Picco di Bragg

Il picco di bragg è la curva che si ottiene disegnando l’energia persa da una particella che penetra nella materia in funzione della profondità che essa raggiunge man mano che avanza. La forma di “picco” mostra che una particella rilascia la maggior parte della sua energia alla fine del percorso e questa importante caratteristica è sfruttata in medicina per curare i tumori senza operare, utilizzando le particelle come delle “bombe di profondità”.

Conoscere questo comportamento è importante anche dal punto di vista sperimentale perché permette di stabilire  lo spessore dei materiali da usare in base all’effetto che si vuole ottenere. Per fare un esempio, negli esperimenti sui quali ho lavorato c’era la difficoltà sperimentale di rivelare delle particelle con energia molto bassa, al di sotto di quella minima sufficiente affinché il rivelatore potesse reagire. Poiché queste particelle erano però degli isotopi instabili, riuscendo ad intrappolarle tutte da qualche parte si poteva attendere il loro decadimento e conseguentemente “contarle” in base al numero di decadimenti.
Per intrappolare le particelle è stato perciò usato uno spessore di materiale le cui dimensioni sono state stabilite proprio svolgendo simulazioni basate sul picco di Bragg.

È da diverse settimane che io e i miei superiori stiamo sbattendo su un problema: misurando tre volte la stessa cosa, a distanza di pochi anni l’una dall’altra, non si ottiene lo stesso risultato. La procedura è identica per tutte e tre le misure e i calcoli sono stati ricontrollati più volte. Nulla sembrava giustificare delle alterazioni così pesanti del risultato.
Alla fine però ne siamo venuti a capo: gli spessori usati, sebbene sempre sufficienti a fermare tutte le particelle (secondo le simulazioni), erano diversi e, contrariamente a quanto atteso, fermavano un numero maggiore di particelle se la loro dimensione era esageratamente maggiore di quella necessaria. La realtà, come sempre, batte lo scienziato uno a zero e proprio lì dove credeva di sapere ormai già tutto.

Picco di Bragg

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Inerzia

Il primo principio della dinamica dice che un corpo perfettamente libero di muoversi e non sottoposto a nessun tipo di perturbazione esterna (compreso ogni forma di attrito e ogni tipo di reazione interna che può innescare propulsione) persevera nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme. Significa che la natura standard delle cose è quella di restare nel loro stato: se stanno ferme restano ferme, se si muovono, continuano a muoversi nella forma più semplice di moto finché non viene qualcuno ad interferire.

Una conseguenza di questo principio sono le forze che un corpo ci oppone quando vogliamo alterarne lo stato di moto o di quiete. È il motivo per il quale nelle automobili ci sono le marce e il cambio: un’automobile ferma si oppone al moto perciò ho bisogno di più potenza e meno velocità. Per lo stesso motivo usiamo le cinture di sicurezza: se il veicolo rallenta bruscamente, la natura dei nostri corpi è quella di perseverare nella loro corsa perciò tendono ad essere sbalzati in avanti.

Il principio di inerzia si può estendere anche a cose meno tangibili come le mille opinioni e convinzioni che ci frullano nella testa. Cambiare idea è infatti una delle cose più difficili che esistano. Diceva Einstein che spezzare un atomo è più facile che spezzare un pregiudizio ed in effetti aveva ragione. La realtà è una forza che altera il nostro stato ma le nostre convinzioni si oppongono reagendo con rabbia, con la polemica, cercando argomenti, cavilli, sotterfugi e dialettiche. Tutto facciamo fuorché dare ascolto al nostro cuore e verificare se l’ideologia di turno corrisponde o no alla natura dell’uomo e al suo senso.
La nostra inerzia corrisponde alla paura di un bimbo che non entra in una stanza buia, ma tali meraviglie si celano oltre la soglia, tale è la luce che sta al di là della paura, che vale la pena essere meno inerziali, buttarsi “a capofitto” verso il reale, lasciarsi plasmare da una realtà che ci parla per sperimentarne la bellezza.

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Le raffinerie di etereone

Due stelle sorelle, identiche, erano a pochi anni luce l’una dall’altra, ciascuna con il suo sistema di pianeti. Su una luna di un gigante gassoso vivevano i Salicerunti mentre sul terzo pianeta della stella vicina vivevano i Sauropi. Furono i Salicerunti ad esplorare lo spazio per primi e ad incontrare i loro vicini. Avevano infatti trovato una fonte di energia incredibile che consentiva loro di alimentare le astronavi che, come risaputo, per viaggiare nell’iperspazio necessitavano di elevatissime quantità di energia.

Il carburante dei Salicerunti era l’etereone, un combustibile in forma di plasma che si ricavava da reazioni subnucleari. Per ottenere l’etereone serviva costruire degli impianti di raffinazione incredibilmente complessi all’interno dei quali si manipolavano le immense energie dell’etereone.
Il prodotto raffinato era stabile e facilmente gestibile ma la sua produzione si rivelò una vera “gatta da pelare”. Accadde infatti che, in una delle colonie dei Salicerunti, un pianeta di un sistema lontano, esplose una raffineria di etereone: di quel pianeta rimane solo un campo di asteroidi.
Nonostante questo incidente, i Salicerunti non si diedero per vinti: migliorarono le loro capacità tecniche e continuarono ad usare l’etereone, l’unico carburante che gli consentiva di solcare l’immensità dello spazio.

I Sauropi, venuti a sapere di quella colonia distrutta si limitarono soltanto a comprare l’etereone dai Salicerunti. L’accordo commerciale consentiva ad entrambi di avvantaggiarsi dell’etereone anche se l’economia dei Sauropi doveva far fronte alle ingenti spese per l’approvvigionamento del carburante. Tutto sommato si stava bene però.

Un giorno, dai lontani mondi inesplorati oltre la barriera di Talinteda, arrivò il dominatore del cosmo. Questo essere, del quale si diceva avesse poteri oltre ogni immaginazione, era diventato l’imperatore di un quarto della Galassia e guidava un’armata di centomila astronavi da guerra. Nessuno poteva sfuggirgli; nessuno era mai riuscito a farlo.
L’armata del dominatore del cosmo transitò in prossimità del pianeta dei Salicerunti e, dopo una breve scansione, passò oltre. Giunta sul pianeta dei Sauropi l’invasione ebbe inizio. Il dominatore del cosmo discese sulla superficie del pianeta ed entrò nel palazzo governativo più importante per trattare la resa immediata. Una folla si era radunata lì intorno per curiosità.

C’era una sola domanda che assillava ciascuno dei presenti: Perché noi e non i Salicerunti?
Il dominatore del cosmo, dopo aver inteso i pensieri dei Sauropi, scoppiò in una crassa risata e quando smise di ridere disse: «Oh, poveri sciocchi… Non c’è niente in questo universo che può arrestare la mia armata… Ma le raffinerie di etereone… – continuò con aria preoccupata – Quelle raffinerie… Avessi aperto il fuoco avrei perso la mia splendida armata. Con quelli dovrò trattare, con voi invece non ne avrò bisogno». E con un perfido sorriso, si prese tutto: terre, risorse e abitanti.

Centrale energetica

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Analisi semantica

Guardavo, proprio ieri, una delle funzionalità di un noto aggregatore di notizie. La chiamano “analisi semantica”, un bilancio tra parole “positive” e parole “negative” all’interno di un post allo scopo di determinarne lo “stato d’animo”. Se si utilizzano tante parole negative lo stato d’animo è triste mentre se si utilizzano tante parole positive lo stato d’animo risulta felice. Ovviamente ci sono delle gradazioni intermedie.

L’analisi dei miei post risulta spesso di un umore nero pece. Com’è possibile? Guardo le parole che sono state classificate come “negative” e scopro che tra le altre sono state anche inserite: immutabile; indiscutibile; irrisolto; pesante; usuale; generalizzato; rigido; nostalgico.
A me non sembrano parole negative ma, pensandoci bene e rendendosi conto di certe mode, possono mostrare un certo modo di intendere le cose per il sentire comune.

Si temono proprio i riferimenti fissi, le cose stabili e definite che possono, in fin dei conti, dare sicurezza. Si preferisce invece non sapere dove sbattere la testa, vagare tra un’idea e l’altra senza mai trovare soddisfazione. Il problema è che questo stato “confusionale” viene frainteso con una maggiore libertà. Se chi ragiona in questo modo fosse un marinaio, sulla sua piccola barchetta, nel mare notturno, sarebbe veramente più libero spegnendo tutti i fari del mondo?
La libertà del marinaio sta nel fare uso dei fari che incontra per scegliere saggiamente in quale direzione navigare: ad eccedere con le libertà si rischia di si abbattersi sugli scogli o di perdersi senza mai trovare un porto sicuro.

SmileP.S. È chiaro che questo post risulterà negativissimo!

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Supposizioni

Siamo più o meno tutti abituati all’idea di una scienza abbastanza “rigida” che avanzi con certezza e passo sicuro trasformando l’oscurità dell’ignoto in luminose descrizioni della natura. Questa idea di scienza – che mi chiedo chi o cosa l’abbia mai potuta inculcare nella gente – svanisce proprio quando si comincia a lavorarci, anzi, appena la si comincia a studiare. Sicurezza e certezza ce n’è ben poca anche nell’esercizio più banale. Non esiste praticamente dimostrazione scientifica o esercizio che non contenga ipotesi e supposizioni.

Una cosa banale: la caduta di un oggetto al suolo. Si deve assumere che l’attrito con l’aria sia trascurabile; si deve ipotizzare che l’oggetto trasli soltanto e non si metta a ruotare; si deve teorizzare di trovarsi in una geometria piana quando in realtà siamo su una sfera; si deve premettere che l’accelerazione di gravità sia effettivamente costante, quando si riduce con l’altezza; si deve supporre che l’accelerazione di gravità nel luogo dove ci troviamo sia la stessa che è scritta sul libro (infatti bisogna supporre che la Terra sia omogenea per poterlo dire); si deve presumere che la legge del moto uniformemente accelerato abbia tutti i termini del suo sviluppo in serie (tranne i primi tre) trascurabili etc.
Insomma, una decina di supposizioni solo per sapere quanto ci sta una penna caduta dal tavolo a toccare il suolo. Per non parlare del calcolo del punto esatto di contatto al suolo…

La scienza avanza per ipotesi, cose non dimostrate e non provate che però sono accettate come vere, reali, effettive. Il metodo scientifico non va oltre l’ignoranza della scienza stessa e perciò deve dare per buone alcune cose, deve cioè fare affidamento alla ragionevolezza. Che qualcosa sia ragionevole non significa obbligatoriamente che sia dimostrabile ma significa che l’ipotesi che facciamo è pensata, “ragionata”, valutata razionalmente. La ragione mi dice che l’America esiste anche se non ci sono mai stato; che quella pallina luminosa nel cielo è il pianeta Giove; che mia madre non usi avvelenare il cibo con il quale mi nutre in virtù dell’amore materno che ha per me e l’amore non si dimostra con una misura o con uno sforzo di logica.

Gli assunti ragionevoli che facciamo, si rivelano spesso corretti, veritieri. Nella vita di tutti i giorni ci sono svariate ipotesi – anche non scientifiche – che sono ragionevoli, alcune delle quali di importanza cruciale per il nostro agire e per il senso che diamo a noi stessi e quanto ci circonda.

H S fluttuazioni cosmiche

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