Picco di Bragg

Il picco di bragg è la curva che si ottiene disegnando l’energia persa da una particella che penetra nella materia in funzione della profondità che essa raggiunge man mano che avanza. La forma di “picco” mostra che una particella rilascia la maggior parte della sua energia alla fine del percorso e questa importante caratteristica è sfruttata in medicina per curare i tumori senza operare, utilizzando le particelle come delle “bombe di profondità”.

Conoscere questo comportamento è importante anche dal punto di vista sperimentale perché permette di stabilire  lo spessore dei materiali da usare in base all’effetto che si vuole ottenere. Per fare un esempio, negli esperimenti sui quali ho lavorato c’era la difficoltà sperimentale di rivelare delle particelle con energia molto bassa, al di sotto di quella minima sufficiente affinché il rivelatore potesse reagire. Poiché queste particelle erano però degli isotopi instabili, riuscendo ad intrappolarle tutte da qualche parte si poteva attendere il loro decadimento e conseguentemente “contarle” in base al numero di decadimenti.
Per intrappolare le particelle è stato perciò usato uno spessore di materiale le cui dimensioni sono state stabilite proprio svolgendo simulazioni basate sul picco di Bragg.

È da diverse settimane che io e i miei superiori stiamo sbattendo su un problema: misurando tre volte la stessa cosa, a distanza di pochi anni l’una dall’altra, non si ottiene lo stesso risultato. La procedura è identica per tutte e tre le misure e i calcoli sono stati ricontrollati più volte. Nulla sembrava giustificare delle alterazioni così pesanti del risultato.
Alla fine però ne siamo venuti a capo: gli spessori usati, sebbene sempre sufficienti a fermare tutte le particelle (secondo le simulazioni), erano diversi e, contrariamente a quanto atteso, fermavano un numero maggiore di particelle se la loro dimensione era esageratamente maggiore di quella necessaria. La realtà, come sempre, batte lo scienziato uno a zero e proprio lì dove credeva di sapere ormai già tutto.

Picco di Bragg

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Ma a che serve?

In questi ultimi giorni si è parlato tanto di quella misura della velocità dei neutrini che ha fatto tanto scalpore. Non commento più di tanto perché una singola misura può voler dire tutto e niente, perché bisogna vedere se quanto osservato è esattamente la realtà o un miraggio dovuto ad una qualche svista. Ciò che piuttosto mi preme sottolineare è un comportamento dei giornalisti e della gran parte della gente comune: quando circolano di queste ricerche sensazionali – ma solo per gli addetti ai lavori – la prima domanda che viene fatta riguarda l’applicazione pratica. Tra le domande che si possono fare ad un ricercatore, all’indomani di una sua scoperta, “a che serve?” è certamente la peggiore.

Ci siamo veramente ridotti così in basso da dare valore solo a ciò che ha un riscontro pratico e un’utilità materiale?
Lo scopo della ricerca scientifica non è principalmente quello di migliorare la vita della gente. Quella è una conseguenza, un effetto che viene dopo – o addirittura molto dopo. Lo spirito scientifico è un discendente diretto dell’innata curiosità dell’uomo, del suo desiderio di comprendere il mondo e della corrispondente conoscibilità dell’Universo.
Il ricercatore è come un bambino che si è appena trasferito in una vecchia casa il cui solaio è stato chiuso a chiave da decenni. Non sarà curioso di sapere cosa c’è dietro quella porta chiusa? E, trovata la chiave, non andrà ad esplorare? Non è necessario che quella stanza abbia l’utilità pratica di dare posto ad altri mobili: potrebbe trovare fotografie antiche, oggetti curiosi e affascinanti anche se inutili perché obsoleti. “A cosa serve?” sarebbe quanto meno una domanda fuori luogo. Lo stesso discorso vale per gli esploratori e per chi cerca di battere i propri limiti sportivi: se Tizio o Caio vince la medaglia d’oro, a cosa ci serve? Intanto non ce lo chiediamo mai, in questi casi.

La mania materialista non dovrebbe prendere il sopravvento. Non è importante e degno di nota solo ciò che è utile o pratico nell’immediatezza di tutti i giorni. Non ha diritto di esistenza solo ciò che risponde ai nostri schemi; al contrario, devono essere i nostri schemi ad essere continuamente revisionati in base a ciò che esiste, anche se questa esistenza non determina alcuna apparente variazione nella nostra vita di tutti i giorni. In realtà la variazione c’è, per chi sa apprezzarne il valore. La conoscenza e la verità hanno il valore ed il potere di cambiarci fin nel cuore: chi ha il cuore trasformato dalla verità non può fare a meno di dire quello che sa, anche a costo di essere preso in giro, di non essere ascoltato e di veder dipinto chi lo ascolta come vittima di un imbroglio.

Asteroide teiera

Colgo l’occasione per comunicare – ancora una volta – che sono in partenza per un luogo che probabilmente non mi consente connessione ad internet e che quindi potrei non esserci nei prossimi 6 giorni.

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Sicurezza obbligatoria

Fare ricerca nell’ambito della fisica nucleare comporta delle speciali precauzioni per la sicurezza e la salute. Per esempio, i lavoratori classificati come “esposti” devono presentarsi ad una visita medica periodica. Se, dopo essere stati adeguatamente avvisati, si rifiutano di presentarsi alla visita medica commettono un reato punito dalla legge.

Lo stesso discorso vale per la sicurezza sugli autoveicoli: chi viene sorpreso privo delle cinture di sicurezza è severamente sanzionabile e rischia la sospensione della patente.
In generale, esistono leggi che obbligano le persone ad adottare comportamenti e strumenti che ne salvaguardino l’incolumità individuale.

Domanda: la legge serve soltanto a vivere tutti in pace regolando i rapporti reciproci oppure serve anche a prevenire ciò che è sbagliato e, in ultima analisi, nocivo per sé stessi e la propria umanità/dignità?
Se esiste una libertà di fare quel che si vuole finché non si nuoce agli altri, potrei benissimo scegliere di non proteggermi e di non prendere alcuna precauzione per salvaguardare la mia incolumità (ma fino a che punto sono autorizzato a scegliere per me stesso?). Al contrario, se la legge deve promuovere una certa condotta degna  di (=che si addice ad) un essere umano, impedendo i comportamenti scorretti, non c’è libertà individuale che tenga, neanche se c’è la scusante che non si nuoce ad anima viva.

Si può fare del male anche senza coinvolgere le altre persone; si può nuocere a sé stessi senza saperlo, certe volte anche credendo di non fare nulla di sbagliato; si può fare qualcosa di inappropriato senza rendersene conto. Se so che una determinata attività è incivile, scorretta, brutta, disumana o sbagliata non è forse meglio per tutti proibirla con lo strumento della legge? La mia libertà non finisce soltanto dove inizia quella degli altri ma anche dove diventa movente per compiere azioni non degne della mia umanità.

Elmetto di sicurezza

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Scienza confutatoria?

Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione in questi ultimi anni ha favorito la diffusione degli argomenti scientifici alimentandone l’interesse anche fra i non addetti ai lavori. Sebbene da una parte ciò significhi un bene – perché il sapere è sempre una ricchezza – dall’altra, non essendoci stata – né prima, né durante -  alcuna educazione, si è finito con il travisare lo spirito scientifico.

Può darsi che nemmeno chi stia scrivendo sappia bene cosa sia il senso della scienza, fatto sta che quando un meccanismo funziona male, stride e il suo rumore dà fastidio.
Il lavoro di uno scienziato è simile a quello di un esploratore: vuole conoscere ciò che ancora non è conosciuto; comprendere ciò che  nessun uomo aveva compreso prima. Come l’esploratore affronta la tempesta per approdare alla spiaggia sconosciuta, così lo scienziato affronta le difficoltà sperimentali e si ingegna nel risolvere problemi per scoprire e capire ciò che sta al di là della frontiera del sapere umano.

Alcune persone hanno una maniera di concepire la scienza che, in qualche modo, la offende. Di fronte ad un evento nuovo, invece di approfondire ed esplorare, come l’apertura mentale alla base dello spirito scientifico vorrebbe, cercano di spiegarlo combinando uno o più eventi già noti avanzando ipotesi su ipotesi. È come se avessero paura della novità, di valicare quel confine che, secondo la leggenda, veniva definito “hic sunt leones”.
Probabilmente la paura c’è e, in nome di questa paura, usano barbaramente la scienza come accetta per abbattere i mostri. È la paura di ammettere di non sapere; il terrore che nel mondo ci sia ancora qualcosa che si può definire “mistero” (che parola rinnegata: la si trova solo nelle trasmissioni televisive basate sulla dietrologia). Tra loro e quelli che difendevano il sistema geocentrico con i circoli deferenti e gli epicicli non c’è differenza.

E dire che centinaia di migliaia di anni fa era scontato che il mondo fosse in gran parte mistero. Oggi lo è ancora, ma l’immenso oceano da scoprire fa paura e fa più comodo fare finta di trovarsi in una pozzanghera della quale si vedono bene i confini. Se i nostri antenati si fossero fermati a spiegare il Sole come “semplicemente” e “solamente” un grosso ceppo in fiamme, saremmo ancora come loro. Invece c’è stato chi è rimasto affascinato dal mistero e ha cercato di scoprirlo, di colmare quella sete inesauribile di sapere che, a causa del fraintendimento accennato all’inizio, viene oggi sempre più ignorata. Eppure, in un universo finito popolato da esseri finiti, questa sete infinita dovrebbe far riflettere.

Leones

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Un mare senza confini

Un ricercatore è fatto per ri-cercare, per esplorare l’universo e le sue leggi. Ci sono però diverse degenerazioni nelle quali uno scienziato può precipitare e la più grave è quella che lo priva proprio della sua qualità principale: il cercare.

Ho visto spesso, soprattutto tra alcuni teorici, costruire modelli su modelli, teorie su teorie, spiegazioni su spiegazioni per placare la sete di significato che tutti abbiamo. Lo scienziato, più di altri, non riesce ad astenersi dal chiedere “perché?” al mondo che lo circonda e la sua inquietudine non conosce sollievo.
Questa inquietudine non deve conoscere sollievo, perché quando il proprio modello e le proprie teorie diventano troppo buone e troppo giuste si crede di aver finito. Quando si crede – a torto – di avere una spiegazione a tutto, complessa o semplice che sia, non c’è più nessun’altra spiegazione da cercare.

Ne ho visti troppi, dire che oramai restavano da chiarire solo i dettagli; che anche se il singolo non può dare una spiegazione a tutto, lo può fare la collettività scientifica perché ha specialisti in ogni disciplina; che in un futuro molto vicino nessuno dovrà più chiedersi “Perché?”.
No, non è così. Noi scienziati, noi l’umanità siamo un manipolo di ignoranti in un cosmo così tanto più grande di noi che ci interroga costantemente sui suoi “perché”.  Non vediamo che una goccia d’acqua in un immenso e profondo oceano. Siamo tutt’altro che arrivati a comprendere tutto. Ce lo dice la storia dei modelli scartati; ce lo dicono tutti coloro che in passato pensavano di essere arrivati e poi si sono dovuti ricredere; ce lo dice chi dopo un’intera vita non ha ancora smesso di imparare.

Le nostre spiegazioni alla realtà sono grossolane e ingenue, forse errate nonostante le prove – perché anche “le prove” possono essere mal interpretate e giustificare o confutare quel che vogliamo. Una cosa che non deve mai mancare a chi si occupa del sapere è l’umiltà; l’umiltà di riconoscersi naufrago in un mare del quale non si vedono i confini.

Tempesta

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Discipline

Un buon pensatore, si sa, non ha il cervello diviso in compartimenti stagni. È vero che il sapere umano è diviso in discipline sempre più specifiche, ma questa suddivisione è il risultato del desiderio di ordine che c’è nel cuore umano; un desiderio di perfezione che è sempre esistito. Che il sapere umano sia diviso in discipline non significa però che non debbano esserci punti di contatto o che non si debba poter armonizzare tutto entro un’unica visione.

Spesso si sente dire che certe discipline non dovrebbero esistere perché sarebbero in contraddizione con altre o, addirittura, inutili. Un poeta, per esempio, non può parlare anche lui di scienza? La disciplina del poeta bada più all’emozione mentre quella dello scienziato ai meccanismi naturali, ma ha senso dire che quanto scoperto dallo scienziato sia vero mentre il poeta mente sempre? No: quando il poeta parla della gioia di scoprire i meccanismi della natura o della passione di un uomo che passa tutta la notte aspettando quel risultato che ha cercato tutta la vita, non sta mentendo.

Non c’è infatti da stupirsi dell’esistenza di scienziati poeti o scienziati filosofi o scienziati con cariche religiose. Non c’è soprattutto da stupirsi se queste persone non vivevano alcuna contraddizione nelle loro attività; non avevano alcuna schizofrenia nel passare dall’una all’altra, non avevano argomenti da ignorare volutamente per evitare contrasti interiori. Solo una persona superficiale potrebbe averne o ipotizzarne la presenza in qualcuno.

Discipline diverse che badano ad aspetti differenti della realtà non solo hanno punti di contatto, ma possono anche essere entrambe contemporaneamente vere senza contraddirsi vicendevolmente. Vale per la scienza e la letteratura come per la filosofia e l’ingegneria, la storia e la meteorologia, la geografia e l’economia.
Chi cerca le contraddizioni o cerca di costruirle  non fa altro che privarsi da sé di quella porzione di conoscenza che altrimenti lo arricchirebbe e lo fa perché ha deciso che quella porzione di realtà non ha diritto di esistere. La realtà però non obbedisce all’imposizione del singolo né del gruppo: si impone su ciascuno di noi e l’unica cosa che possiamo fare è viverla, accettandola, o rifiutarla, chiudendoci dietro un’ideologia.

Scienza

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