Il cuore di Ettore

Quando suonò il campanello, l’anziana signora si tolse il plaid che aveva sulle gambe, posò il libriccino che stava leggendo e si alzò con leggera fatica per andare ad aprire la porta. Con voce squillante, la ragazza che stava sul pianerottolo salutò la donna: «Ciao nonna! Come stai oggi?». La giovane entrò dirompente come una folata di vento quasi saltellando. «Come sempre» rispose l’anziana facendo spallucce, poco prima di richiudere la porta. «Ma nonna! Non puoi stare nella penombra anche oggi che fuori c’è una bellissima giornata.. – e, gettando lo sguardo all’angolo del salone, la giovane proseguì – Vedi? Anche Ettore è tutto triste». Ettore era il pappagallino della signora: le era stato regalato dalla nipote per tenerle compagnia ma non si era rivelato un grande intrattenimento per i pochi striduli che ogni tanto emetteva. «Visto che ora ci sono io a tenerti compagnia, Ettore si fa una vacanza sul terrazzo e prende un po’ di sole mentre qui apriamo un po’ di finestre per cambiare l’aria» disse la ragazza come per impartire un ordine a sé stessa. Prese il volatile con tutta la gabbietta e lo poggiò su una vecchia sedia che era sul terrazzo. L’anziana nonnina tollerava l’esuberanza della ragazza, anche perché ne apprezzava le cure e la compagnia, perciò quella volta le lasciò fare.

Passarono entrambe delle piacevoli ore fino al momento in cui la ragazza si avviò verso casa. Quella sera, mentre la giovane stava cenando, il telefono squillò. «Chi sarà mai a quest’ora – disse stupita la giovane mentre si avvicinava all’apparecchio – Pronto?». «Ciao tesoro, sono la nonna» – rispose la voce dall’altra parte. A sentire il tono insolito della voce la ragazza si preoccupò «Cos’è successo, nonna?» – chiese allora. «Non credo sia grave – la rassicurò la donna – ma Ettore…». «Sta male? Che ha?» – chiedeva preoccupata la ragazza. «Nulla di particolare – proseguiva la signora – è… è solo “diverso”. Fischia, canta, fa rumore, saltella… Lo senti come canta? Non aveva mai fatto dei versi così belli»

Forse realmente quella povera bestiola non era più la stessa: quelle poche ore trascorse fuori, ascoltando il canto del merlo e dell’usignolo, vedendo il sole che rendeva brillante ogni cosa, assaporando lo spettacolo che aveva davanti, avevano impressionato il piccolo volatile. Pappagallo com’era non poté fare altro che cercare di replicare felicemente e come meglio poteva quella bellezza che aveva ascoltato e visto, della quale aveva già nostalgia.

Pappagallo nella gabbia

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Il tramonto dei sognatori

Ieri a cena il discorso è caduto su alcune attività commerciali della mia città. Un grande rivenditore di elettrodomestici ha chiuso i battenti. Ci avevo comprato un glorioso videoregistratore Minerva a sei testine, la macchina del gelato tuttora utilizzata – slurp! – ed un piccolo registratore per le conferenze. Ora quello stabile è triste: luci spente, ambienti vuoti, saracinesche abbassate.
Qualche anno fa anche la cartoleria che avevo sotto casa ha chiuso. Era una risorsa per tutto il quartiere, ed anche oltre – data la sua vicinanza al complesso che ospita asilo, elementari e medie della zona – considerando che l’equivalente più vicino dista quasi un chilometro. Ora non saprei dire bene cosa ci sia o ci sarà in quegli stessi locali: mesi fa era un negozio di moda, fallito anch’esso – al quartiere serve la cartoleria, è difficile da capire? – e sostituito da un fruttivendolo che vedo sempre a corto di clienti.

La stessa brutta sensazione degli esempi precedenti la provo anche quando ripenso allo Space Shuttle, la gloriosa navicella riutilizzabile della NASA che è andata in pensione senza lasciare eredi. Il cosmo, l’esplorazione, la tipica voglia umana di andare dove nessun uomo è mai giunto prima, sono inflazionati e pertanto chiudono i battenti. Non interessa più.
Secondo me questo la dice lunga su un’umanità che perde pian piano la sua essenza confondendosi nel mare di distrazioni e svaghi che una certa mondanità offre. A che serve sognare di esplorare Marte se puoi sollazzarti con i giochini dell’Iphone? A che giova immaginare missioni verso l’ignoto quando puoi trascorrere il pomeriggio guardando i messaggi di stato dei tuoi contatti su Facebook? Perché sfidare sé stessi nell’escogitare il modo di realizzare grandi sogni quando la sera si ha il divertimento dei giochi erotici?

Dov’è finito l’uomo esploratore che sfidava la morte per raggiungere il polo? Dove sono i John Glenn, gli Auguste Piccard, i Cristoforo Colombo? Siamo sicuri che sia più bello e più degno per noi esseri umani appiattirci in una dimensione di pigrizie soddisfatte dalla tecnologia e di orizzonti limitati a poche avventure casalinghe?
No; mi spiace. Io non riesco a rinnegare la mia natura di sognatore, esploratore, avventuriero. Apparirò come uno che butta il suo tempo in fantasticherie, come un giovanotto avventato, come uno che non ha la testa sulle spalle, ma ritengo che serva anche questo a rendere doverosa giustizia all’umanità che c’è in me, colmando il desiderio di infinito che ho nel cuore.

Esplorazione

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Su per le montagne

Oggi mi hanno portato a visitare da vicino le montagne, percorrendo sentieri che ora si arrampicavano su per il versante, ora scendevano rapidamente. Tutto attorno lo spettacolo delle sommità rocciose e ripidissime che producevano curiosi effetti di luci ed ombre. In alcuni punti i ruscelli formavano cascate tra gli alberi del bosco mentre sulle radure pascolava ogni sorta di bestia erbivora addomesticata dall’uomo.
Io ero partito con due desideri: trovare un fossile o una conchiglia preistorica – che si racconta siano frequenti da quelle parti – e riuscire a fotografare uno degli animali del bosco, magari qualche scoiattolo o uno stambecco o un camoscio.

Il gruppo cammina rapidamente, ci sono gli orari da rispettare e la lentezza può comportare una situazione di pericolo – trovarsi la notte in giro per le montagne può non essere piacevole. Buona parte dei miei compagni di avventura chiacchierano, ridono, fanno rumore.
Ho percorso così velocemente il sentiero che non ho avuto il tempo di analizzare ogni singola pietra alla ricerca di fossili; non ho neanche potuto andare dove i cedimenti avevano sicuramente fatto affiorare qualcosa. Il rumore della presenza umana ha fatto fuggire gli animali che, tenendosi a debita distanza, sono sfuggiti al mio sguardo.

Torno in albergo con la bellezza dei panorami e delle montagne nel cuore. So però che c’è un di più, qualcosa che non è stato possibile apprezzare per una maniera un po’ frettolosa e chiassosa di fare. Molte volte ci sfugge “il meglio” perché il metodo che utilizziamo per affrontare la vita, i rapporti interpersonali, l’osservazione del mondo circostante, è frettoloso e superficiale. Magari qualcuno ci racconta di una bellezza e vogliamo anche cercarla ma poi ci buttiamo, ci improvvisiamo esperti, e ci facciamo sfuggire proprio quella bellezza che stavamo cercando. Una delusione che per qualcuno può significare anche smettere di cercare, auto-convincersi che non c’è altra bellezza se non quella superficiale.
Io spero di tornare in questi luoghi, accompagnato da qualcuno che mi sappia indicare dove trovare i fossili e come non fare scappare gli animali. Allo stesso modo, certa bellezza si può scoprire con l’amicizia di una guida, di qualcuno che ha già visto quella meraviglia alla quale ci conduce.

Pale di San Martino

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Salsicce ripiene

Mi dispiace per i vegetariani e i vegani – che rispetto, pur non condividendo l’accanimento contro indifese creature della flora – ma io mangio carne, qualche volta. Devo dire però che per il 90% delle tipologie di carne che sono vendute in giro non provo grande interesse né stravedo per il loro gusto. Anzi, fino a qualche anno fa la percentuale era del 100% e ne mangiavo solo perché me ne mettevano sul piatto.
In effetti la mia conoscenza della carne era limitata all’alimento in sé e per sé, il mio orizzonte era ristretto a due o tre piatti tanto saporiti quanto potevano essere elaborati: una fettina o una salsiccetta di pura carne cotta e condita con olio; tutto qui.
Mi ero abituato a quel gusto, pensavo che il sapore di quei piatti fosse quello e basta, uno come tanti, qualcosa che si poteva gustare – certo – ma fino ad un certo punto.

Poi la mia ragazza cominciò ad invitarmi al pranzo domenicale nella casa di campagna. Fu lì che per la prima volta nella mia vita assaggiai il prodotto di un vero barbecue.
Non si trattava delle solite “fettine” alle quali ero abituato: c’erano involtini, spiedini e salsicce; tutti rigorosamente ripieni di verdure e formaggi. Ogni boccone non faceva entrare nella bocca solo la carne, ma anche peperoni, pomodori, melanzane, cipolla, formaggio e spezie di ogni tipo. Anche la cottura, sui carboni ardenti e con frequenti annaffiature di vino, aveva fatto la sua parte rendendo tutto molto più tenero e saporito.
Per me è stato veramente scoprire un altro mondo, decine di volte migliore rispetto al precedente. Ora, quando mi ritrovo davanti i miei vecchi piatti, so che c’è ben altro, ben di più, e non posso più pensare di avere innanzi già il massimo, di avere già il meglio. Ora che ho sperimentato un “di più” non posso tornare indietro.

Ecco – sperando di non aver istigato strani pensieri – conosco tanta, tantissima gente, che ha vissuto un’esperienza come la mia ma centinaia di volte più intensa, non relativamente ai gusti gastronomici, ma riguardo al loro stesso stile di vita, la loro esistenza intera. Noi crediamo di goderci già il godibile, di conoscere già cosa ci piace e cosa è bene per noi, facendo un elenco di piaceri vari e assortiti, sensazioni effimere che, una volta esaurite, ci lasciano desiderosi come prima (e anche la carne della metafora appartiene al gruppo, in un certo senso). Non ci rendiamo però conto – o meglio, ce ne rendiamo conto ma siamo pronti a soffocare l’intuizione - che desideriamo ben altro. Capirlo significherebbe ammettere che questi “piaceri” sono poco utili e che abbiamo sprecato il tempo investito su di essi, perché un “di più” c’è, è proprio ciò che il nostro cuore domanda e, una volta scoperto, non si torna più indietro.

Barbecue

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Dibattito

Ieri pomeriggio sono stato ad una riunione non ufficiale del personale “non strutturato”, cioè di coloro che prestano servizio all’interno della struttura ma in condizioni di precariato o in qualità di apprendisti o studenti. L’argomento della discussione verte sulla disparità di trattamento tra il personale strutturato e il non strutturato: il personale non strutturato sarebbe visto come una risorsa solo quando ci sono attività che il personale strutturato non fa perché non sarebbe “previsto dal contratto”; al contrario, in altre situazioni il personale non strutturato non disporrebbe dei vantaggi del personale strutturato.

La polemica si accende subito tra chi è indispettito dalla situazione e chi, invece, vede la propria presenza non strutturata come una fortuna, nel senso di avere la possibilità di studiare e di fare esperienza in un luogo lavorativo come il nostro, che permette di sviluppare le proprie potenzialità.
Dopo i primi interventi, nei quali ciascuno esprimeva il proprio punto di vista, tutti gli altri interventi a seguire sono stati lievemente diversi. Ho trovato interessante notare che il 90% degli interventi del dibattito esordivano con l’esplicito intento di definire chiaramente la questione, di mettere dei punti fissi, di trovare un punto di vista oggettivo.

Nel cuore dell’uomo c’è una forte, ineliminabile, connaturata esigenza di oggettività e di assoluto. Può questo desiderio essere soddisfatto? E se non può esserlo perché allora esiste? Tutti i nostri desideri, che condizionano le nostre azioni, hanno una ragione d’essere, non sono lì a caso: ci orientano verso ciò che è bene per noi, ci spingono verso obiettivi che tutto sommato devono esistere, altrimenti non avrebbe senso desiderarli.

Dibattito

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Infinito

La mia colazione, questa mattina, ha previsto una bella fetta di pandoro da bagnare nel latte caldo: una tra le colazioni che considero le più deliziose. Anche se non sembra – per via del ridotto peso specifico – il pandoro è un alimento abbastanza grasso ed energetico, perciò bisogna andarci piano e limitare le quantità. L’effetto collaterale è che il piacere di una colazione così buona dura di meno perché c’è meno roba buona da mangiare.

Mentre mangiavo pensavo infatti che nel mondo sono poche, pochissime, – e comunque niente di materiale, misurabile, tangibile – le cose che garantiscono una soddisfazione permanente. Terminata la mia fetta di pandoro mi sono detto: “Ecco. È stato bello, mi è piaciuto, ma è già finito”. Eppure mi ha fatto riflettere l’aver detto “È già finito” perché in qualche modo evidenzia il desiderio inconscio di qualcosa che non si esaurisca in pochi bocconi – anzi, che non si esaurisca affatto. Non è un semplice senso di insoddisfazione dovuto al fatto che non mi sia riempito lo stomaco fino a scoppiare, perché una colazione abbondante riesce bene a saziarmi. È qualcosa che va oltre gli istinti della fame e della sazietà.

Nell’uomo, c’è una specie di “buco nero per le cose belle e positive”, ciò che lo spinge ad esplorare, a studiare, a inventare, a creare. Ma questo vuoto è lo stesso che, a volte, si cerca di riempire con tutte quelle cose che, essendo limitate, non ci riescono mai. Potrei ad esempio comprare un quintale di pandoro e fare una colazione perpetua, ma è chiaro che, se sopravvivo, prima o poi finirà e sarà di nuovo come all’inizio – se non peggio, a causa delle conseguenze. E questo modo di fare lo praticano in tanti e, spesso, si accorgono troppo tardi di aver sprecato il proprio tempo in una esagerazione.

È bizzarro però che degli esseri limitati, abituati alla vita in un mondo di oggetti limitati e con meccanismi biologici sviluppati appositamente per agire entro tutti questi limiti, abbiano un desiderio di qualcosa che sia privo di limiti. Potremmo chiamarlo “desiderio di infinito” ma l’infinito esiste solo nella mente di chi fa matematica perché, nell’universo, di illimitato non c’è nulla. Persino i buchi neri che osservano gli astronomi hanno una massa finita e una vita finita; persino l’universo ce l’ha. Questo “desiderio di infinito” non è di questo mondo, non è di questa dimensione, di questo spazio-tempo.

Infinito

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Soffione

Proprio accanto all’ingresso dei laboratori c’è un’aiuola dove è cresciuto un soffione.
Quando ero bambino si diceva tra compagnetti di scuola che quegli strani batuffoli pelosi avevano un potere speciale. Se riuscivi a “catturarne” uno potevi sussurrargli un tuo desiderio e lui lo avrebbe portato volando a Chi lo avrebbe realizzato.
Se dopo avergli sussurrato il desiderio, quel batuffolo cadeva appesantito verso il basso, voleva dire che il desiderio espresso non era buono, oppure che il batuffolo aveva già con sé il desiderio di qualcun altro.

Erano oggetti misteriosi che non sapevo nemmeno da dove venissero ma che, in virtù di queste voci, diventavano rari e ricercati come se valessero milioni. Ora so che quegli oggetti altro non erano che il rimasuglio di semi del soffione.

Ne ho raccolti due o tre per vedere se riesco a far crescere una piantina in vaso. So bene cosa verrà fuori da quei semi, ma questo non ferma la mia curiosità di veder crescere la piantina, né è sufficiente ad impedirmi di guardare a quei bizzarri semi come ad un potenziale soffione che potrei avere a casa.

Se il seme di una banale pianta, indistinguibile da tante altre della stessa specie, suscita tali pensieri e sentimenti, pensiamo a quali pensieri e sentimenti dovrebbero suscitare i nostri simili, fra loro diversi e ciascuno di essi speciale nella mente e nel corpo.

soffione

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