Perché

Quando utilizzato in qualità di congiunzione subordinante causale, ha la funzione di legare una proposizione alla successiva, la quale ne specifica cause, spiegazioni, motivazioni.

Se mi fermo alla prima proposizione e non ho la pazienza di leggere il resto della frase – ciò che si trova oltre il “perché” - non solo mi resterà il dubbio sui moventi e sulle spiegazioni, ma cercherò anche di costruirmi “le mie” spiegazioni, tanto più distanti dalla realtà quanti più pregiudizi sono alla base del mio pensiero. Soprattutto se sto ascoltando/leggendo il ragionamento di una persona che ho sempre visto come “nemica”, sono capace di non polemizzare fraintendendo la prima parte della frase? Ho l’umiltà e la pazienza di valutare il ragionamento altrui solo dopo averlo ascoltato tutto e, soprattutto, compreso?

Come possiamo pretendere di avere ragione sulla nostra interpretazione di qualcosa se ci siamo fermati all’apparenza?
Per una persona sveglia e curiosa è naturale chiedersi “il perché” delle cose ma, se questa attività è viziata nella forma o nelle intenzioni, penalizza lo spirito di osservazione e le risposte saranno sbagliate: spesso essere critici e avventati, spezzettando sottilmente i ragionamenti altrui, non permette di comprendere e riflettere ma conduce a sterili ed infinite discussioni.
Punto interrogativo

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Parcheggio

Stamattina arrivo circa trenta minuti più tardi del solito. Ieri ho avuto un turno di notte perciò il ritardo era scontato. Arrivo nell’area di parcheggio: le auto sono parcheggiate parallelamente l’una all’altra lungo un’alta parete. Gli stalli sono segnati dalle usuali strisce bianche che, specialmente in quel parcheggio, sono ben distanziate – da permettere il comodo parcheggio dei SUV.

L’unico posto disponibile era sufficiente appena per la mia utilitaria, un’auto vecchia di almeno vent’anni. Il motivo di questa riduzione di spazio era una grossa auto di marca che sporgeva lateralmente dal suo stallo di circa quaranta centimetri. La striscia bianca passava letteralmente sotto la vettura.
Decido di parcheggiare avvicinandomi il più possibile all’auto grossa per avere, dal lato opposto, sufficiente spazio per aprire lo sportello e riuscire ad uscire e con “spazio sufficiente” intendo a malapena venti-trenta centimetri: giusto quel che serve ad uno medio-magro a sgusciare fuori dalla macchina.

Verso l’ora di pranzo ricevo una telefonata: una persona mi aspetta poco distante per essere accompagnata a casa. Trovo il proprietario a scrutare la sua macchina con atteggiamento molto seccato. Evidentemente gli dava fastidio entrare dal lato passeggero, che era libero.
Avendo fretta, mi fiondo verso la macchina. Lui urla. Vado via: non avevo certo il tempo di fare discussioni, anche se avrei avuto tutte le ragioni di questo mondo da far valere.

Non voglio generalizzare dicendo che l’egoismo e la superbia di una persona siano direttamente proporzionali alla cilindrata della sua macchina però sarebbe da rimarcare come esistano individui di questo tipo anche dove dovrebbe regnare la cultura e la ragione. Basta leggere qualche libro in più – o qualche libro “vero” – per sentirsi più ragionevoli degli altri? Basta avere una grossa macchina per sentirsi in grado di sovvertire le regole del civile parcheggio?
La cosa drammatica è che chi si comporta in questo modo ritiene sempre di avere ragione, anche quando evidentemente non ne ha.

Parcheggio

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Troppo pieno

I gelatai di un secolo fa non avevano i frigoriferi elettrici di oggi, dovevano perciò ricorrere a dei metodi rudimentali per conservare e trasportare il gelato fino ai loro clienti. La vaschetta metallica contenente il gelato veniva infilata in un catino più grande che conteneva al suo interno una soluzione di ghiaccio, acqua e sale.

Poiché mescolando ghiaccio e sale si abbassa il punto di fusione al di sotto dei -10°C e poiché la soluzione si mantiene a temperatura costante finché c’è del ghiaccio, si otteneva facilmente un congelatore. Nel corso della giornata il ghiaccio andava però sciogliendosi diluendo la salinità della soluzione perciò il gelataio doveva aggiungere del sale di tanto in tanto.

Come sappiamo, quando il ghiaccio si scioglie il volume di acqua aumenta e se aggiungiamo del sale lo aumentiamo ancora di più. Per questo motivo, il catino che conteneva la soluzione diventava sempre più colmo.
È qui che entra in scena il “troppo pieno“: si tratta di un foro che si trova ad un’altezza prefissata sulle pareti del catino e permette alla soluzione liquida di fuoriuscire e riversarsi fuori per evitare trabocchi. Gli antichi gelatai lasciavano perciò una strisciolina di bagnato lungo il loro percorso.

Anche le persone sono come quei catini congelatori: finché hanno l’umiltà di ritenersi bisognosi in qualcosa, pronti a ricevere oltre che a dare, tutto fila liscio; quando però diventano troppo pieni di sé, dalla loro valvola di sfogo riversano la loro superbia su coloro che li circondano.

Gelataio antico

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Un mare senza confini

Un ricercatore è fatto per ri-cercare, per esplorare l’universo e le sue leggi. Ci sono però diverse degenerazioni nelle quali uno scienziato può precipitare e la più grave è quella che lo priva proprio della sua qualità principale: il cercare.

Ho visto spesso, soprattutto tra alcuni teorici, costruire modelli su modelli, teorie su teorie, spiegazioni su spiegazioni per placare la sete di significato che tutti abbiamo. Lo scienziato, più di altri, non riesce ad astenersi dal chiedere “perché?” al mondo che lo circonda e la sua inquietudine non conosce sollievo.
Questa inquietudine non deve conoscere sollievo, perché quando il proprio modello e le proprie teorie diventano troppo buone e troppo giuste si crede di aver finito. Quando si crede – a torto – di avere una spiegazione a tutto, complessa o semplice che sia, non c’è più nessun’altra spiegazione da cercare.

Ne ho visti troppi, dire che oramai restavano da chiarire solo i dettagli; che anche se il singolo non può dare una spiegazione a tutto, lo può fare la collettività scientifica perché ha specialisti in ogni disciplina; che in un futuro molto vicino nessuno dovrà più chiedersi “Perché?”.
No, non è così. Noi scienziati, noi l’umanità siamo un manipolo di ignoranti in un cosmo così tanto più grande di noi che ci interroga costantemente sui suoi “perché”.  Non vediamo che una goccia d’acqua in un immenso e profondo oceano. Siamo tutt’altro che arrivati a comprendere tutto. Ce lo dice la storia dei modelli scartati; ce lo dicono tutti coloro che in passato pensavano di essere arrivati e poi si sono dovuti ricredere; ce lo dice chi dopo un’intera vita non ha ancora smesso di imparare.

Le nostre spiegazioni alla realtà sono grossolane e ingenue, forse errate nonostante le prove – perché anche “le prove” possono essere mal interpretate e giustificare o confutare quel che vogliamo. Una cosa che non deve mai mancare a chi si occupa del sapere è l’umiltà; l’umiltà di riconoscersi naufrago in un mare del quale non si vedono i confini.

Tempesta

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