Nella realtà, non misurabile

Prendiamo un quadro di un artista famoso, una creazione di grande bellezza. Tutti sappiamo che il suo valore non è dato soltanto dal costo della tela, dei pigmenti e della manodopera dell’artista. Possiamo anzi dire che il valore di un’opera d’arte ha ben poco a che fare con le sue caratteristiche fisiche o l’insieme delle sue proprietà misurabili e scientificamente interpretabili. La bellezza non è misurabile ma esiste, non c’è sensore al mondo in grado di rilevarla ma tutti possiamo apprezzarla.

Certo, c’è chi potrebbe dire che il valore estetico è qualcosa di arbitrariamente deciso dall’uomo o che la bellezza è qualcosa di soggettivo, ma chi parla così ha quanto meno la memoria corta: le mode passano; la bellezza resta.
Non stiamo parlando del valore nominale di una banconota. Da qualsiasi posto sperduto del mondo una persona possa provenire, la reazione davanti alla bellezza è la stessa – purché sia vera bellezza e non l’opinabile gusto dettato dalla critica o dalla moda del momento. Se proprio non vogliamo considerare un’opera dell’uomo, verifichiamo quante persone non apprezzerebbero lo spettacolo di un tramonto mozzafiato. La bellezza, è una delle poche cose universali che l’uomo conosca.

Universale, non misurabile, intangibile, ma reale, presente, sperimentabile con gli strumenti del cuore dell’uomo, i quali sono validi tanto quanto i rivelatori al germanio iperpuro. La porzione della realtà che si rivela investigabile con i soli strumenti che la scienza mette a disposizione è marginale. Forse aumenterà, forse resterà tale; non lasciamo che il materialismo riduca la nostra esperienza ad un foglio di calcolo. Cominciamo ad apprezzare la bellezza di una bella opera d’arte come questa:

Natività di Lorenzo LottoNatività – Lorenzo Lotto (1530 circa)

Consideratela il mio augurio di un felice Natale e buone feste.

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Conseguenze lontane

Supponiamo che nel cuore della notte un vulcano in prossimità di un aeroporto erutti in modo spettacolare concludendo la sua attività prima dell’alba.

Le particelle di magma sparate dal vulcano precipitano sulla pista dell’aeroporto, il personale decide di chiuderlo fino alle 7:30 del mattino. Molti voli vengono allora ritardati ma, poiché il giorno dura sempre 24 ore, alcuni aerei vengono cancellati. I passeggeri dei voli cancellati vengono allora spostati su altri voli.

Supponiamo che ci siano dei passeggeri che per andare a Venezia vengono prima fatti passare da Roma. A causa dei ritardi anche il volo per Roma viene ritardato e la coincidenza per Venezia è persa. Allora l’azienda decide di modificare il volo successivo, sostituendo un aereo piccolo con uno più grosso che possa contenere anche i ritardatari. Ora però chi aveva prenotato i posti sull’aereo piccolo ha perso la sua prenotazione e si ritrova con biglietti che indicano un posto inesistente. Il pandemonio all’interno dell’aereo per Venezia è immaginabile.

A causa dei vari inconvenienti i passeggeri che, senza eruzione, sarebbero arrivati alle 9:00 giungono finalmente a Venezia alle 20:00. Poiché hanno questo non trascurabile ritardo sono costretti a noleggiare un veicolo perché non ci sono più corse di autobus per la loro successiva destinazione.

Un evento avvenuto localmente, in una certa città, ha prodotto effetti fino quasi all’altro capo della nazione. Quante volte non abbiamo immaginato le conseguenze di quel che facevamo o di quel che sceglievamo solo perché non vedevamo immediate controindicazioni? Spesso un giudizio superficiale – della serie “non fa male a nessuno” – non ci permette di vedere la vera natura delle cose, i “danni collaterali” che possono verificarsi anche a lungo termine. Un “salvagente” però c’è: quando qualcuno ci mette in guardia da cose apparentemente innocue. Non bisogna certo dare credito al primo che passa, ma almeno un po’ di apertura mentale ci vuole.

Fiera di Primierosaluti da Fiera di Primiero

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Casa degli specchi

Le fiere e i luna park meglio forniti hanno una “casa degli specchi”. È un’attrazione all’interno della quale non c’è nient’altro che pareti riflettenti delle forme più svariate e combinate insieme per ottenere illusioni ottiche di ogni tipo. C’è lo specchio che ti allunga e quello che ti accorcia; quello che ingrassa e quello che fa dimagrire; uno specchio per alterare le proporzioni fra le varie parti del corpo e uno per essere moltiplicati decine di volte sembrando un esercito di cloni.
Combinando insieme specchi diversi si possono creare anche vere e proprie immagini olografiche, oggetti che ci appaiono in un luogo con tridimensionalità ma che in realtà sono altrove. Entrando in una casa degli specchi è anche possibile perdersi confondendo i corridoi reali con una loro immagine. Non pochi incoscienti si beccano delle fragorose capocciate mettendosi a correre in ambienti così costruiti.

Tra coloro che entrano insieme in una casa degli specchi sono pochi quelli che riescono a vedere la stessa cosa: lo stesso oggetto o la stessa persona potranno essere visti più grossi da qualcuno e più stretti da un altro; di forme diverse e in luoghi diversi a seconda del punto in cui ci si trova; potrebbero addirittura apparire di diverso colore.
Vedere immagini diverse di uno stesso oggetto non significa che è l’oggetto a mutare o che tutte le sue riproduzioni corrispondano alla realtà. Se non si indaga, se non si spinge la mano a toccare l’oggetto, non si può scoprire se stiamo guardando un ologramma o la superficie di uno specchio oppure no.

Delle certezze ci sono sempre e devono esistere perché sono necessarie per vivere. L’esistenza dell’oggetto che viene riflesso e deformato è una certezza perché, anche se noi lo vediamo alterato, sappiamo che da qualche parte dev’esserci qualcosa che quella alterazione l’ha subita. Uno specchio infatti può soltanto riflettere un’immagine, ma mai crearla. La certezza non è – appunto – un’entità che è possibile creare, perché proviene da un giudizio sviluppato a partire da testimonianze di fiducia o da eventi vissuti personalmente.
Se, invece, si parte dal pregiudizio, niente di ciò che può accaderci è capace di modificarlo. Innanzitutto perché non ci rendiamo conto di averne: i pregiudizi sono come specchi deformi che ci sono stati messi davanti da processi educativi o da noi stessi per convenienza o per emulazione di altri. L’unico modo di rendercene conto è di “toccare con mano” l’immagine che vediamo: l’oggetto, a differenza della sua immagine, resiste alla prova degli altri sensi. Sta a noi metterli in gioco.

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Giustizia

“Giustizia è fatta”, “consegnare alla giustizia”, “giustizia sommaria”; utilizziamo questa parola spesso ma ho ultimamente avuto l’impressione che nell’uso comune il termine si sia un po’ discostato dal suo significato.
Partiamo da “giusto”. Quando subiamo un torto o vediamo qualcuno subirlo e abbiamo un attimo di empatia, noi diciamo “non è giusto” o “è un’ingiustizia”. Fare giustizia è però estremamente difficile perché richiede la conoscenza di tutte le condizioni al contorno. Se vedo un uomo colpirne un altro con il proprio cappello posso presumere che egli sia un gradasso ma se sapessi che con quel gesto ha allontanato un’ape da un individuo allergico, salvandogli la vita, il nostro giudizio sarebbe diverso. È più giusto punire soltanto il colpevole oppure riparare il danno e ottenere un bene dal male compiuto?

Possiamo passare tutta l’esistenza a pretendere la prigionia per ogni persona che abbia sbagliato, ma siamo sicuri che invocheremmo lo stesso trattamento per un nostro errore, per una nostra mancanza momentanea?
Diciamo anche che un uomo che abbia sbagliato debba “pagare il suo debito verso la società” ma se c’è un debito, questo è tra una vecchietta ed il suo scippatore.
E se il rapinatore, il giorno dopo lo scippo, ritorna dalla vecchina con la refurtiva e mille scuse? Per la legge è ancora qualcuno da mettere dentro; per la società sarebbe ancora un debitore, ma perché insistere? È ovvio che la legge debba fare ordine e che per fare ordine bisogna classificare i comportamenti in reati e non reati, prevedendo delle sanzioni. È vero però che le persone non sono oggetti o macchinari, che anche il più indicibile criminale può cambiare radicalmente e desiderare un colpo di spugna: iniziare una nuova vita.

Nella puntata “La coscienza del re” della serie originale di Star Trek, Kodos il carnefice viene riconosciuto da alcuni testimoni superstiti in Anton Karidian, un attore di una compagnia teatrale itinerante. Kodos aveva arbitrariamente fatto uccidere la metà della popolazione di un pianeta per garantire la sopravvivenza dei sopravvissuti in un momento di scarsità alimentare. Quando il tenente Riley, uno dei testimoni, minaccia di uccidere Anton Karidian, dietro le quinte, viene fermato dal capitano Kirk. Come si può pensare di riparare ad una ingiustizia con un’altra ingiustizia?

Il problema sono i moralisti, quelli che non gliene importa nulla se sei cambiato oppure no perché per loro devi pagare ugualmente; non gliene importa nulla se sei stato debole o se hai riconosciuto il tuo errore, devi saldare il debito con la società.
Ma chi sono i moralisti? Spesso è gente che assume questo comportamento solo contro una tipologia di persone. Dicono spesso di stare dalla parte delle vittime ma poi denunciano i crimini solo se a compierli sono i loro nemici ideologici. E le vittime degli altri criminali? Quelli dei quali non parlano? Forse i moralisti stanno solo dalla parte di alcune vittime: quelle che fanno comodo.
Giustizia non è sinonimo di vendetta e non fa rima con “persecuzione”. “Giusto” sarebbe comprendere, prima ancora di giudicare.

La coscienza del re

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Levaci mano

Parlo a te.

Sì, proprio a te che pensi: «Sto bene come sto. Sono già felice e contento».
A te che non vuoi verificare personalmente; che non vuoi provare prima di giudicare.
A te che quando ti parlano seriamente devi sempre fare una battuta ridicola, possibilmente che manchi di rispetto a chi ti sta parlando.
A te che che sei ossessionato dalla politica o da altre manie e non perdi l’occasione di collegare qualsiasi cosa ti dice l’altro con il tuo repertorio di invettive contro la fazione opposta.
A te che non hai altro da fare che piombare sul blog altrui con la critica sempre pronta, con il cervello occupato nel trovare un cavillo dialettico.
A te che sei ormai monotematico nelle tue conversazioni: sempre a lamentarti; lamentarti sulla politica; lamentarti sulla società; lamentarti della gente; della paga; dei tuoi capricci non esauditi; delle angherie – non importa se inventate o no – perpetrate dal tuo “nemico”.
A te che passi la vita a combattere persone e organizzazioni senza chiederti quanto abbia senso combattere i tuoi simili, senza pensare alle vittime che calpesti con il tuo cavallo bianco nella carica contro i mulini a vento.
A te che mentre la gente muore di fame e per la povertà, fai la voce grossa per ottenere sempre più “diritti” e benefici per te stesso e altri benestanti.
A te che fai della rabbia, della lotta, dell’attacco verbale o fisico, dell’imposizione del tuo volere a colpi di sofismi, il tuo pane quotidiano, lo strumento per creare la tua utopia di una società che sarebbe perfetta perché mutilata di quell’aspetto che non hai compreso e che ritieni per tal motivo indegno dell’umanità stessa.
A te che passi interi giorni cercando argomenti per infangare il tuo “nemico” che sia realmente malvagio o no, non importa.
A te che il “nemico” ha sempre torto, o un povero illuso o un grande mentitore, e devi smontarlo pezzo per pezzo.

Dico a te. La chiami una vita felice questa?
Come si dice dalle mia parti: “Levaci mano”. Non è vita per esseri umani.

Maggie arrabbiata

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Immagine e sostanza

Qualche giorno fa un amico commentava una fotografia nella quale, con oggetti quotidiani, si otteneva la raffigurazione di qualcos’altro. Per semplicità supponiamo si trattasse di un cavallo. Il mio amico, guardando quel cavallo, mi chiese: «Perché mi mostri questa foto di una mucca?».
Questa domanda, inizialmente disarmante, mi ha spinto ad una riflessione sull’osservazione e la sostanza delle cose.

Quando guardiamo una fotografia, che è la registrazione dell’immagine di un soggetto in un determinato istante di tempo, a noi giunge soltanto l’informazione estetica e, forse, qualche messaggio che l’artista ha voluto introdurre nel suo scatto o nella sua composizione. Come facciamo però a dichiarare la sostanza dell’oggetto riprodotto?
La foto che ho mostrato al mio amico rappresenta un cavallo ma la sostanza degli oggetti che compongono il cavallo non è quella di un cavallo. Se costruisco una statua di un cavallo e la dipingo, la sola immagine della statua non mi fa capire se ho usato il gesso o la carta pesta o la plastica. C’è quindi un limite alle dichiarazioni che possiamo fare sulla realtà basandoci soltanto sulle informazioni che riusciamo a ricavarne da osservazioni superficiali.

Attualmente non disponiamo di uno strumento che ci permetta di osservare (indagare) la realtà nella totalità della sua sostanza. Possiamo certo descriverla con precisione tanto più grande quanto maggiore è il numero di strumenti che possiamo usare (analisi chimiche e fisiche) ma non possiamo raggiungere un infinito dettaglio. A maggior ragione quando parliamo di astronomia o cosmologia (lontano nello spazio) e archeologia o storia (lontano nel tempo).
Spesso il nostro giudizio è superficiale, si basa cioè su dati troppo parziali per poter apprezzare la sostanza delle cose, sull’immagine che ci perviene e non su un’informazione che ne descrive la sostanza. Prima di formulare un giudizio, prima di giungere a conclusioni o di supporre di sapere già com’è una determinata esperienza, invece che basarci sul sentito dire dovremmo applicarci in un’indagine appropriata per ciò che vorremmo giudicare. Se si tratta di un’esperienza di vita, lo strumento adeguato è quello di mettersi in gioco al 100% e verificare.

Art attack gigante con cubi di Rubik

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Regolatore

Ci si ritrova spesso a dover alimentare qualche dispositivo con una differenza di potenziale stabile, indipendentemente dalle pretese del dispositivo stesso. Ad esempio potremmo voler alimentare una vecchia pennetta MP3 utilizzando la presa dell’accendisigari invece della pila a stilo da 1.5V; oppure la nostra sveglia (3 Volts) ci ha dato buca per l’ennesima volta perché le batterie si sono scaricate e vorremmo collegarla ad un alimentatore esterno (12 Volts) etc.

Per risolvere il problema spesso non basta fare un partitore di tensione – cioè collegare delle resistenze insieme al nostro dispositivo affinché ai suoi capi ci sia la differenza di potenziale desiderata – perché, soprattutto nel caso del lettore MP3, la resistenza del dispositivo cambia a seconda che sia stato appena attivato o che sia suonando o che sia in attesa di comandi. Poiché con il metodo del partitore di tensione la differenza di potenziale ai capi del dispositivo dipende dalla sua resistenza interna, rischieremmo di distruggerlo o di non farlo funzionare affatto.
Dobbiamo allora complicare un po’ le cose costruendo un regolatore di tensione rudimentale:

Regolatore

L’amplificatore operazionale, che possiamo scegliere in base alla tensione massima di alimentazione (ad esempio un TL081 regge fino a 36V o ±18V), è il cuore del sistema. Se la tensione sull’ingresso (-) è maggiore rispetto a quella sull’ingresso (+) l’operazionale provvede a ridurre la sua uscita; viceversa, l’operazionale aumenta il potenziale d’uscita. La resistenza R1 (240 Ω) è una protezione che può essere omessa. I due transistor mettono in pratica la regolazione: il BC337 (Q1) serve solo a pilotare il BD139 (Q2) che può gestire correnti più alte. La scelta dei transistor non è vincolante: l’unica precauzione è che Q2 possa gestire correnti più sostenute. R2 è un trimmer (100 KΩ) che consente di alzare la tensione di uscita fino (o quasi) al valore massimo mentre il minimo della tensione di uscita è il riferimento (REF). Se si vuole che l’uscita sia sempre uguale al riferimento si può eliminare R2 e collegare l’ingresso (-) direttamente all’uscita.

Riferimento 1.5VLa cosa fondamentale del circuito è che per funzionare ha bisogno sempre di una tensione di riferimento da collegare a REF. Senza scomodare i diodi zener (noti riferimenti di tensione) si può costruire un riferimento da poco più di un volt usando un led rosso, alimentato attraverso una resistenza opportuna (1 KΩ a 12 V) e ulteriormente stabilizzato con un condensatore (100 nF).
Il riferimento fisso è sempre necessario, anche quando vogliamo essere indipendenti dal carico. Un po’ come nella vita bisogna sempre avere dei valori, dei riferimenti immutabili e innegabili dai quali far dipendere poi tutto il resto. Senza un riferimento esterno a noi, possiamo fare ben poco: possiamo solo illuderci di poter distinguere un potenziale più alto da uno più basso pretendendo di essere al centro. C’è bisogno di qualcosa o qualcuno che apporti un valore fisso di riferimento per le nostre azioni affinché il nostro giudizio sia valido.

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Stazione meteorologica

Ieri mi è stata regalata una schedina Arduino, un dispositivo davvero interessante per la sua versatilità ed il numero, praticamente illimitato, di progetti che possono essere realizzati secondo la propria creatività. Basta scrivere poche righe di codice informatico e collegare qualche sensore per avere già delle interessanti applicazioni.

Un primo progetto che mi viene in mente può essere la costruzione di una piccola stazione meteorologica casalinga. Potrei collegare un trasduttore di rotazione ad una pala per determinare la direzione del vento; potrei fare un rudimentale anemometro con dei bicchieri di plastica fissati con un paio di bastoncini all’alberino di un motore elettrico per risalire alla velocità del vento dalla differenza di potenziale prodotta; potrei misurare la pressione collegando un vecchio trasduttore che ho estratto da un frigorifero; potrei determinare l’umidità dell’aria misurando la capacità di un condensatore che usi proprio l’aria come dielettrico etc.

Pensando a tutti questi dati e come elaborarli ho però realizzato che tutte le mie misure sarebbero state locali. Avrei certo conosciuto la situazione meteorologica fino all’ultimo dettaglio e con la precisione che desideravo, ma tutto quel che avrei potuto dire sarebbe stata solo la situazione nei miei dintorni. Anche se misuro un abbassamento di pressione o un cambiamento del vento, non posso prevedere se pioverà o se ci sarà il sole domani finché mi limito ai miei soli dati. Ho bisogno di sapere com’è la situazione anche in altri luoghi per ricostruire l’aspetto globale della situazione e avere la speranza di capire realmente come sta cambiando il tempo.

Quando la gente giudica si comporta, certe volte, come una stazione meteorologica isolata: basa il suo giudizio su un singolo aspetto, su un’informazione che riguarda un punto, e non estende la sua analisi a tutto il resto. Alcuni si concentrano su un picco di pressione in un punto pensando che la situazione sia la stessa ovunque, senza notare che magari tutto intorno al loro ristretto puntolino la pressione è molto più bassa. Evitiamo le generalizzazioni ed evitiamo soprattutto di giudicare qualcosa basandoci solo sul caso particolare o sull’eccezione che ce lo mostra per ciò che non è.

Barometro

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Il bullone lunare

Il nonno di Eddie faceva l’astronauta. Fu uno dei pochi uomini che posarono il loro piede sul suolo lunare. Una cosa incredibile che solo pochissime persone poterono fare grazie al fatto, anch’esso stupefacente di per sé, di essere stati gli unici ad aver raggiunto il satellite; da sempre oggetto di grandi sogni e ambizioni; da sempre lassù nel cielo ad indicare una meta troppo lontana per essere raggiunta dai comuni mortali. Lui e pochi altri invece non si limitarono a guardarla ma la toccarono con le loro mani.

Come in tutte le missioni lunari c’era della strumentazione che doveva essere lasciata sul satellite. Poco prima di andare via, il nonno di Eddie si era accorto di un bullone staccatosi da quella strumentazione e caduto sul suolo lunare. Pensò che quel bullone cosparso della polvere della Luna potesse essere un bel souvenir e se lo portò dietro.
Un giorno, Eddie ricevette in regalo quel prezioso bullone da suo nonno. Era un oggetto unico in tutto il mondo.

Ritornato a casa, Eddie pose il prezioso oggetto sulla scrivania e andò a dormire. L’indomani, mentre era a scuola come tutti i giorni, la donna delle pulizie vide quel bullone sporco di polvere, probabilmente pieno di germi, e lo buttò via pensando: «I ragazzini di oggi si portano in casa tutte le porcherie che trovano per strada».
La superficialità di chi non conosce i veri motivi delle azioni altrui, che non sa quale sia il vero senso che certi oggetti hanno, che non conosce il senso di certi ragionamenti apparentemente fallaci o incomprensibili finisce per utilizzare i propri paradigmi per giudicare e così sbagliare: chi ha conosciuto solo opportunismo userà questo paradigma per giudicare l’altruista e chi conosce solo la menzogna userà il paradigma scettico per giudicare la persona sincera.
Non sarebbe ora di lasciare perdere i paradigmi e dedicarsi alla realtà di chi abbiamo di fronte?

Bullone

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Calibrazione

Una volta la fisica nucleare si faceva con le sostanze fluorescenti e le lastre fotografiche. Le particelle colpivano questi oggetti ed emettevano luce oppure li lasciavano impressionati, come una radiografia. Si racconta, ad esempio, che Rutherford avesse schiavizzato un suo studente a rovinarsi la vista in totale oscurità allo scopo di contare quei rarissimi bagliori che dimostrarono la struttura planetaria dell’atomo.

Oggi la fisica si fa con i rivelatori ed i computer. Se voglio misurare l’energia di una particella, la devo fare penetrare in un semiconduttore dove libera delle cariche generando un segnale elettrico che può essere trasformato in un numero. Il risultato di questa operazione è un grafico che si chiama “spettro” ma non è un ectoplasma. In questo grafico, più mi sposto verso destra e maggiore è l’energia che ho misurato.
Se rivelo due oggetti che sullo spettro stanno uno a destra e l’altro a sinistra, posso dire che il primo ha più energia del secondo. Ma quanta di più? E quanta energia ha ciascuno dei due?

Per rispondere a queste domande devo fare in modo di associare la posizione degli oggetti ad un valore ben definito di energia. Devo associare ad un numero che altrimenti sarebbe privo di significato fisico, un valore assoluto di energia servendomi di un riferimento, di qualcosa di fissato.
C’è un’operazione che permette di farlo e si tratta della calibrazione: si deve prendere una sorgente di particelle estranea all’esperimento e della quale si conosce l’energia per vedere dove va a posizionarsi sullo spettro.

Senza un riferimento esterno a noi, possiamo fare ben poco: possiamo solo illuderci di poter distinguere ciò che sta a alla nostra destra da ciò che sta alla nostra sinistra pretendendo di essere al centro. C’è bisogno di qualcosa o qualcuno che apporti una calibrazione allo spettro delle nostre azioni affinché il nostro giudizio sia valido.

Spettro

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