Spezzare la catena

Qualche tempo fa raccontavo un piccolo episodio che mi era accaduto interagendo con un utente di un gioco online. Una cosa molto simile, sebbene ambientata e raccontata meglio, accade nell’episodio numero 22 di Full metal alchemist brotherhood.

ScarScar è un abitante di Ishval, un paese che ha sofferto la tragedia di una guerra civile e i cui abitanti ritengono che l’uso dell’alchimia sia un’offesa al creatore. Nel corso della guerra, Scar perde i suoi genitori e suo fratello, oltre a migliaia di compaesani. Viene salvato da una coppia di dottori, i coniugi Rockbell, ma sopraffatto dal risentimento e dall’odio per quegli occidentali responsabili della devastazione del suo paese, li assassina.

Recatosi nella capitale, Scar si trasforma in un serial killer che uccide gli alchemisti di stato e racconta a sé stesso che le sue azioni non sono guidate dalla vendetta ma dal volere del creatore che punirebbe così gli alchimisti. È qui che, braccato dai militari, incontra Winry, la figlia dei coniugi Rockbell.
Quando la ragazza viene a sapere che Scar è l’assassino dei suoi genitori ha la tentazione di sparargli, ma alla fine desiste. Questo fatto, insieme ad altre vicende che si sviluppano nel corso della storia, cambia radicalmente Scar liberandolo dalla morsa dell’odio. Tra gli episodi conclusivi della serie, vittime e aggressori saranno infatti schierati fianco a fianco nella lotta contro il male.

WinryLa storia sottolinea l’esistenza di una catena dell’odio: la vittima che diventa a sua volta aggressore in un mix di vendette e generalizzazioni che producono a loro volta altre vittime che avranno i medesimi sentimenti. L’odio chiama altro odio e conduce ad una serie di eventi dolorosi che non si concludono mai. O meglio, si concludono solo se uno degli anelli della catena non si comporta come gli altri. L’istinto vorrebbe che ad ogni sopruso si reagisca con cattiveria uguale o maggiore a quella subita. Il perdono è invece, da questo punto di vista, una vera e propria rivoluzione, qualcosa capace di recidere il meccanismo una volta per tutte, qualcosa di alieno rispetto al meccanismo stesso.

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Per cosa combatti

Se cerco il vocabolo “combattere” sul dizionario trovo che viene usato in diverse situazioni ma che tutte, o quasi, le volte che viene usato è accompagnato da una finalità. Per combattere è necessario uno scopo.

Chi è che oggi combatte? Per cosa combatte? Come combatte?
Viviamo in un’epoca di pace, soprattutto rispetto al secolo scorso che ha visto due conflitti mondiali, eppure si combatte ugualmente. Com’è possibile – ci chiediamo – che si combatta in una situazione geopolitica nella quale il nemico più vicino si trova in un altro continente? La battaglia c’è ma viene poco percepita perché si è spostata dal fronte materiale delle armi, delle bombe, della distruzione, dell’omicidio al fronte ideologico.

Il motore che alimenta queste “battaglie” è spesso l’indignazione, il malcontento, uno stato d’animo conseguenza di qualche sopruso subìto o di qualche egoismo che non ha trovato soddisfazione. Ciò di cui è difficile rendersi conto è che anche questo tipo di motore necessita di carburante. Un carburante che viene consumato lentamente ed inesorabilmente finché il motore è acceso, e questo carburante è la persona stessa che fa dell’indignazione il suo motore.
Quel desiderio che vuole la fine di una tal persona, colpevole o innocente che sia, per quanto pessima e deprecabile, finisce per rendere insensibili alla bellezza, incapaci di godere di quel che si ha. Prende pian piano il sopravvento sugli altri pensieri, pensieri belli e carichi di sentimento, creando come un sipario che scende sul mondo.

Sembra impossibile eppure è così: l’oggetto dell’indignazione si presenta nella pausa pranzo come argomento di conversazione; si insinua nelle lamentele (se non ci fosse *** sarebbe meglio); è collegato a tutto e tutto si collega a lui; è argomento di battute e perfino motivo di coesione tra persone che condividono lo stesso risentimento.
Più che vivere è vivacchiare; è perdersi quanto di più bello esiste per inseguire il proprio orgoglio ferito o una rabbia che non finisce mai.

I cavalieri valorosi combattevano il nemico per evitare ad ogni costo che, penetrando nella città, egli potesse distruggere quanto di bello era stato costruito, comprese la famiglia e le persone amate. Si combatteva il gradasso che stava distruggendo il debole; si combatteva per amore.
Se si ama qualcosa (o qualcuno) si è disposti a combattere per essa (egli); non si può combattere – nel senso più nobile del termine – se non per qualcosa (qualcuno) che si ama. L’indignazione non è amore: se l’amore chiama a combattere, l’indignazione chiama a vendicarsi.

La bella dama - Dicksee

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Il gioco degli isolotti

Da qualche mese, giusto per distrarmi dieci minuti dallo stress giornaliero, ho aperto un account su un gioco online che chiamo scherzosamente “il gioco degli isolotti”. Sostanzialmente il gioco permette di costruirsi la propria città con le proprie colonie sparse su vari isolotti ed amministrarne lo sviluppo investendo in settori come la ricerca, il commercio, la soddisfazione della popolazione, la cultura, la difesa etc. La tempistica del gioco è tale che può benissimo essere gestito accedendo una volta al giorno, quel tanto che serve per fare il punto della situazione e predisporre nuovi provvedimenti.

Pur essendo dislocati su degli isolotti non si è per nulla isolati. Altri giocatori hanno le loro città sparse tutto intorno e l’interazione con loro può essere di molti tipi: si può fare del commercio scambiandosi risorse; ci si può scambiare beni culturali da introdurre nei rispettivi musei; si può essere amici, condividendo i risultati delle ricerche etc.
Purtroppo esiste anche un altro modo di interagire, ossia la guerra. Ieri notte la mia città è stata attaccata da un altro giocatore: ho perso 43 uomini ma alla fine l’attaccante si è dovuto ritirare perché non gli erano rimasti più soldati.

Quando il giorno dopo ho scoperto l’accaduto avrei potuto seguire l’istinto  e rispondere mandando il mio esercito all’attacco contro quel fellone per fargliela pagare. Aprii invece il pannello della diplomazia e gli scrissi un messaggio: «Mi spiace che tu abbia perso i tuoi soldati. Se ti va possiamo essere amici». Quella proposta sconvolse non poco quel giocatore: abituato com’era ad un modo di giocare dove vinceva il più forte e il più furbo non si aspettava certo una reazione del genere. Successivamente gli spiegai che la mia politica era il commercio e l’amicizia, mai la guerra se non per difesa.
Ora siamo amici e ritengo improbabile che mi attacchi ancora ma spero che questa vicenda abbia cambiato il suo sguardo verso gli altri giocatori: vederli non più come città da saccheggiare ma come persone vere – e fragili – che si trovano dall’altra parte dello schermo.

Lascio trarre al lettore la morale di questa storia. Per quanto mi riguarda, spero che questa vicenda si ripeta anche e soprattutto al di là del gioco.

Ikariam

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Giustizia

“Giustizia è fatta”, “consegnare alla giustizia”, “giustizia sommaria”; utilizziamo questa parola spesso ma ho ultimamente avuto l’impressione che nell’uso comune il termine si sia un po’ discostato dal suo significato.
Partiamo da “giusto”. Quando subiamo un torto o vediamo qualcuno subirlo e abbiamo un attimo di empatia, noi diciamo “non è giusto” o “è un’ingiustizia”. Fare giustizia è però estremamente difficile perché richiede la conoscenza di tutte le condizioni al contorno. Se vedo un uomo colpirne un altro con il proprio cappello posso presumere che egli sia un gradasso ma se sapessi che con quel gesto ha allontanato un’ape da un individuo allergico, salvandogli la vita, il nostro giudizio sarebbe diverso. È più giusto punire soltanto il colpevole oppure riparare il danno e ottenere un bene dal male compiuto?

Possiamo passare tutta l’esistenza a pretendere la prigionia per ogni persona che abbia sbagliato, ma siamo sicuri che invocheremmo lo stesso trattamento per un nostro errore, per una nostra mancanza momentanea?
Diciamo anche che un uomo che abbia sbagliato debba “pagare il suo debito verso la società” ma se c’è un debito, questo è tra una vecchietta ed il suo scippatore.
E se il rapinatore, il giorno dopo lo scippo, ritorna dalla vecchina con la refurtiva e mille scuse? Per la legge è ancora qualcuno da mettere dentro; per la società sarebbe ancora un debitore, ma perché insistere? È ovvio che la legge debba fare ordine e che per fare ordine bisogna classificare i comportamenti in reati e non reati, prevedendo delle sanzioni. È vero però che le persone non sono oggetti o macchinari, che anche il più indicibile criminale può cambiare radicalmente e desiderare un colpo di spugna: iniziare una nuova vita.

Nella puntata “La coscienza del re” della serie originale di Star Trek, Kodos il carnefice viene riconosciuto da alcuni testimoni superstiti in Anton Karidian, un attore di una compagnia teatrale itinerante. Kodos aveva arbitrariamente fatto uccidere la metà della popolazione di un pianeta per garantire la sopravvivenza dei sopravvissuti in un momento di scarsità alimentare. Quando il tenente Riley, uno dei testimoni, minaccia di uccidere Anton Karidian, dietro le quinte, viene fermato dal capitano Kirk. Come si può pensare di riparare ad una ingiustizia con un’altra ingiustizia?

Il problema sono i moralisti, quelli che non gliene importa nulla se sei cambiato oppure no perché per loro devi pagare ugualmente; non gliene importa nulla se sei stato debole o se hai riconosciuto il tuo errore, devi saldare il debito con la società.
Ma chi sono i moralisti? Spesso è gente che assume questo comportamento solo contro una tipologia di persone. Dicono spesso di stare dalla parte delle vittime ma poi denunciano i crimini solo se a compierli sono i loro nemici ideologici. E le vittime degli altri criminali? Quelli dei quali non parlano? Forse i moralisti stanno solo dalla parte di alcune vittime: quelle che fanno comodo.
Giustizia non è sinonimo di vendetta e non fa rima con “persecuzione”. “Giusto” sarebbe comprendere, prima ancora di giudicare.

La coscienza del re

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Mani sporche

In un paese molto ricco prosperavano tante industrie e aziende distribuite nei settori più disparati. Ce n’erano di veramente grandi e quelle più piccole prosperavano anche grazie agli scambi commerciali e alle attività delle più grandi. Il motivo di tanta ricchezza erano stati, diversi anni prima, alcuni imprenditori che avevano saputo sfruttare al meglio le risorse del territorio amministrando con astuzia le loro aziende. La gente di quel luogo non conosceva disoccupazione né povertà e la maggior parte di loro stimavano quegli imprenditori per il benessere che avevano realizzato in quel paese.

Nonostante questo benessere c’erano persone che non erano contente: mormoravano perché alcuni erano più ricchi di altri; si lamentavano perché a, loro dire, i fondi destinati agli aiuti umanitari erano esigui; erano arrabbiati perché non avevano sufficiente benessere e libertà. Forse sentivano puzza di bruciato, forse avevano pure ragione o forse il loro cuore inquieto si era fatto ammaliare dal troppo benessere e li conduceva a pensare che ottenendone altro avrebbero saziato tutti i loro desideri. Ad ogni modo, finì che queste persone cominciarono a detestare gli imprenditori di quel paese.

Fecero ricerche approfondite e scoprirono così che un dirigente tradiva la moglie, che un altro dirigente aveva rubato un’auto quand’era ragazzo, che un grande imprenditore aveva amici furfanti etc. Queste notizie fecero scalpore; furono avviati processi e inchieste; dettagli scottanti venivano rivelati ogni giorno. Finalmente si stava facendo giustizia.
Molti incriminati, che erano tra i più stimati, ammisero le loro colpe ma la gente non se ne faceva nulla delle scuse. Un dirigente si impiccò, altri due si dimisero abbandonando la loro azienda, un quarto fu incarcerato, altri vennero scagionati ma la gente mormorava che avessero comprato la giuria perciò boicottarono i loro prodotti.

Pian piano le aziende cominciarono a chiudere: si poteva dire di tutto su quegli imprenditori tranne che non sapessero fare il loro mestiere. Molta gente perse il lavoro; i prezzi salirono; venne la carestia e la crisi.
Il desiderio di giustizia è una cosa sacrosanta ma non dev’essere confuso con la vendetta né con il moralismo perché la prima produce solo vittime mentre il secondo si ritorce facilmente contro chi lo pratica.

Abandoned factory

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