci si ritrova a litigare su cose delle quali non si conosce nulla. Stiamo attenti a come interpoliamo la realtà: corriamo il rischio di fare clamorosi errori.

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Ma a che serve?

In questi ultimi giorni si è parlato tanto di quella misura della velocità dei neutrini che ha fatto tanto scalpore. Non commento più di tanto perché una singola misura può voler dire tutto e niente, perché bisogna vedere se quanto osservato è esattamente la realtà o un miraggio dovuto ad una qualche svista. Ciò che piuttosto mi preme sottolineare è un comportamento dei giornalisti e della gran parte della gente comune: quando circolano di queste ricerche sensazionali – ma solo per gli addetti ai lavori – la prima domanda che viene fatta riguarda l’applicazione pratica. Tra le domande che si possono fare ad un ricercatore, all’indomani di una sua scoperta, “a che serve?” è certamente la peggiore.

Ci siamo veramente ridotti così in basso da dare valore solo a ciò che ha un riscontro pratico e un’utilità materiale?
Lo scopo della ricerca scientifica non è principalmente quello di migliorare la vita della gente. Quella è una conseguenza, un effetto che viene dopo – o addirittura molto dopo. Lo spirito scientifico è un discendente diretto dell’innata curiosità dell’uomo, del suo desiderio di comprendere il mondo e della corrispondente conoscibilità dell’Universo.
Il ricercatore è come un bambino che si è appena trasferito in una vecchia casa il cui solaio è stato chiuso a chiave da decenni. Non sarà curioso di sapere cosa c’è dietro quella porta chiusa? E, trovata la chiave, non andrà ad esplorare? Non è necessario che quella stanza abbia l’utilità pratica di dare posto ad altri mobili: potrebbe trovare fotografie antiche, oggetti curiosi e affascinanti anche se inutili perché obsoleti. “A cosa serve?” sarebbe quanto meno una domanda fuori luogo. Lo stesso discorso vale per gli esploratori e per chi cerca di battere i propri limiti sportivi: se Tizio o Caio vince la medaglia d’oro, a cosa ci serve? Intanto non ce lo chiediamo mai, in questi casi.

La mania materialista non dovrebbe prendere il sopravvento. Non è importante e degno di nota solo ciò che è utile o pratico nell’immediatezza di tutti i giorni. Non ha diritto di esistenza solo ciò che risponde ai nostri schemi; al contrario, devono essere i nostri schemi ad essere continuamente revisionati in base a ciò che esiste, anche se questa esistenza non determina alcuna apparente variazione nella nostra vita di tutti i giorni. In realtà la variazione c’è, per chi sa apprezzarne il valore. La conoscenza e la verità hanno il valore ed il potere di cambiarci fin nel cuore: chi ha il cuore trasformato dalla verità non può fare a meno di dire quello che sa, anche a costo di essere preso in giro, di non essere ascoltato e di veder dipinto chi lo ascolta come vittima di un imbroglio.

Asteroide teiera

Colgo l’occasione per comunicare – ancora una volta – che sono in partenza per un luogo che probabilmente non mi consente connessione ad internet e che quindi potrei non esserci nei prossimi 6 giorni.

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Manifestato

Nel 1820, un fisico danese di nome Oersted (Ørsted) aveva sistemato sul tavolo sperimentale diversi strumenti elettrici per la lezione che avrebbe dovuto tenere ai suoi studenti. Casualmente, aveva con sé anche una bussola e, quando fece percorrere dalla corrente elettrica un conduttore che era sul tavolo, notò che l’ago si era spostato. Oersted scoprì così che un conduttore percorso da una corrente elettrica genera, nello spazio intorno a sé, un campo magnetico del tutto analogo a quello generato da una calamita.

Sono pochi, nella storia della fisica, i casi in cui il ricercatore ha scoperto qualcosa sapendo già cosa cercare. L’uomo non conosce che una minima parte dell’essenza stessa dell’Universo e dei suoi meccanismi, dei fenomeni che in esso avvengono. Compito del ricercatore è di scovarli, ma da solo non può farcela perché ha bisogno che questi si manifestino. Il teorico o la fortuna – come nel caso di Oersted - indirizzano a guardare in una qualche direzione, magari provocando la realtà con gli esperimenti o con osservazioni particolari, ma è la manifestazione di un fenomeno che ne segnala l’esistenza.

Manifestare significa “mostrare”, “rendere noto”. La natura si mostra ogni giorno, ma nella storia dell’uomo si sono manifestate anche idee e persone alcune delle quali hanno segnato la storia con la loro presenza a partire da un preciso istante. Rendendosi nota all’umanità, l’entità che si è manifestata cessa di essere un’ipotesi o una fantasia e diventa realtà tangibile e innegabile, un avvenimento che non può essere più cancellato.

Porta luce

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