Nella realtà, non misurabile

Prendiamo un quadro di un artista famoso, una creazione di grande bellezza. Tutti sappiamo che il suo valore non è dato soltanto dal costo della tela, dei pigmenti e della manodopera dell’artista. Possiamo anzi dire che il valore di un’opera d’arte ha ben poco a che fare con le sue caratteristiche fisiche o l’insieme delle sue proprietà misurabili e scientificamente interpretabili. La bellezza non è misurabile ma esiste, non c’è sensore al mondo in grado di rilevarla ma tutti possiamo apprezzarla.

Certo, c’è chi potrebbe dire che il valore estetico è qualcosa di arbitrariamente deciso dall’uomo o che la bellezza è qualcosa di soggettivo, ma chi parla così ha quanto meno la memoria corta: le mode passano; la bellezza resta.
Non stiamo parlando del valore nominale di una banconota. Da qualsiasi posto sperduto del mondo una persona possa provenire, la reazione davanti alla bellezza è la stessa – purché sia vera bellezza e non l’opinabile gusto dettato dalla critica o dalla moda del momento. Se proprio non vogliamo considerare un’opera dell’uomo, verifichiamo quante persone non apprezzerebbero lo spettacolo di un tramonto mozzafiato. La bellezza, è una delle poche cose universali che l’uomo conosca.

Universale, non misurabile, intangibile, ma reale, presente, sperimentabile con gli strumenti del cuore dell’uomo, i quali sono validi tanto quanto i rivelatori al germanio iperpuro. La porzione della realtà che si rivela investigabile con i soli strumenti che la scienza mette a disposizione è marginale. Forse aumenterà, forse resterà tale; non lasciamo che il materialismo riduca la nostra esperienza ad un foglio di calcolo. Cominciamo ad apprezzare la bellezza di una bella opera d’arte come questa:

Natività di Lorenzo LottoNatività – Lorenzo Lotto (1530 circa)

Consideratela il mio augurio di un felice Natale e buone feste.

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Un’altra storia

Chiudevo il post precedente con una riflessione lasciata a metà sul nesso tra eventi probabili/improbabili ed eventi possibili/impossibili ed anche eventi che avvengono/ non avvengono.
Ho visto usare il concetto di “probabilità” in diversi modi spesso non propriamente corretti, soprattutto se “l’utilizzatore” era qualcuno che usava il termine secondo una definizione più popolare che scientifica. Credo necessario fare un po’ di chiarezza.

Innanzitutto la probabilità è – matematicamente – il rapporto tra il numero di volte che un evento si verifica e il numero di volte che le condizioni iniziali sono state replicate.  Per fare un esempio, se Robin Hood partecipa al torneo della contea e nell’arco di tutta la competizione scocca la sua freccia cento volte sbagliando il bersaglio una volta, possiamo dire che la probabilità di sbagliare è una su cento. Nessuno però ci garantisce che accumulando tutte le volte che Robin Hood ha scoccato la freccia in tutta la sua vita ci sia stata una percentuale di errori diversa da una su cento. La probabilità misurata in questo modo è infatti un assunto: supponiamo che quanto sia valido per cento frecce lo sia anche per un milione o un miliardo. Tanto più grande è il campione (il numero di frecce), tanto più la probabilità misurata si avvicina a quella reale. Nulla di definitivo però!
Come possiamo osservare, tutto il discorso ha senso per eventi ripetibili e/o ripetuti: di qualcosa della quale abbiamo un’esperienza unica ed irripetibile, neanche nelle condizioni iniziali, non ha senso parlare di probabilità.

A proposito invece degli eventi possibili o impossibili possiamo citare Charles Kittel ed Herbert Kroemer:

Il significato di mai
È stato detto che “sei scimmie che si mettessero a battere a casaccio su macchine da scrivere per milioni di anni finirebbero inevitabilmente per scrivere tutti i libri contenuti nel British Museum”7. Questa affermazione è assurda, poiché porta a conclusioni false sui numeri molto grandi. Vediamo piuttosto se tutte le scimmie del nostro pianeta, in un tempo pari all’intera vita dell’universo, avrebbero potuto scrivere anche un solo libro dato8.
[...]9
la probabilità che l’Amleto sia battuto a macchina da una scimmia in un tempo pari all’età dell’universo è approssimativamente 10-164316. La probabilità è dunque zero a tutti gli effetti, il che vuol dire che l’affermazione riportata all’inizio è priva di senso: nella produzione letteraria delle scimmie non comparirà mai un libro, né tanto meno una biblioteca.
7 - J. Jeans, Mysterious Universe (Cambridge University Press, Cambridge 1930) p. 4. L’affermazione è attribuita a Huxley.
8 - Luis Borges, Finzioni. La biblioteca di Babele, trad. it. (Einaudi, Torino 1978)
9 - dimostrazione a p. 58 di Charles Kittel, Herbert Kroemer, Termodinamica statististica, Boringhieri (1985)

Da Charles Kittel, Herbert Kroemer, Termodinamica statististica,

 Boringhieri (1985) p. 57-58

Scimmia che scrive

Facciamo attenzione a come ci serviamo della statistica e della probabilità per dimostrare o confutare le vicende della vita: le certezze in questo campo sono ben poche e molte di più le insidie. Meglio valutare la verità di un argomento usando altri strumenti.

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L’olio di Lorenzo

Un film che mi ha fatto molto riflettere per il suo alto contenuto di valori, la storia vera di Augusto e Michaela Odone e del loro figlio Lorenzo. All’età di cinque anni a Lorenzo viene diagnosticata l’adrenoleucodistrofia, malattia rara, dolorosa e mortale per la quale non esistevano cure. Mentre la malattia del bambino progredisce paralizzandolo e sottoponendolo a tormenti che egli sopporta eroicamente, Augusto e Michaela non si danno per vinti.

Una mamma ed un papà che conoscevano poco o nulla della medicina e della biochimica ma che, con una forza che definirei “sovrumana”, hanno affrontato di petto la situazione studiando ogni articolo scientifico che, anche marginalmente, poteva essere correlato alla malattia del figlio. Dopo aver addirittura organizzato il primo simposio internazionale sull’adrenoleucodistrofia, nonostante lo scetticismo e la reticenza dell’ortodossia accademica degli scienziati, gli Odone hanno sviluppato “l’olio di Lorenzo“, una mistura di acidi grassi che inibisce l’agente dannoso nella malattia (non ripara i danni ma ne evita di nuovi).

Si possono fare diverse riflessioni su questa storia.
A volte noi scienziati non ci mostriamo abbastanza aperti alla realtà mostrando, come prima reazione, uno scetticismo che si basa su un’eccessiva e mal riposta fiducia sulle sole conoscenze accademiche “certificate”. Anche chi non è scienziato si lascia andare, in alcuni casi, a questo genere di resistenza ma, come si apprende da questa storia, dare una minima occasione alla novità non è solo onesto ma è anche proficuo per tutti.
Nel film alcuni genitori esasperati si oppongono agli Odone perché ritengono più opportuno accelerare la morte del figlio per “porre fine alle sue sofferenze”. Inutile ribadire quale dei due atteggiamenti abbia effettivamente prodotto un grande beneficio per la collettività. Significative le parole di disprezzo scaturite dalla bocca di una stanca infermiera riferendosi allo stato di coscienza di Lorenzo: “non c’è nessuno in casa”. Lorenzo è morto all’età di 30 anni (molto più di quanto prospettato da un decorso non ostacolato della malattia) cosciente ed in grado di comunicare con le dita e gli occhi.
Ultimo ma non meno importante il coraggio e la combattività, di Lorenzo per primo e dei suoi genitori dopo. Il dramma, il male della malattia non sono l’ultima parola: questa storia è un caso notevole di una disgrazia che alla fine conduce a qualcosa di grande. Ascoltando i racconti di chi vive drammi simili si può intravedere la stessa carica di senso e di coraggio, la volontà e la forza di trasformare un dramma in un motivo di vita e di speranza.

L'olio di Lorenzo

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L’immagine sulla moneta

Prendiamo una qualsiasi moneta, meglio ancora se antica. Sulla sua superficie troviamo il simbolo o l’iscrizione dell’autorità che l’ha emessa, oltre al suo valore nominale. Valore ben diverso da quello intrinseco, che è il costo dei materiali e della fabbricazione della moneta stessa. Oggi la differenza fra questi due valori è molto grande: il metallo di cui è fatta una moneta ha un valore ben più inferiore a quello su di essa riportato. Eppure nessuno si sognerebbe di gettar via banconote solo perché sono dei pezzi di carta. Chiunque che sappia cosa sia il denaro comprende infatti che il valore della banconota non sta nella sua sostanza materiale ma che c’è un valore aggiunto di ordine non materiale.

Ritorniamo alla moneta. Se è antica, molto antica, potremmo trovare l’immagine del regnante che l’ha coniata. Perché una persona dovrebbe prendersi la briga di stampare la propria faccia su tutte le monete? Mettendo da parte cose come la megalomania, un motivo è certamente quello di garantire “con la propria faccia” il valore nominale della moneta. La mia faccia, il mio simbolo, il mio nome sulla moneta dice anche “questa l’ho fatta io” e “ricorda che l’uso, il valore, di questa moneta proviene da me”. Chi ha in mano quella moneta sa che il suo uso “naturale” è quello che rispetta quell’immagine e quel valore che essa riporta; sa che il possesso della moneta o il sapere che è fatta di metallo non ne cambia né il valore né la natura.

E cosa possiamo dire di ciascuno di noi? Condividiamo un cuore umano, una regione della coscienza che reca un’impronta, qualcosa che ci dà senso e valore, sebbene differiamo in tanti punti - come differivano le monete (sempre artigianali) coniate in passato ma pur sempre realizzate con lo stessa immagine.

Moneta romana

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Esperimento con il bianchetto

Supponiamo che un vostro amico burlone abbia preso il libro che state leggendo e ve lo abbia restituito dopo aver passato uno strato di bianchetto sul nome di un personaggio del quale non avevate ancora letto nulla. Beh, non potete proprio sopravvivere all’ignoranza di quel nome, perciò vi armate con una lametta e cominciate a raschiare via il bianchetto. Bisogna però fare molta attenzione perché potreste portarvi via anche l’inchiostro.Segni di inchiostro

Dopo un po’ che raschiate appare qualche segmento di una lettera. Uhm… All’inizio vi sembrano segni senza senso. Qualcuno potrebbe anche dubitare che lì sotto vi possa mai essere stato un reale simbolo della vostra lingua e potrebbe anche dire che l’autore del libro, scrivendo un nome alieno, abbia messo macchie casuali di inchiostro. Fase uno: elementi sconosciuti che richiedono interpretazione.

OCR oDopo aver fissato le macchie per un po’, aiutandovi con il testo circostante, capite che la lettera dev’essere dell’alfabeto latino e la disposizione dei segni vi suggerisce che la lettera misteriosa sia una “o”. Qualcuno potrebbe, a questo punto, dichiarare chiusa la faccenda e passare alla lettera successiva. Fase due: teoria.

Bene! Avete una spiegazione che funziona ma, se non siete cattivi utilizzatori del rasoio di Occam, non potete non chiedervi se quei segni sono veramente una “o” o se avete invece preso una cantonata. Una spiegazione semplicissima e perfettamente funzionante non è per forza la migliore, quella che descrive la realtà, la verità.
Vi viene a trovare una vostra amica che vi dice: «Qui c’è un cerchio ma la lettera potrebbe acnhe essere una “q”». Avete due possibilità: ascoltare la vostra amica oppure prenderla per una scocciatrice che vi vuole dare torto sulla vostra bellissima teoria della “o”. Se non siete chiusi mentalmente vi metterete a raschiare intorno per cercare nuovi elementi. Fase tre: apertura mentale. Swgni di inchiostro

Se è vero che lì c’è una “q” allora, raschiando in basso a destra si dovrebbe trovare dell’inchiostro. Con molta fatica riuscite a raschiare un altro po’ di bianchetto ed ecco comparire un altro segno. Cavolo! Eravate proprio convinti che fosse una “o”. Qualcuno però potrebbe dire che il nuovo segno che avete trovato sia soltanto un minuscolo insetto che è rimasto invischiato nel bianchetto e perciò la spiegazione della “o” andrebbe bene ugualmente. Se non siete troppo orgogliosi e, ancora una volta, chiusi mentalmente non la pensate affatto così. Fase 4: verifica.

OCR qSiete certi che la lettera sia una “q”? Se avete imparato la lezione della “o” allora dovreste pensare che ciò che avete trovato può non essere una “q”, anzi, che potrebbero essere diverse lettere o che avete raschiato male. Se siete onesti ed umili allora non andrete a combattere con la dialettica chi vi dice che quei segni sono in realtà una “g” e che, magari, ve lo dice proprio perché quel libro lo ha già letto. Se siete ragionevoli non potete asserire con assoluta certezza che nei vostri segni non c’è e non ci sarà mai una “g” e che pertanto chi sostiene la “g” debba senz’altro sbagliarsi.
Non basta che una teoria spieghi bene i fatti noti e ne preveda alcuni non noti. La posizione onesta, di fronte alla natura, è quella di ammettere di non sapere e, soprattutto, di non negare una cosa, solo perché sembra improbabile o inverosimile, solo perché non rientra nei nostri schemi. Diceva Luigi Pirandello: «Le assurdità della vita non hanno bisogno di parer verosimili, perché sono vere. All’opposto di quelle dell’arte che, per parer vere, hanno bisogno d’esseri verosimili.»

OCR g Nessun libro è stato vilipeso per la realizzazione di questo post

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La dimostrazione sbagliata

La prima volta che ho aiutato seriamente qualcuno nello studio non è stato affatto semplice. Finché si trattava di passare qualche appunto o spiegare solo qualche passaggio me l’ero sempre cavata in poco tempo: in fondo, anche se c’era qualcosa che non ricordavo bene potevo sempre dedurre la situazione dal contesto e riempire il buco facendo ricorso anche a ciò che invece mi ricordavo.

Quando dovetti invece cimentarmi nel fare il (quasi) docente ero totalmente impreparato, vuoi perché ancora non avevo terminato i miei studi e non avevo molto tempo, vuoi perché un’attività del genere richiede una preparazione che non sia soltanto conoscere bene quel che si è studiato.
Capitò allora un problema nel quale si richiedeva una particolare preparazione sulla dinamica di rotazione, argomento che -guarda caso – quando ero studente non fu trattato adeguatamente lasciando una lacuna. Senza perdermi d’animo attaccai il problema della persona che aiutavo con una dimostrazione matematica che portò ad una bella formula da applicare per risolvere l’esercizio. Ah, che soddisfazione: ancora una volta me l’ero cavata.
Lo svolgimento fu consegnato al docente e fu valutato… malissimo. Da quel giorno la persona che aiutavo diffidò di tutte le mie “dimostrazioni” che non fossero replicate tali e quali su qualche libro. Dopo quella volta mi sono messo a studiare diverse cose da autodidatta cercando di colmare le lacune e di essere un po’ più preparato.

Ci sono almeno tre riflessioni che si possono fare a partire da questa storia.
Innanzitutto dimostra che confidare troppo in sé stessi porta prima o poi a sbagliare. Nessuno è perfetto – si dice – e questa imperfezione non la si può mettere da parte, ignorare. Chi fa affidamento solo sull’uomo, sull’umanità, deve sapere che questa fallibilità può rovinare anche il piano più studiato e che la sua fiducia potrà essere tradita in ogni momento.
In secondo luogo fa riflettere la diffidenza di fronte a tutte le altre dimostrazioni che vennero dopo, cose che ho fatto fino all’altro ieri per il mio lavoro e che nella maggior parte dei casi si sono rivelate corrette. Noi dobbiamo sempre verificare e vagliare tutto, con la nostra esperienza e con la verifica in prima persona però dobbiamo evitare gli eccessi: il rifiuto a priori di tutto quanto ci viene detto per via di pochi errori.
Terzo ed ultimo, se non mi fossi cimentato nell’aiuto scolastico e se non fosse mai avvenuto quel che abbiamo letto qua sopra, io sarei rimasto con le mie lacune, non avrei imparato a verificare quel che facevo, avrei continuato a riporre erroneamente la mia fiducia nelle mie sole capacità esponendomi a guai ben peggiori, non avrei mai scritto questo post con tutte le conclusioni che ne conseguono. In parole povere, anche quella sconfitta, quel momento di male e di sofferenza alla fine hanno avuto un senso, uno scopo, che in ultima analisi può anche riparare il danno riportato dalla persona che aiutavo (almeno si spera).

Dimostrazione

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La fine del seme

Era un frutto succulento ma è stato barbaramente sbucciato, tagliato, mangiato. Alla fine del supplizio era rimasto solo un seme gettato, scartato, lanciato al suolo. È sepolto, la terra lo schiaccia, la luce non lo raggiunge. È finito.

Eppure… eppure c’è come una sensazione che non sia finito tutto lì, che dopo tutto quello che è accaduto ancora manchi qualcosa. Anzi, manca la cosa più importante, la cosa più incredibile, quella svolta improvvisa che dà un senso a quanto accaduto.

Seme germoglio

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Il paradosso del salvatore

Trigun è un anime di diversi anni fa ambientato in un futuro “far west” su un altro pianeta. Il protagonista, Vash the stampede, detto anche “il tifone umanoide” si ritrova ad affrontare i banditi del nuovo far west con l’intento di salvare sia le vittime, sia i carnefici. Ciononostante la popolazione lo teme e lui è il maggiore ricercato.

In una delle puntate vicine alla conclusione della serie viene proposto il paradosso del salvatore - termine che mi sono inventato per descrivere il problema. Vash bambino osserva una farfalla impigliata sulla tela di un ragno il quale le si avvicina per divorare la preda. Come agire? Se si libera la farfalla il ragno morirà di fame; se non si libera la farfalla il ragno la ucciderà. In entrambi i casi c’è sempre una vittima.

Trigun cicatriciNella stessa scena – permettetemi lo spoiler – il fratello cattivo di Vash propone la sua soluzione uccidendo il ragno e manifestando quello che diventerà il suo progetto malvagio: estinguere la razza umana perché, come il ragno, giudicata dannosa per il cosmo. La soluzione di Vash è invece il sacrificio: il suo corpo è pieno di cicatrici; martoriato e sfigurato da tutte le volte che si è messo in mezzo per salvare tutti. Difendendo sia l’innocente che il colpevole si è beccato il male al posto loro.
Alla fine – permettetemi quest’altro spoiler – capisce che questo suo agire non è sufficiente. La sfida più importante non è la difesa incondizionata di buoni e cattivi ma è educativa: bisogna insegnare all’aggressore una vita ordinata, retta, degna, orientata al bene. A cominciare dal fratello cattivo.

Un anime che lascia molto spazio alla riflessione: dal senso del male al problema educativo; dal tipico fraintendimento dell’operato dei buoni al valore del sacrificio.

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Pretese impossibili

Due contadini conversavano sotto il sole estivo. Il primo dice all’altro:
«Quanta luce! È ovunque: si diffonde sui campi, sui colli, sulle spighe di grano rendendole splendenti. Grazie al Sole, che regalandoci i suoi raggi fa crescere il raccolto. Non è meraviglioso?»
L’altro risponde:
«Ma sotto quell’albero non c’è luce! Se il Sole fosse così generoso illuminerebbe anche sotto l’albero e io avrei altri metri quadri da coltivare.»

Il secondo contadino è uno di quelli che magari vorrebbero fare un’altra cosa nella vita e vivono il loro lavoro come una grande fatica. Nel loro caso, il raccolto dipende solo dalle non sufficientemente retribuite energie che il contadino spende per arare, seminare, irrigare, concimare e mietere. In quest’ottica, se c’è, il Sole è un atto dovuto. È per questo motivo che contesta il suo collega sulla luce proponendogli il caso dell’ombra. Lo sfida per chiedergli: «Se la luce è davvero così gratuita perché non c’è anche dove io vedo l’ombra? Di giusto, avrebbe dovuto esserci luce anche dove c’è ombra».

Quell’ombra – minima rispetto a tutto il resto del panorama che può vedere con il suo occhio – è necessaria e utile. Se per assurdo, avessimo il potere di assecondare quell’uomo, per realizzare il suo mondo “perfetto”, di sola luce, dovremmo negare agli oggetti la capacità di essere opachi e di riflettere quindi parte della luce che ricevono. Ma in questo caso lui per primo sarebbe cieco, perché non ci sarebbe luce raccolta dal suo occhio opaco e non ci sarebbe luce da raccogliere senza oggetti opachi che la deviino verso l’occhio. A tutti gli effetti, la sua proposta di mondo migliore sarebbe un mondo peggiore.
Quando i raggi cominciarono a picchiare forte sul capo di quel contadino – facendolo pure sudare – si recò proprio verso quell’ombra, oggetto del suo contestare.

Evitiamo certo pessimismo apparentemente “logico” che sembra giustificare il nostro approccio riduttivo con la vita: corriamo il rischio di concentrarci sul peggio e di ignorare la bellezza e la gratuità di ciò che ci circonda; rischiamo cioè di perderci un vero tesoro per non aver visto il senso nel negativo che notiamo.

Campo di grano

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Il bullone lunare

Il nonno di Eddie faceva l’astronauta. Fu uno dei pochi uomini che posarono il loro piede sul suolo lunare. Una cosa incredibile che solo pochissime persone poterono fare grazie al fatto, anch’esso stupefacente di per sé, di essere stati gli unici ad aver raggiunto il satellite; da sempre oggetto di grandi sogni e ambizioni; da sempre lassù nel cielo ad indicare una meta troppo lontana per essere raggiunta dai comuni mortali. Lui e pochi altri invece non si limitarono a guardarla ma la toccarono con le loro mani.

Come in tutte le missioni lunari c’era della strumentazione che doveva essere lasciata sul satellite. Poco prima di andare via, il nonno di Eddie si era accorto di un bullone staccatosi da quella strumentazione e caduto sul suolo lunare. Pensò che quel bullone cosparso della polvere della Luna potesse essere un bel souvenir e se lo portò dietro.
Un giorno, Eddie ricevette in regalo quel prezioso bullone da suo nonno. Era un oggetto unico in tutto il mondo.

Ritornato a casa, Eddie pose il prezioso oggetto sulla scrivania e andò a dormire. L’indomani, mentre era a scuola come tutti i giorni, la donna delle pulizie vide quel bullone sporco di polvere, probabilmente pieno di germi, e lo buttò via pensando: «I ragazzini di oggi si portano in casa tutte le porcherie che trovano per strada».
La superficialità di chi non conosce i veri motivi delle azioni altrui, che non sa quale sia il vero senso che certi oggetti hanno, che non conosce il senso di certi ragionamenti apparentemente fallaci o incomprensibili finisce per utilizzare i propri paradigmi per giudicare e così sbagliare: chi ha conosciuto solo opportunismo userà questo paradigma per giudicare l’altruista e chi conosce solo la menzogna userà il paradigma scettico per giudicare la persona sincera.
Non sarebbe ora di lasciare perdere i paradigmi e dedicarsi alla realtà di chi abbiamo di fronte?

Bullone

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