Perché

Quando utilizzato in qualità di congiunzione subordinante causale, ha la funzione di legare una proposizione alla successiva, la quale ne specifica cause, spiegazioni, motivazioni.

Se mi fermo alla prima proposizione e non ho la pazienza di leggere il resto della frase – ciò che si trova oltre il “perché” - non solo mi resterà il dubbio sui moventi e sulle spiegazioni, ma cercherò anche di costruirmi “le mie” spiegazioni, tanto più distanti dalla realtà quanti più pregiudizi sono alla base del mio pensiero. Soprattutto se sto ascoltando/leggendo il ragionamento di una persona che ho sempre visto come “nemica”, sono capace di non polemizzare fraintendendo la prima parte della frase? Ho l’umiltà e la pazienza di valutare il ragionamento altrui solo dopo averlo ascoltato tutto e, soprattutto, compreso?

Come possiamo pretendere di avere ragione sulla nostra interpretazione di qualcosa se ci siamo fermati all’apparenza?
Per una persona sveglia e curiosa è naturale chiedersi “il perché” delle cose ma, se questa attività è viziata nella forma o nelle intenzioni, penalizza lo spirito di osservazione e le risposte saranno sbagliate: spesso essere critici e avventati, spezzettando sottilmente i ragionamenti altrui, non permette di comprendere e riflettere ma conduce a sterili ed infinite discussioni.
Punto interrogativo

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Storie di sacchetti e di scatole

Verso le sei del pomeriggio arriva una donna esile, quasi tremolante, dai movimenti lenti e ponderati come se ogni azione significasse un enorme sforzo per l’organismo. Sulla testa un foulard dal quale non sporgeva neanche un capello, anzi, era indossato in quel modo tipico di chi vuole nascondere la traccia più evidente della sua terribile malattia.
Si avvicina spingendo il carrello quasi vuoto. Nella tremolante mano destra un sacchetto giallo annodato. Lo allunga verso il volontario; prende il biglietto di ringraziamento e poi torna a spingere il carrello verso l’uscita. Oltrepassata la zona dell’ingresso, ingombrata dagli scatoloni, la donna si mette da parte a controllare lo scontrino minuziosamente: non devono esserci errori; lei non può permettersi errori. Mentre accade questo il mondo è fermo per quel volontario, immobile con ancora quel sacchetto fra le mani, a commuoversi per quanto stava osservando.

Un’ora dopo un’altra donna giunge nella zona dell’ingresso. Cammina veloce, ben vestita, sguardo alto o – per meglio dire – altezzoso. Il suo sguardo non si permette di incrociare quello del volontario e sfreccia oltre, quasi con stizza. Oltrepassato l’ingresso, dove il suo volto non può più essere visto da nessuno dei volontari, esclama: «Tanto se le tengono» (alludendo alle varie buste gialle da loro ricevute). La coscienza raramente la si prende in giro e per le cose cattive consiglia vergogna (e quella esclamazione tanto ricorda la favola “La volpe e l’uva” di Fedro).

Arriva il camion per ritirare le donazioni. L’autista scende con un carrellino sapendo che dovrà trasportare centinaia di chili dividendoli in più viaggi.
Accade però un imprevisto: i ragazzi si chiamano fra loro; spontaneamente formano una catena e si passano gli scatoloni l’un l’altro. In un attimo il camion è pieno.

Per queste scene realmente avvenute è superflua ogni ulteriore meditazione: ciascuno può trarre le dovute conclusioni senza aiuti.

Busta gialla

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Conseguenze lontane

Supponiamo che nel cuore della notte un vulcano in prossimità di un aeroporto erutti in modo spettacolare concludendo la sua attività prima dell’alba.

Le particelle di magma sparate dal vulcano precipitano sulla pista dell’aeroporto, il personale decide di chiuderlo fino alle 7:30 del mattino. Molti voli vengono allora ritardati ma, poiché il giorno dura sempre 24 ore, alcuni aerei vengono cancellati. I passeggeri dei voli cancellati vengono allora spostati su altri voli.

Supponiamo che ci siano dei passeggeri che per andare a Venezia vengono prima fatti passare da Roma. A causa dei ritardi anche il volo per Roma viene ritardato e la coincidenza per Venezia è persa. Allora l’azienda decide di modificare il volo successivo, sostituendo un aereo piccolo con uno più grosso che possa contenere anche i ritardatari. Ora però chi aveva prenotato i posti sull’aereo piccolo ha perso la sua prenotazione e si ritrova con biglietti che indicano un posto inesistente. Il pandemonio all’interno dell’aereo per Venezia è immaginabile.

A causa dei vari inconvenienti i passeggeri che, senza eruzione, sarebbero arrivati alle 9:00 giungono finalmente a Venezia alle 20:00. Poiché hanno questo non trascurabile ritardo sono costretti a noleggiare un veicolo perché non ci sono più corse di autobus per la loro successiva destinazione.

Un evento avvenuto localmente, in una certa città, ha prodotto effetti fino quasi all’altro capo della nazione. Quante volte non abbiamo immaginato le conseguenze di quel che facevamo o di quel che sceglievamo solo perché non vedevamo immediate controindicazioni? Spesso un giudizio superficiale – della serie “non fa male a nessuno” – non ci permette di vedere la vera natura delle cose, i “danni collaterali” che possono verificarsi anche a lungo termine. Un “salvagente” però c’è: quando qualcuno ci mette in guardia da cose apparentemente innocue. Non bisogna certo dare credito al primo che passa, ma almeno un po’ di apertura mentale ci vuole.

Fiera di Primierosaluti da Fiera di Primiero

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Ma a che serve?

In questi ultimi giorni si è parlato tanto di quella misura della velocità dei neutrini che ha fatto tanto scalpore. Non commento più di tanto perché una singola misura può voler dire tutto e niente, perché bisogna vedere se quanto osservato è esattamente la realtà o un miraggio dovuto ad una qualche svista. Ciò che piuttosto mi preme sottolineare è un comportamento dei giornalisti e della gran parte della gente comune: quando circolano di queste ricerche sensazionali – ma solo per gli addetti ai lavori – la prima domanda che viene fatta riguarda l’applicazione pratica. Tra le domande che si possono fare ad un ricercatore, all’indomani di una sua scoperta, “a che serve?” è certamente la peggiore.

Ci siamo veramente ridotti così in basso da dare valore solo a ciò che ha un riscontro pratico e un’utilità materiale?
Lo scopo della ricerca scientifica non è principalmente quello di migliorare la vita della gente. Quella è una conseguenza, un effetto che viene dopo – o addirittura molto dopo. Lo spirito scientifico è un discendente diretto dell’innata curiosità dell’uomo, del suo desiderio di comprendere il mondo e della corrispondente conoscibilità dell’Universo.
Il ricercatore è come un bambino che si è appena trasferito in una vecchia casa il cui solaio è stato chiuso a chiave da decenni. Non sarà curioso di sapere cosa c’è dietro quella porta chiusa? E, trovata la chiave, non andrà ad esplorare? Non è necessario che quella stanza abbia l’utilità pratica di dare posto ad altri mobili: potrebbe trovare fotografie antiche, oggetti curiosi e affascinanti anche se inutili perché obsoleti. “A cosa serve?” sarebbe quanto meno una domanda fuori luogo. Lo stesso discorso vale per gli esploratori e per chi cerca di battere i propri limiti sportivi: se Tizio o Caio vince la medaglia d’oro, a cosa ci serve? Intanto non ce lo chiediamo mai, in questi casi.

La mania materialista non dovrebbe prendere il sopravvento. Non è importante e degno di nota solo ciò che è utile o pratico nell’immediatezza di tutti i giorni. Non ha diritto di esistenza solo ciò che risponde ai nostri schemi; al contrario, devono essere i nostri schemi ad essere continuamente revisionati in base a ciò che esiste, anche se questa esistenza non determina alcuna apparente variazione nella nostra vita di tutti i giorni. In realtà la variazione c’è, per chi sa apprezzarne il valore. La conoscenza e la verità hanno il valore ed il potere di cambiarci fin nel cuore: chi ha il cuore trasformato dalla verità non può fare a meno di dire quello che sa, anche a costo di essere preso in giro, di non essere ascoltato e di veder dipinto chi lo ascolta come vittima di un imbroglio.

Asteroide teiera

Colgo l’occasione per comunicare – ancora una volta – che sono in partenza per un luogo che probabilmente non mi consente connessione ad internet e che quindi potrei non esserci nei prossimi 6 giorni.

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Il gioco degli isolotti

Da qualche mese, giusto per distrarmi dieci minuti dallo stress giornaliero, ho aperto un account su un gioco online che chiamo scherzosamente “il gioco degli isolotti”. Sostanzialmente il gioco permette di costruirsi la propria città con le proprie colonie sparse su vari isolotti ed amministrarne lo sviluppo investendo in settori come la ricerca, il commercio, la soddisfazione della popolazione, la cultura, la difesa etc. La tempistica del gioco è tale che può benissimo essere gestito accedendo una volta al giorno, quel tanto che serve per fare il punto della situazione e predisporre nuovi provvedimenti.

Pur essendo dislocati su degli isolotti non si è per nulla isolati. Altri giocatori hanno le loro città sparse tutto intorno e l’interazione con loro può essere di molti tipi: si può fare del commercio scambiandosi risorse; ci si può scambiare beni culturali da introdurre nei rispettivi musei; si può essere amici, condividendo i risultati delle ricerche etc.
Purtroppo esiste anche un altro modo di interagire, ossia la guerra. Ieri notte la mia città è stata attaccata da un altro giocatore: ho perso 43 uomini ma alla fine l’attaccante si è dovuto ritirare perché non gli erano rimasti più soldati.

Quando il giorno dopo ho scoperto l’accaduto avrei potuto seguire l’istinto  e rispondere mandando il mio esercito all’attacco contro quel fellone per fargliela pagare. Aprii invece il pannello della diplomazia e gli scrissi un messaggio: «Mi spiace che tu abbia perso i tuoi soldati. Se ti va possiamo essere amici». Quella proposta sconvolse non poco quel giocatore: abituato com’era ad un modo di giocare dove vinceva il più forte e il più furbo non si aspettava certo una reazione del genere. Successivamente gli spiegai che la mia politica era il commercio e l’amicizia, mai la guerra se non per difesa.
Ora siamo amici e ritengo improbabile che mi attacchi ancora ma spero che questa vicenda abbia cambiato il suo sguardo verso gli altri giocatori: vederli non più come città da saccheggiare ma come persone vere – e fragili – che si trovano dall’altra parte dello schermo.

Lascio trarre al lettore la morale di questa storia. Per quanto mi riguarda, spero che questa vicenda si ripeta anche e soprattutto al di là del gioco.

Ikariam

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Bello ma velenoso

Ci sono tanti animali e piante che hanno dei colori sgargianti e disegni incredibili. Rispetto ad altre creature che cercano di mimetizzarsi o che non hanno proprio voglia di attirare i predatori risaltano subito per la loro bellezza.
Nella natura però i colori accesi e i disegni appariscenti significano “veleno”: le bande gialle e nere della vespa mettono in guardia dal pungiglione; certe bacche rosse evidenziano la loro tossicità; alcuni molluschi marini mettono in guardia da aculei urticanti e cellule tossiche.

Noi siamo affascinati dai colori appariscenti, dai contrasti evidenti, come siamo affascinati da tutto ciò che ci sembra piacevole, comodo o conveniente. Certi comportamenti discutibili li compiamo per il fascino che inizialmente essi esercitano su di noi. Evitare il peggio è spesso un saper guardare oltre la superficie accattivante e scorgere la sostanza delle nostre azioni.

Mollusco velenoso

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Semaforo lampeggiante

A pochi metri da casa mia c’è un incrocio. È il punto di intersezione tra una strada larga e poco trafficata ed una strada più stretta ma molto più trafficata perciò è un incrocio un po’ sofferto: il semaforo ha sempre i tempi sballati così le autovetture sulla strada stretta ma trafficata si accumulano spesso in lunghe file mentre per la strada larga non passa neanche la polvere sollevata dal vento. Questa situazione, oltre ad aumentare le code, spinge anche alcuni automobilisti a scavalcare la fila invadendo la corsia del senso opposto di marcia e, infine, a passare con il rosso.

Una persona a me molto cara che fu un educatore nella mia adolescenza, quelle volte che mi riaccompagnava a casa, quando vedeva che quel semaforo era lampeggiante o spento diceva: «Di male in meglio». In effetti un semaforo scalibrato e generatore di traffico è una bella grana un po’ per tutti, perciò ci si sente molto più liberi e felici quando siamo noi a scegliere il momento di attraversare l’incrocio. Questa libertà si paga però a caro prezzo.

Come ogni mattina, oggi camminavo con il mio libro aperto fra le mani verso quell’incrocio, dove il semaforo è lampeggiante da circa una settimana. Girato l’angolo mi accorgo di due autovetture ferme proprio nel centro dell’incrocio: praticamente un’auto ad alta velocità che proveniva dalla strada larga ha centrato la fiancata di un’altra macchina che veniva – da destra – dalla strada stretta.
Ecco fatto: traffico al quadrato.
E non è la prima volta: è successo di automobili che sono finite completamente fuori strada rovinando addosso ad altri veicoli parcheggiati o penetrando all’interno dei cortili dei condomini limitrofi.

Noi siamo convinti che il “fastidio” che deriva da una norma, un precetto, un’imposizione, una limitazione della nostra libertà non valga il beneficio della nostra sicurezza, della nostra integrità e, in ultima analisi, del nostro bene. Anzi vogliamo sentirci più liberi e presumiamo di essere così bravi, giudiziosi e coscienziosi da essere sempre in grado di usare tutte le nostre libertà senza mai produrre conseguenze, da saper badare benissimo da soli al nostro bene (magari pensando che il nostro bene sia bruciare un semaforo per arrivare in orario piuttosto che salvaguardare la nostra stessa vita).
C’è anche chi si crede così in gamba da essere libero di passare con il rosso – “finché non mi vede il vigile passo, tanto questo rosso non lo condivido” – almeno finché non viene lo sbaglio fatale. Gli avvertimenti ci sono, siamo liberi di ignorarli contro il nostro bene.
È ovvio che una regola applicata sterilmente, come il semaforo che non fa bene il suo lavoro, ci faccia supporre che la regola (o il suggerimento di comportamento) non sia valida o sia insensata, ma ciò che dovremmo contestare non è il principio della regola (la presenza del semaforo) quanto la sua applicazione non ragionevole perché tanto è eccessiva la libertà data dal semaforo spento, quanto è opprimente l’imposizione non ragionata di un segnale rosso inutile.

Semaforo lampeggiante

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Deformazione professionale

Recenti studi neuropsichiatrici hanno evidenziato che utilizzare uno strumento modifica il cervello. Riflettendoci è una cosa quasi scontata: man mano che uso uno strumento “imparo” ad averne maggiore dimestichezza adattandomi con plasticità. In fondo, modi di dire come “deformazione professionale” descrivono bene questi effetti. Esiste però un limite oltre il quale questa “deformazione” diventa nociva?

Uno strumento che è ormai diffuso in ogni casa è la televisione. La televisione ci ha abituati ad essere spettatori, ad un rapporto privo di interazione con quanto ci viene proposto, ma ci ha anche abituati allo zapping: se un programma non mi piace, cambio canale; se non so cosa guardare, cambio canale. La cosa è ancora più marcata quando l’offerta di canali si aggira attorno al centinaio.
La conclusione di queste abitudini, quando non riusciamo a separare la vita davanti allo schermo da quella a contatto con il resto del mondo, è che pretendiamo di poter fare zapping anche con tutto ciò sul quale pensiamo di avere il benché minimo potere. Ci scegliamo gli amori, ci scegliamo la carriera, ci scegliamo il cibo, il momento per uscire, le attività della giornata, il valore stesso della propria esistenza e di quella degli altri. È così almeno finché non sopraggiunge un “imprevisto” che riporta la realtà ad imporsi sui nostri capricci.

Altro strumento è Facebook. Mi è capitato in questi ultimi giorni di sperimentare “l’effetto Facebook” cioè la trasformazione dei propri contatti e amici in una facciata web, con annessa matrice di pixel (fotografia) ed insieme di caratteri (contenuto dello stato). Quando smettiamo di vedere la persona, oltre il dato numerico che ci viene presentato attraverso la pagina, il nostro comportamento degenera rapidamente: una pagina web si può insultare, offendere e ridicolizzare quanto vogliamo; una persona che abbiamo davanti e ci guarda negli occhi no, specie se è un “amico”. Quanto più l’ideologia scende al livello della tifoseria da stadio, tanto più sostituirò la stima personale ed il rispetto con le loro antitesi.
Tutto ciò non è prerogativa di Facebook: succede praticamente con qualsiasi cosa della quale, per un motivo o per un altro, perdiamo il valore.

La nostra riflessione non deve però condurci a proibire la televisione o Facebook, come per soddisfare una qualche legge del taglione, ma deve produrre un’attenzione particolare, un costante richiamo al valore delle proprie amicizie e ad un corretto rapporto con il reale.

 

Internet cane

"su internet nessuno sa che sei un cane"

 

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Per quel piccolo neo

«Mamma, io a scuola non ci vado»
«Che cosa?!?! … Avanti, non fare i capricci e preparati»
«NO! Non è un capriccio, mamma: io ragiono con la mia testa e l’educazione che voglio me la scelgo io»
«Non è un motivo per non andare. Preparati se non vuoi restare ignorante come un somaro»
«Non insultare la mia scelta. Io non sarò un somaro. E poi lo sappiamo cosa fanno gli insegnanti…»
«Sentiamo. Cosa fanno?»
«Gli insegnanti sottopongono gli studenti ad indicibili derisioni, picchiano coloro che dovrebbero istruire e spesso ne abusano sessualmente. Non permetto a queste persone di pretendere di insegnarmi alcunché»
«La verità è che non vuoi studiare perché è faticoso. Ora fila a scuola o te le suono di santa ragione.»

Siamo sempre pronti a lamentarci, a puntare il dito e concentrare la nostra attenzione sul peggio. Andiamo a cercare anche il più piccolo neo e quando lo troviamo generalizziamo subito classificando un’intera categoria in base a quel solo piccolo neo, magari ingigantendolo diverse volte, fino a farlo diventare il marchio distintivo di quelle persone che non ci vanno a genio. Non è che lo facciamo per amore della verità, perché delle persone che ci piacciono non amiamo perdere tempo nel cercare macchie e scheletri nell’armadio. Lo facciamo perché, per altri motivi, abbiamo bisogno del torto nelle ragioni altrui.
Quando qualcuno dice o fa delle cose per noi sconvenienti, soprattutto se in cuor nostro sappiamo essere vere e/o giuste, allora cerchiamo scuse su scuse per giustificare innanzitutto noi stessi rendendo ingiustificabile quel qualcuno. Eppure questo comportamento è un chiudere gli occhi di fronte all’immenso bene che fanno quelle persone delle quali cerchiamo gli orrori, è un “tagliare fuori” una parte della realtà per i propri fini. In parole povere, un’ideologia.

Maestra

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La vita non è un talk-show

«Il tuo ragionamento non regge, a prescindere da chi tu sia: stai sostenendo qualcosa che non mi piace e non posso darti ragione.  Ti devo smontare pezzo per pezzo, anche a costo di negare l’evidenza e di discutere sull’indiscutibile. Cambierò il significato dei termini, ti dimostrerò con sofismi che uno sbarbatello ha più esperienza di un novantenne cosicché tu non potrai far valere la tua esperienza su di me.
Rigetterò le prove che mi porterai, troverò il modo di farle diventare “non prove” e così ogni tua conclusione mancherà di fondamento. Non mi fido di te, pur di motivare la mia sfiducia sono disposto a canzonare il mio popolo, la mia gente, la mia nazione.
Se gli argomenti razionali non mi basteranno comincerò a smontare te, prima ancora delle tue idee, così qualsiasi cosa dirai sarà di scarso valore a prescindere dal contenuto. E se te ne accorgerai, io negherò così risulterai farneticante. Ti farò sentire sotto processo, sotto esame, sotto accusa così perderai il controllo e sarai più vulnerabile. Ti canzonerò facendo anche finta di darti ragione per poi riversarti addosso tutte le conseguenze più cupe che riesco ad immaginare. Farò leva sui sentimenti e sulle sensazioni affinché, in un momento di distrazione, il tuo ragionamento sia offuscato. Ti tenderò dei tranelli così ti tradirai e potrò penetrare le tue difese. E se non riuscirò da solo chiamerò altri ad aiutarmi.»

Distruggere, distruggere e ancora distruggere, mai costruire. Se sono queste le premesse di un dialogo, di un dibattito, di uno scambio d’opinioni – o in qualsiasi modo lo si voglia chiamare – non c’è speranza: meglio tacere fin dall’inizio. Quando si è veramente aperti al dialogo e si vuole conversare con qualcuno, si propongono costruttivamente argomenti, non si cerca di “abbattere” l’altro. Poveri noi, che facciamo dei nostri rapporti con gli altri, un intervento ad un talk-show.

Monoscopio

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