Progresso regresso

Qualche giorno fa mi è capitato di leggere questo componimento di Carlo Alberto Salustri, detto Trilussa:

Er Gambero e l’Ostrica
Ormai che me so’ messo
su la via der Progresso,
disse er Gambero a l’Ostrica – nun vojo
restà vicino a te che sei rimasta
sempre attaccata su lo stesso scojo. -
L’Ostrica je rispose: – E nun t’abbasta?
Chi nun te dice ch’er progresso vero
sia quello de sta’ fermi? Quanta gente,
che combatteva coraggiosamente
pe’ vince le battaje der Pensiero,
se fece rimorchià da la prudenza
ar punto de partenza?… -
Er Gambero, cocciuto,
je disse chiaramente: – Nun m’incanti!
Io vado all’antra riva e te saluto. -
Ma, appena ch’ebbe fatto quarche metro
co’ tutta l’intenzione d’annà avanti,
capì che camminava a parteddietro.

Ci battiamo e ci adoperiamo per ottenere un progresso, un diritto, una rivoluzione sociale, ma quante volte ciò per cui ci battiamo è realmente un progresso? Accade purtroppo spesso che alcune cose reclamate e definite “progresso” siano, in realtà, concetti antichi che – magari – sono stati debellati dopo tanti sforzi. Eh sì, a volte le mode e i costumi ci prendono proprio in giro.

Trilussa

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Rivoluzioni

Una rivoluzione, nel senso figurato del termine, è un radicale cambiamento, una netta divisione tra un “prima” e un “dopo”. Una scoperta scientifica, per esempio, può rivoluzionare il modo di concepire il mondo. Oppure un avvenimento particolare può comportare una rivoluzione nella coscienza di chi lo vive.
Quando però si parla di rivoluzione come sommossa popolare più o meno armata che trasforma una situazione politica e sociale, iniziano i guai.

La storia ci insegna che le rivoluzioni di quel tipo portano vittime, degenerano e, quando scemano, lasciano da ricostruire tutto. Guardiamo quel che è successo ieri. A prescindere dal torto o dalla ragione dei protagonisti, c’è molto da riflettere sulle modalità che essi hanno scelto. Qual’era il presupposto di quanto è accaduto? L’indignazione, la rabbia, il disprezzo. Che ci si senta amareggiati da una situazione difficile è naturale, ma se ci si ferma lì, se si rimane nello stadio della lamentela, si inizia un’escalation i cui risultati li conosciamo.

Ciascuno nel suo piccolo - io per primo - cominci con il lamentarsi di meno ed il costruire di più. Troviamo la risposta alla domanda: “Cosa posso fare io, nel mio piccolo, per costruire qualcosa senza degenerare nel disprezzo, nella protesta fine alla distruzione del colpevole, nella violenza verbale o fisica?”. È inutile cercare un responsabile di tutte le nostre sventure per poi tentare di farlo fuori in tutti i modi possibili, è questa un’attività che distoglie da tanto altro di ben più utile. Il tempo e la salute sono le cose più preziose che abbiamo, non sprechiamole.

Costruire

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Esperimento con il bianchetto

Supponiamo che un vostro amico burlone abbia preso il libro che state leggendo e ve lo abbia restituito dopo aver passato uno strato di bianchetto sul nome di un personaggio del quale non avevate ancora letto nulla. Beh, non potete proprio sopravvivere all’ignoranza di quel nome, perciò vi armate con una lametta e cominciate a raschiare via il bianchetto. Bisogna però fare molta attenzione perché potreste portarvi via anche l’inchiostro.Segni di inchiostro

Dopo un po’ che raschiate appare qualche segmento di una lettera. Uhm… All’inizio vi sembrano segni senza senso. Qualcuno potrebbe anche dubitare che lì sotto vi possa mai essere stato un reale simbolo della vostra lingua e potrebbe anche dire che l’autore del libro, scrivendo un nome alieno, abbia messo macchie casuali di inchiostro. Fase uno: elementi sconosciuti che richiedono interpretazione.

OCR oDopo aver fissato le macchie per un po’, aiutandovi con il testo circostante, capite che la lettera dev’essere dell’alfabeto latino e la disposizione dei segni vi suggerisce che la lettera misteriosa sia una “o”. Qualcuno potrebbe, a questo punto, dichiarare chiusa la faccenda e passare alla lettera successiva. Fase due: teoria.

Bene! Avete una spiegazione che funziona ma, se non siete cattivi utilizzatori del rasoio di Occam, non potete non chiedervi se quei segni sono veramente una “o” o se avete invece preso una cantonata. Una spiegazione semplicissima e perfettamente funzionante non è per forza la migliore, quella che descrive la realtà, la verità.
Vi viene a trovare una vostra amica che vi dice: «Qui c’è un cerchio ma la lettera potrebbe acnhe essere una “q”». Avete due possibilità: ascoltare la vostra amica oppure prenderla per una scocciatrice che vi vuole dare torto sulla vostra bellissima teoria della “o”. Se non siete chiusi mentalmente vi metterete a raschiare intorno per cercare nuovi elementi. Fase tre: apertura mentale. Swgni di inchiostro

Se è vero che lì c’è una “q” allora, raschiando in basso a destra si dovrebbe trovare dell’inchiostro. Con molta fatica riuscite a raschiare un altro po’ di bianchetto ed ecco comparire un altro segno. Cavolo! Eravate proprio convinti che fosse una “o”. Qualcuno però potrebbe dire che il nuovo segno che avete trovato sia soltanto un minuscolo insetto che è rimasto invischiato nel bianchetto e perciò la spiegazione della “o” andrebbe bene ugualmente. Se non siete troppo orgogliosi e, ancora una volta, chiusi mentalmente non la pensate affatto così. Fase 4: verifica.

OCR qSiete certi che la lettera sia una “q”? Se avete imparato la lezione della “o” allora dovreste pensare che ciò che avete trovato può non essere una “q”, anzi, che potrebbero essere diverse lettere o che avete raschiato male. Se siete onesti ed umili allora non andrete a combattere con la dialettica chi vi dice che quei segni sono in realtà una “g” e che, magari, ve lo dice proprio perché quel libro lo ha già letto. Se siete ragionevoli non potete asserire con assoluta certezza che nei vostri segni non c’è e non ci sarà mai una “g” e che pertanto chi sostiene la “g” debba senz’altro sbagliarsi.
Non basta che una teoria spieghi bene i fatti noti e ne preveda alcuni non noti. La posizione onesta, di fronte alla natura, è quella di ammettere di non sapere e, soprattutto, di non negare una cosa, solo perché sembra improbabile o inverosimile, solo perché non rientra nei nostri schemi. Diceva Luigi Pirandello: «Le assurdità della vita non hanno bisogno di parer verosimili, perché sono vere. All’opposto di quelle dell’arte che, per parer vere, hanno bisogno d’esseri verosimili.»

OCR g Nessun libro è stato vilipeso per la realizzazione di questo post

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Per cosa combatti

Se cerco il vocabolo “combattere” sul dizionario trovo che viene usato in diverse situazioni ma che tutte, o quasi, le volte che viene usato è accompagnato da una finalità. Per combattere è necessario uno scopo.

Chi è che oggi combatte? Per cosa combatte? Come combatte?
Viviamo in un’epoca di pace, soprattutto rispetto al secolo scorso che ha visto due conflitti mondiali, eppure si combatte ugualmente. Com’è possibile – ci chiediamo – che si combatta in una situazione geopolitica nella quale il nemico più vicino si trova in un altro continente? La battaglia c’è ma viene poco percepita perché si è spostata dal fronte materiale delle armi, delle bombe, della distruzione, dell’omicidio al fronte ideologico.

Il motore che alimenta queste “battaglie” è spesso l’indignazione, il malcontento, uno stato d’animo conseguenza di qualche sopruso subìto o di qualche egoismo che non ha trovato soddisfazione. Ciò di cui è difficile rendersi conto è che anche questo tipo di motore necessita di carburante. Un carburante che viene consumato lentamente ed inesorabilmente finché il motore è acceso, e questo carburante è la persona stessa che fa dell’indignazione il suo motore.
Quel desiderio che vuole la fine di una tal persona, colpevole o innocente che sia, per quanto pessima e deprecabile, finisce per rendere insensibili alla bellezza, incapaci di godere di quel che si ha. Prende pian piano il sopravvento sugli altri pensieri, pensieri belli e carichi di sentimento, creando come un sipario che scende sul mondo.

Sembra impossibile eppure è così: l’oggetto dell’indignazione si presenta nella pausa pranzo come argomento di conversazione; si insinua nelle lamentele (se non ci fosse *** sarebbe meglio); è collegato a tutto e tutto si collega a lui; è argomento di battute e perfino motivo di coesione tra persone che condividono lo stesso risentimento.
Più che vivere è vivacchiare; è perdersi quanto di più bello esiste per inseguire il proprio orgoglio ferito o una rabbia che non finisce mai.

I cavalieri valorosi combattevano il nemico per evitare ad ogni costo che, penetrando nella città, egli potesse distruggere quanto di bello era stato costruito, comprese la famiglia e le persone amate. Si combatteva il gradasso che stava distruggendo il debole; si combatteva per amore.
Se si ama qualcosa (o qualcuno) si è disposti a combattere per essa (egli); non si può combattere – nel senso più nobile del termine – se non per qualcosa (qualcuno) che si ama. L’indignazione non è amore: se l’amore chiama a combattere, l’indignazione chiama a vendicarsi.

La bella dama - Dicksee

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Levaci mano

Parlo a te.

Sì, proprio a te che pensi: «Sto bene come sto. Sono già felice e contento».
A te che non vuoi verificare personalmente; che non vuoi provare prima di giudicare.
A te che quando ti parlano seriamente devi sempre fare una battuta ridicola, possibilmente che manchi di rispetto a chi ti sta parlando.
A te che che sei ossessionato dalla politica o da altre manie e non perdi l’occasione di collegare qualsiasi cosa ti dice l’altro con il tuo repertorio di invettive contro la fazione opposta.
A te che non hai altro da fare che piombare sul blog altrui con la critica sempre pronta, con il cervello occupato nel trovare un cavillo dialettico.
A te che sei ormai monotematico nelle tue conversazioni: sempre a lamentarti; lamentarti sulla politica; lamentarti sulla società; lamentarti della gente; della paga; dei tuoi capricci non esauditi; delle angherie – non importa se inventate o no – perpetrate dal tuo “nemico”.
A te che passi la vita a combattere persone e organizzazioni senza chiederti quanto abbia senso combattere i tuoi simili, senza pensare alle vittime che calpesti con il tuo cavallo bianco nella carica contro i mulini a vento.
A te che mentre la gente muore di fame e per la povertà, fai la voce grossa per ottenere sempre più “diritti” e benefici per te stesso e altri benestanti.
A te che fai della rabbia, della lotta, dell’attacco verbale o fisico, dell’imposizione del tuo volere a colpi di sofismi, il tuo pane quotidiano, lo strumento per creare la tua utopia di una società che sarebbe perfetta perché mutilata di quell’aspetto che non hai compreso e che ritieni per tal motivo indegno dell’umanità stessa.
A te che passi interi giorni cercando argomenti per infangare il tuo “nemico” che sia realmente malvagio o no, non importa.
A te che il “nemico” ha sempre torto, o un povero illuso o un grande mentitore, e devi smontarlo pezzo per pezzo.

Dico a te. La chiami una vita felice questa?
Come si dice dalle mia parti: “Levaci mano”. Non è vita per esseri umani.

Maggie arrabbiata

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La vita non è un talk-show

«Il tuo ragionamento non regge, a prescindere da chi tu sia: stai sostenendo qualcosa che non mi piace e non posso darti ragione.  Ti devo smontare pezzo per pezzo, anche a costo di negare l’evidenza e di discutere sull’indiscutibile. Cambierò il significato dei termini, ti dimostrerò con sofismi che uno sbarbatello ha più esperienza di un novantenne cosicché tu non potrai far valere la tua esperienza su di me.
Rigetterò le prove che mi porterai, troverò il modo di farle diventare “non prove” e così ogni tua conclusione mancherà di fondamento. Non mi fido di te, pur di motivare la mia sfiducia sono disposto a canzonare il mio popolo, la mia gente, la mia nazione.
Se gli argomenti razionali non mi basteranno comincerò a smontare te, prima ancora delle tue idee, così qualsiasi cosa dirai sarà di scarso valore a prescindere dal contenuto. E se te ne accorgerai, io negherò così risulterai farneticante. Ti farò sentire sotto processo, sotto esame, sotto accusa così perderai il controllo e sarai più vulnerabile. Ti canzonerò facendo anche finta di darti ragione per poi riversarti addosso tutte le conseguenze più cupe che riesco ad immaginare. Farò leva sui sentimenti e sulle sensazioni affinché, in un momento di distrazione, il tuo ragionamento sia offuscato. Ti tenderò dei tranelli così ti tradirai e potrò penetrare le tue difese. E se non riuscirò da solo chiamerò altri ad aiutarmi.»

Distruggere, distruggere e ancora distruggere, mai costruire. Se sono queste le premesse di un dialogo, di un dibattito, di uno scambio d’opinioni – o in qualsiasi modo lo si voglia chiamare – non c’è speranza: meglio tacere fin dall’inizio. Quando si è veramente aperti al dialogo e si vuole conversare con qualcuno, si propongono costruttivamente argomenti, non si cerca di “abbattere” l’altro. Poveri noi, che facciamo dei nostri rapporti con gli altri, un intervento ad un talk-show.

Monoscopio

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Casseforti

Avete mai visto due persone di una certa intelligenza discutere su questioni che sono insolute da secoli? Parlare è bello, condividere opinioni è un’attività sana, ma quando tutto si trasforma in un “botta e risposta” dove ciascuno dei due contendenti cerca di far ragionare l’altro con l’obiettivo di condurlo dalla propria parte o, peggio, di fare bella figura di fronte ad un certo pubblico, non è una bella cosa da vedere.

Mi sembra una strana competizione tra uno che fabbrica casseforti per professione e l’altro che fa il ladro professionista. Ogni volta il fabbricante inventa un nuovo tipo di serratura, una lega più resistente, dei cardini migliori, ed ogni volta il ladro trova un baco, trova un artificio per “scardinare” la cassaforte dell’altro per quanto resistente e ben fatta possa essere.
Come risposta il fabbricante farà  una cassaforte migliore, ma anche il ladro si ingegnerà nel trovare sistemi sempre più efficaci per annullare il lavoro dell’altro.

È un circolo che non finisce mai. Nel caso della dialettica e della logica, entrambi si costruisce cassaforti ed entrambi si cerca di scardinare quelle avversarie fino allo sfinimento di uno dei due.
Ma quale vittoria può mai essere gratificante se viene ottenuta per sfinimento dell’avversario e non per la bontà del proprio pensiero? E deve per forza essere tutto visto come una sfida, uno scontro, un’occasione per mettere a tacere l’altro o per prevalere?

Gli antichi dicevano: “La parola è d’argento, il silenzio è d’oro” ma a volte tacere non si può. Allora come se ne esce?
Se si continua a puntare soltanto sulle parole non se ne può uscire, in nessun modo. Ci vuole dell’altro che può essere l’esperienza diretta, che può essere un’emozione, che può essere anche un momento di sofferenza.
Con le parole si può dire tutto ed il contrario di tutto, essendo anche logici e convincenti, ma spesso si conclude ben poco.

Cassaforte

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