Progresso regresso

Qualche giorno fa mi è capitato di leggere questo componimento di Carlo Alberto Salustri, detto Trilussa:

Er Gambero e l’Ostrica
Ormai che me so’ messo
su la via der Progresso,
disse er Gambero a l’Ostrica – nun vojo
restà vicino a te che sei rimasta
sempre attaccata su lo stesso scojo. -
L’Ostrica je rispose: – E nun t’abbasta?
Chi nun te dice ch’er progresso vero
sia quello de sta’ fermi? Quanta gente,
che combatteva coraggiosamente
pe’ vince le battaje der Pensiero,
se fece rimorchià da la prudenza
ar punto de partenza?… -
Er Gambero, cocciuto,
je disse chiaramente: – Nun m’incanti!
Io vado all’antra riva e te saluto. -
Ma, appena ch’ebbe fatto quarche metro
co’ tutta l’intenzione d’annà avanti,
capì che camminava a parteddietro.

Ci battiamo e ci adoperiamo per ottenere un progresso, un diritto, una rivoluzione sociale, ma quante volte ciò per cui ci battiamo è realmente un progresso? Accade purtroppo spesso che alcune cose reclamate e definite “progresso” siano, in realtà, concetti antichi che – magari – sono stati debellati dopo tanti sforzi. Eh sì, a volte le mode e i costumi ci prendono proprio in giro.

Trilussa

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Piacevole pulizia

Io, come immagino tante altre persone, a conclusione di una pesante giornata dedico un po’ del tempo residuo ad alcune attività di pulizia personale. L’igiene è sicuramente un’attività dai molteplici vantaggi: evita sgradevoli odori; allontana malattie ed inquinanti; idrata la pelle. A questi possiamo anche aggiungere che si tratta di un’attività che dà un certo sollievo, sia perché sentirsi puliti è meglio di sentirsi sporchi, sia perché nel lavarsi ci si massaggia, ci si cura di sé. In particolare, lo strofinio tra le dita dei piedi lo trovo particolarmente piacevole.  Si potrebbe dire che l’attività del lavarsi unisce l’utile al dilettevole.

Attenzione agli eccessi però. Lo scopo delle operazioni di pulizia è l’igiene e l’effetto di essere piacevole è solo “collaterale” ma, nel momento in cui il peso fra le due finalità viene ad invertirsi ecco che insistiamo, eccedendo nell’attrito. Ricordo bene diverse volte nelle quali il sollievo da un prurito si è trsformato in una grattatina un po’ eccessiva. Estremizzando, ci si può pure ferire a rincorrere solo la sensazione percepita e non la finalità di un gesto.

Ecco, la bontà delle nostre azioni non si misura con il piacere – non importa se dato a noi stessi o a qualcun altro – ma in base alle loro finalità: se effettivamente producono bellezza o se invece si trattano di “estremizzazioni”. Mai accantonare la ragionevolezza, è lo strumento più efficace che abbiamo per individuare i pericolosi eccessi.

Doccia Psicho

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Il gioco degli isolotti

Da qualche mese, giusto per distrarmi dieci minuti dallo stress giornaliero, ho aperto un account su un gioco online che chiamo scherzosamente “il gioco degli isolotti”. Sostanzialmente il gioco permette di costruirsi la propria città con le proprie colonie sparse su vari isolotti ed amministrarne lo sviluppo investendo in settori come la ricerca, il commercio, la soddisfazione della popolazione, la cultura, la difesa etc. La tempistica del gioco è tale che può benissimo essere gestito accedendo una volta al giorno, quel tanto che serve per fare il punto della situazione e predisporre nuovi provvedimenti.

Pur essendo dislocati su degli isolotti non si è per nulla isolati. Altri giocatori hanno le loro città sparse tutto intorno e l’interazione con loro può essere di molti tipi: si può fare del commercio scambiandosi risorse; ci si può scambiare beni culturali da introdurre nei rispettivi musei; si può essere amici, condividendo i risultati delle ricerche etc.
Purtroppo esiste anche un altro modo di interagire, ossia la guerra. Ieri notte la mia città è stata attaccata da un altro giocatore: ho perso 43 uomini ma alla fine l’attaccante si è dovuto ritirare perché non gli erano rimasti più soldati.

Quando il giorno dopo ho scoperto l’accaduto avrei potuto seguire l’istinto  e rispondere mandando il mio esercito all’attacco contro quel fellone per fargliela pagare. Aprii invece il pannello della diplomazia e gli scrissi un messaggio: «Mi spiace che tu abbia perso i tuoi soldati. Se ti va possiamo essere amici». Quella proposta sconvolse non poco quel giocatore: abituato com’era ad un modo di giocare dove vinceva il più forte e il più furbo non si aspettava certo una reazione del genere. Successivamente gli spiegai che la mia politica era il commercio e l’amicizia, mai la guerra se non per difesa.
Ora siamo amici e ritengo improbabile che mi attacchi ancora ma spero che questa vicenda abbia cambiato il suo sguardo verso gli altri giocatori: vederli non più come città da saccheggiare ma come persone vere – e fragili – che si trovano dall’altra parte dello schermo.

Lascio trarre al lettore la morale di questa storia. Per quanto mi riguarda, spero che questa vicenda si ripeta anche e soprattutto al di là del gioco.

Ikariam

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La tarantola della baita

Un gruppo di giovani ragazzi e ragazze approfittarono delle vacanze estive per andare a trascorrere il fine settimana in una baita di montagna. Il panorama montano era splendido, il clima molto gradevole. Le due auto si fermarono accanto a quella del custode, che li stava già aspettando.
«Buongiorno!» «Buongiorno a voi – salutò il custode – vi dò alcune istruzioni e poi vi lascio».
Tra le varie istruzioni su come gestire l’acqua o su dove recuperare la legna ve ne fu una particolare: «Fate attenzione quando vi muovete perché prima che arrivaste ho visto una tarantola sgattaiolare fra le stanze – spiegò il custode – accendete la luce prima di entrare in una stanza; controllate i cassetti prima di metterci le mani; fate rumore quando vi muovete e la tarantola non vi farà alcun male. Sarebbe un gran peccato se vi mordesse.»

Il custode entrò nella sua auto e lasciò i giovani a godersi la baita. Iniziarono subito a portare le loro cose dalle auto fin nelle loro stanze. Per diverse ore non vi fu traccia di alcuna tarantola perciò alcuni cominciarono a dubitare delle istruzioni del custode. Qualcuno diceva: «Non sono sicuro che ci sia una tarantola. Potrebbe essere scappata via, ma nel dubbio è meglio comportarsi come ha detto il custode». Altri però furono meno ragionevoli: «Se non c’è alcuna tarantola perché devo affannarmi a controllare i cassetti e ad accendere le luci?». Il più giovane della compagnia, innervosito dalle posizioni dei suoi amici allora sostenne: «Sono persuaso, convinto e sicuro al cento per cento che non esiste alcuna tarantola in questa casa. Voi, sciocchi, potete continuare nelle vostre buffonate ma io mi comporterò liberamente».

Così fu. Ciascuno si comportò secondo le proprie convinzioni; chi credeva al custode; chi credeva nella propria deduzione che non vi fosse alcun pericolo.
Dal presumere l’assenza di tarantole nella baita e non essere quindi cauti nei propri spostamenti, il passo fu breve nel fare tutto l’opposto di ciò che il custode aveva raccomandato. Il giorno dopo, il più giovane della compagnia era andato a prendere un ciocco di legno da mettere sul fuoco. Invece di battere sulla catasta per far fuggire la tarantola, afferrò direttamente un ciocco e rientrò in casa. I suoi amici non furono abbastanza rapidi nell’avvertirlo di quella cosa nera che camminava sul ciocco… E zac! Un bel morso velenoso.

Quanto possiamo essere sprovveduti a volte! Troviamo difficile assumere una certa condotta prudente e giusta perciò cerchiamo in tutti i modi di squalificarne l’origine. Con deduzioni paraboliche diamo il valore di certezza a delle conclusioni che possono rivelarsi errate e riteniamo sciocco chi non le condivide. Ma la nostra posizione riguardo a queste nostre deduzioni è più fideista di quanto pensiamo.

Baita

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Giustizia

“Giustizia è fatta”, “consegnare alla giustizia”, “giustizia sommaria”; utilizziamo questa parola spesso ma ho ultimamente avuto l’impressione che nell’uso comune il termine si sia un po’ discostato dal suo significato.
Partiamo da “giusto”. Quando subiamo un torto o vediamo qualcuno subirlo e abbiamo un attimo di empatia, noi diciamo “non è giusto” o “è un’ingiustizia”. Fare giustizia è però estremamente difficile perché richiede la conoscenza di tutte le condizioni al contorno. Se vedo un uomo colpirne un altro con il proprio cappello posso presumere che egli sia un gradasso ma se sapessi che con quel gesto ha allontanato un’ape da un individuo allergico, salvandogli la vita, il nostro giudizio sarebbe diverso. È più giusto punire soltanto il colpevole oppure riparare il danno e ottenere un bene dal male compiuto?

Possiamo passare tutta l’esistenza a pretendere la prigionia per ogni persona che abbia sbagliato, ma siamo sicuri che invocheremmo lo stesso trattamento per un nostro errore, per una nostra mancanza momentanea?
Diciamo anche che un uomo che abbia sbagliato debba “pagare il suo debito verso la società” ma se c’è un debito, questo è tra una vecchietta ed il suo scippatore.
E se il rapinatore, il giorno dopo lo scippo, ritorna dalla vecchina con la refurtiva e mille scuse? Per la legge è ancora qualcuno da mettere dentro; per la società sarebbe ancora un debitore, ma perché insistere? È ovvio che la legge debba fare ordine e che per fare ordine bisogna classificare i comportamenti in reati e non reati, prevedendo delle sanzioni. È vero però che le persone non sono oggetti o macchinari, che anche il più indicibile criminale può cambiare radicalmente e desiderare un colpo di spugna: iniziare una nuova vita.

Nella puntata “La coscienza del re” della serie originale di Star Trek, Kodos il carnefice viene riconosciuto da alcuni testimoni superstiti in Anton Karidian, un attore di una compagnia teatrale itinerante. Kodos aveva arbitrariamente fatto uccidere la metà della popolazione di un pianeta per garantire la sopravvivenza dei sopravvissuti in un momento di scarsità alimentare. Quando il tenente Riley, uno dei testimoni, minaccia di uccidere Anton Karidian, dietro le quinte, viene fermato dal capitano Kirk. Come si può pensare di riparare ad una ingiustizia con un’altra ingiustizia?

Il problema sono i moralisti, quelli che non gliene importa nulla se sei cambiato oppure no perché per loro devi pagare ugualmente; non gliene importa nulla se sei stato debole o se hai riconosciuto il tuo errore, devi saldare il debito con la società.
Ma chi sono i moralisti? Spesso è gente che assume questo comportamento solo contro una tipologia di persone. Dicono spesso di stare dalla parte delle vittime ma poi denunciano i crimini solo se a compierli sono i loro nemici ideologici. E le vittime degli altri criminali? Quelli dei quali non parlano? Forse i moralisti stanno solo dalla parte di alcune vittime: quelle che fanno comodo.
Giustizia non è sinonimo di vendetta e non fa rima con “persecuzione”. “Giusto” sarebbe comprendere, prima ancora di giudicare.

La coscienza del re

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Charlie X

Nell’episodio “Charlie X” della serie originale “Star Trek” l’Enterprise prende a bordo l’unico superstite di un naufragio spaziale. Il ragazzo, fin dall’età di tre anni è vissuto in solitudine sul pianeta Thasus non entrando mai in contatto con altri umani. Fin da subito l’adolescente mostra comprensibili reazioni anomale nell’interazione con gli altri membri dell’equipaggio ma il capitano e gli altri ufficiali si rendono presto conto che Charlie è diverso.

I misteriosi abitanti di Thasus hanno conferito a Charlie il loro potere, la capacità di piegare la realtà al proprio volere, e lo hanno fatto per consentirgli la sopravvivenza sul pianeta. Charlie però, più di molti adolescenti, non sa ancora come comportarsi e mal gestisce il suo potere. Quando perde ad una partita a scacchi, fonde col pensiero tutti i pezzi. Arriva a trasformare in lucertola una ragazza sua coetanea, paralizzare il signor Spock e fare scomparire delle persone.

Charlie è abituato ad avere tutto ciò che vuole perché può averlo. Se può ottenere qualcosa facendo uso del suo potere, perché non ottenerlo?
Spesso ci comportiamo anche noi come Charlie. Pensiamo che tutto ciò che siamo in potere di fare possiamo farlo e la società deve garantircelo. Ci appropriamo, in altri termini, di tutto il potere che possiamo finché questo può essere giustificato con ragionamenti, alcuni dei quali costituiscono una sorta di auto-inganno per credere che un comportamento non arrechi danno ad alcuno, a cominciare da noi stessi.
Alla fine dell’episodio Charlie viene recuperato dai thasiani nonostante le sue lamentele e i suoi pianti. Siamo sempre pronti a fare uso e abuso delle nostre facoltà finché non ci rendiamo conto che non siamo noi stessi a darcele e che quel che abbiamo può esserci tolto da un momento all’altro.

Charlie X

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La ragazzata

Era una noiosa serata invernale giù all’acciaieria. Il turno di Peter finiva alle 20 ma le sue mansioni erano così alienanti che avrebbe preferito andarsene via subito. Sembrava essere solo: la mattina non c’era un solo metro quadro della struttura che non fosse occupato da qualcuno; a partire dalle tre del pomeriggio il numero delle persone diminuiva e alle 19 non si vedeva quasi più nessuno.

In questo clima desolato il cervello di Peter aveva cominciato ad oscillare tra pensieri sempre più assurdi. “Chissà quanto ci mette l’acido per la pulizia del metallo a bucare un bicchiere di plastica…” pensò. Pochi minuti dopo aveva messo un dito di acido dentro un bicchiere di plastica.

Non sembrava succedere granché e il turno stava ormai per finire. Lasciare quell’acido nella propria stanza per tutta la notte l’avrebbe riempita di esalazioni perciò Peter posò quel bicchiere appena fuori dalla stanza e andò a fare il solito giro prima di tornare a casa.
L’acido bucò il bicchiere e colò verso il basso dove si trovava un estintore. Inutile dire che il fluido corrose il recipiente sotto pressione facendolo esplodere. Il boato attirò tutti i presenti.

«Peter! Peter! – chiamò una collega – È esploso l’estintore che sta vicino alla tua stanza». “Oh cavolo, il bicchiere!” pensò Peter. Quando giunse sul luogo, i colleghi discutevano sul far revisionare gli estintori. Alcuni colleghi avevano già cominciato a smontare gli estintori per evitare altre esplosioni. Evidentemente l’ipotesi dei colleghi era quella di un cedimento accidentale.
Poi però qualcuno vide quel bicchiere e capì cos’era avvenuto. “Ecco, sono impanato e fritto” pensò Peter. Il clima si fece un po’ più acceso. «Dobbiamo segnalarlo al capo»…«E cosa può fare se non sa chi è stato?»…«Almeno farà un richiamo pubblico». Uno dei colleghi di Peter, quello che aveva scoperto il bicchiere, gli si avvicinò guardandolo. “Sono finito, mi licenzieranno… – pensò Peter – Che cosa stupida che ho fatto!” Neanche il tempo di concludere questo pensiero e il collega disse: «Il burlone che ha fatto questa ragazzata doveva proprio volerti male per farlo davanti al tuo studio». “Già… Non ho peggior nemico di me stesso” pensò Peter.
Il giorno dopo, il caso era già chiuso. Peter, dal canto suo, aveva uno sguardo diverso verso le persone: sapere che anche noi siamo capaci del peggio, ci può fare guardare alle debolezze degli altri con maggiore serenità.

Puffo burlone

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Deformazione professionale

Recenti studi neuropsichiatrici hanno evidenziato che utilizzare uno strumento modifica il cervello. Riflettendoci è una cosa quasi scontata: man mano che uso uno strumento “imparo” ad averne maggiore dimestichezza adattandomi con plasticità. In fondo, modi di dire come “deformazione professionale” descrivono bene questi effetti. Esiste però un limite oltre il quale questa “deformazione” diventa nociva?

Uno strumento che è ormai diffuso in ogni casa è la televisione. La televisione ci ha abituati ad essere spettatori, ad un rapporto privo di interazione con quanto ci viene proposto, ma ci ha anche abituati allo zapping: se un programma non mi piace, cambio canale; se non so cosa guardare, cambio canale. La cosa è ancora più marcata quando l’offerta di canali si aggira attorno al centinaio.
La conclusione di queste abitudini, quando non riusciamo a separare la vita davanti allo schermo da quella a contatto con il resto del mondo, è che pretendiamo di poter fare zapping anche con tutto ciò sul quale pensiamo di avere il benché minimo potere. Ci scegliamo gli amori, ci scegliamo la carriera, ci scegliamo il cibo, il momento per uscire, le attività della giornata, il valore stesso della propria esistenza e di quella degli altri. È così almeno finché non sopraggiunge un “imprevisto” che riporta la realtà ad imporsi sui nostri capricci.

Altro strumento è Facebook. Mi è capitato in questi ultimi giorni di sperimentare “l’effetto Facebook” cioè la trasformazione dei propri contatti e amici in una facciata web, con annessa matrice di pixel (fotografia) ed insieme di caratteri (contenuto dello stato). Quando smettiamo di vedere la persona, oltre il dato numerico che ci viene presentato attraverso la pagina, il nostro comportamento degenera rapidamente: una pagina web si può insultare, offendere e ridicolizzare quanto vogliamo; una persona che abbiamo davanti e ci guarda negli occhi no, specie se è un “amico”. Quanto più l’ideologia scende al livello della tifoseria da stadio, tanto più sostituirò la stima personale ed il rispetto con le loro antitesi.
Tutto ciò non è prerogativa di Facebook: succede praticamente con qualsiasi cosa della quale, per un motivo o per un altro, perdiamo il valore.

La nostra riflessione non deve però condurci a proibire la televisione o Facebook, come per soddisfare una qualche legge del taglione, ma deve produrre un’attenzione particolare, un costante richiamo al valore delle proprie amicizie e ad un corretto rapporto con il reale.

 

Internet cane

"su internet nessuno sa che sei un cane"

 

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Cosmo orfano

Finalmente l’era spaziale, la vera era spaziale per la Terra era iniziata. Da quando, all’inizio del secolo, i fratelli Guiltmore avevano costruito il primo prototipo di astronave superluce, ogni nazione aveva fatto di tutto per dotarsi di questi mezzi. Un intero cosmo era sopra tutti loro in attesa di essere scoperto, esplorato, colonizzato.
Molti ragazzi avevano intrapreso la carriera scientifica con il sogno di poter mettere piede su quelle 345 astronavi presenti nel mondo. John Clever era uno di questi. Sarebbe diventato un buon sergente di macchine una volta imbarcato. Conosceva alla perfezione ogni passaggio del funzionamento dei motori e dei reattori dei nuovi modelli di astronavi. Era solo una questione di tempo e, terminati gli studi, si sarebbe imbarcato.

Il cinque ottobre di quello stesso anno l’astronave russa знаний aveva iniziato le procedure di discesa in atmosfera verso l’astroporto di Sanpietroburgo. Era in anticipo di due ore perché il capitano era talmente eccitato per la scoperta di un pianeta extrasolare abitabile da voler precipitarsi subito a casa a comunicare personalmente la notizia. Una fitta nebbia circondava l’astroporto, nel quale si preparava il decollo della разведка.
«Tutto operativo, signore»
«Bene… Tenente, com’è finita con il disturbo statico?»
«Ancora niente, signore. Rileviamo il radiofaro dell’astroporto ma le comunicazioni sono disturbate»
Pochi minuti dopo l’addetto alle comunicazioni prese la parola: «Signore… Comunicazione in arrivo»
«In viva voce»
“…. traiettoria….pista…at…libera”
Dopo qualche secondo il capitano concluse: «Via libera. Incanalarsi lungo la traiettoria di atterraggio». L’astronave entrò in quella strana nebbia scomparendo dai radar disturbati della torre di controllo. L’operatore capo della torre, osservati i radar, allora ordinò: «Comunicate il via libera alla разведка»
«Fra poco dovremmo vedere l’astroporto» bisbigliava un tenente della знаний al suo collega seduto lì vicino, mentre tutta la plancia guardava lo schermo principale. Tutti gli occhi erano fissi su quello schermo. Da un momento all’altro avrebbero rivisto il suolo.
Improvvisamente sullo schermo apparve la разведка che andava dritta verso di loro.
«Porco diavolo!» esclamò il capitano e fu l’ultima cosa che disse. A nulla servirono le manovre di emergenza: le due navi si scontrarono e, per l’impatto, entrambi i reattori principali delle due navi detonarono sprigionando tutta la loro energia. Fu distrutta qualsiasi cosa in un raggio di ottanta chilometri. L’intera città di Sanpietroburgo cancellata dalle cartine. Milioni di morti all’istante. L’asse della Terra si spostò di tre centimetri e la contaminazione si estese fino in Francia, in India e nel Canada.

Un anno dopo la tragedia iniziò lo smantellamento delle 343 astronavi rimanenti.
Una sera John era salito a riflettere sulla collina. In lontananza vedeva le carcasse di quei bastimenti dello spazio circondate dalle luci delle fiamme ossidriche. Sembravano immense carcasse di calabroni lentamente smembrati dalle formiche.
John alzò lo sguardo e sospirò guardando la volta celeste. Proprio in quel momento una stella cadente tagliò in due la sua visuale. Quel cosmo orfano di esploratori versava una lacrima per il piccolo pianeta che si era chiuso in sé stesso. Un mondo che aveva scelto di concludere la sua agonia entro i suoi limitati confini.

Stella cadente

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Uguaglianza dei biscotti

Altro post partorito a colazione: sarà il sonno, sarà il vuoto cerebrale post-risveglio, ma mentre facevo colazione mi è venuta in mente la grande varietà di biscotti. Non sono tutti uguali: ci sono quelli che si inzuppano pian piano; quelli che vanno a fondo; quelli che galleggiano qualsiasi cosa succeda; quelli che diventano poltiglia; quelli che rimangono asciutti e impermeabili anche se li lasci a mollo per mezz’ora.

Però sono tutti biscotti. Stesso oggetto, differenze di specie. Ogni biscotto è fatto per essere consumato in modo diverso: alcuni biscotti si devono spezzare prima di immergerli; altri vanno immersi per metà per essere iniziati; altri hanno un verso specifico altrimenti risultano impermeabili; altri ancora hanno bisogno del cucchiaino sotto, per essere recuperati prima di diventare poltiglia. Sebbene stiamo parlando sempre e solo di biscotti, ogni tipologia ha i suoi pregi e i suoi difetti, il suo modo corretto di essere consumato, una maniera idonea e ideale di essere trattato, il suo modo di interagire con il latte.

Stesso discorso per le persone. Siamo tutti esseri umani, certo, ma pari dignità e diritti sono conferiti sugli aspetti che sono già comuni. Quando però, con la presunzione di un uguaglianza che in realtà non esiste, vogliamo abbattere le differenze naturali, stiamo cercando di tenere a mollo per dieci minuti un biscotto che diventa poltiglia in trenta secondi. Cioè non abbiamo capito il meccanismo della dignità. Se c’è differenza tra uomo e donna, tra persona e persona, è perché ogni qualità e proprietà – differente dalle altre – ha un suo campo di applicazione ed un suo impiego che sarebbe sviluppato male se affidato a chi, quelle qualità, non le possiede. Non dobbiamo pretendere di essere buoni a tutto, anche a ciò per cui non siamo tagliati, ma riconoscere che essere fatti in un certo modo implica finalità specifiche, un modo di vivere più “calzante” di altri.

Biscotto

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