Regali

Ancora a proposito di cose date per scontate, ignorate perché considerate sistematiche e matematicamente dovute come se averle fosse una legge fisica, ce n’è una particolare che forse è la più importante di tutte.

Le persone che effettivamente vivono come punti isolati, provvedendo completamente a sé stesse e considerando il mondo come un “do ut des”, sono davvero poche e non fanno una bella vita, proprio perché a mancare è quella componente fondamentale alla quale nessun essere umano può rinunciare senza soffrire almeno un poco.
Una cosa così fondamentale da provocare così grandi devastazioni nel cuore non può essere devalorizzata al punto da ritenerla un bene di basso valore, elargito a titolo gratuito perché “io sono io e me lo merito”.

Come ho cercato di dire nel post precedente, non esiste entità che merita l’assegnazione di un valore così basso. Neanche l’aria che respiriamo, così abbondante, naturalmente presente e fruita ad ogni inalazione, è banale che ci sia: basta un po’ di inquinamento, il ritrovarsi sott’acqua o nello spazio, avere qualche problema respiratorio, per accorgersi che il poter respirare è un regalo prezioso.
Di tutte le cose che riceviamo, ce n’è quindi una per la quale sarebbe letteralmente delittuoso ignorarla perché da essa proviene buona parte delle altre. Il più grande delitto che possiamo fare è non renderci conto di quanto siamo amati.

Regalo

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Scontato

Come i miei lettori ormai sapranno fino alla noia, mi sono trasferito. Ero preparato a dover fare delle rinunce ma una cosa è certa: capisco solo adesso che internet h24 non era scontato averlo, che il posto di lavoro non è scontato che sia vicino a casa e che ci voglia meno di trenta minuti per raggiungerlo, che non è scontato avere dei momenti tranquilli nella giornata per poter scrivere due righe sul blog.

Oggi un viceministro ha sostenuto che un ventottenne che ancora studia per ottenere la laurea (al di là degli studenti lavoratori) sarebbe definibile “sfigato”.
Io ho fatto l’ITIS e a 28 anni sto ultimando il dottorato di ricerca in fisica nucleare, dopo aver già preso una laurea triennale ed una laurea specialistica a pieni voti. Ciononostante non condivido affatto che una persona della mia età che stia ancora studiando per la laurea debba essere definito “sfigato”. Chi parla in questo modo e chi difende quest’ottica del “o sei secchione o sei sfigato” non ha mai avuto a che fare con ben altre realtà, di gente dotatissima stroncata dal sistema universitario, provetti Leonardo da Vinci classificati come “brocchi” da esaminatori incapaci, potenziali Einstein distrutti da un sistema che non contempla metodi di studio alternativi ma pur validi, personaggi con il q.i. di Steven Hawking ridotti al fuori corso dalla (s)fortuna di Paperino.
In qualità di “secchione”, so che non è scontato che un buon cervello porti subito alla laurea. Sono infatti certo che coloro i quali si definiscono “secchioni” per dare dello “sfigato” agli altri cadrebbero anche loro in questa seconda categoria se avessero meno fortuna, meno salute, meno insegnanti di talento o un metodo di studio erroneamente giudicato sbagliato. Il secchione fa affidamento su molte cose che, finché ci sono, non si rende neanche conto di quanto sia enormemente fortunato ad averle.

Non ci rendiamo mai conto del valore delle cose che abbiamo finché non ce le portano via. Anzi, non ci rendiamo conto che averle non è nemmeno poi così scontato. Tutto ciò che abbiamo, per quanto accessibile e a portata di mano ci sembri, non è banale, né dovuto, né certo. Piuttosto, riconosciamo che buona parte dei nostri successi non sarebbero tali senza quelle decine di condizioni al contorno che ci hanno favorito, quelle cose sulle quali non meditiamo neanche un istante ma per le quali dovremmo essere più che grati.

Laurea

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Giochi di carte

Nel periodo natalizio ci si incontra con amici e parenti fra le mura domestiche e si trascorre la giornata non solo stando insieme o chiacchierando, ma anche giocando a carte. I giochi di carte sono tantissimi, ciascuno con le sue regole e con la sua scala di valori associati alle varie carte.

Personalmente mi sono sempre perso nelle “regole del gioco” mentre mi venivano esposte e, giocando ugualmente, non è che abbia fatto una gran bella figura. Il problema non è tanto la conoscenza delle regole e dei valori delle carte a rendere vincente un giocatore, quanto la capacità di giocare seguendo delle logiche che trascendano le regole stesse. Ad esempio, il poker si gioca soprattutto su fattori che non c’entrano per nulla con le regole del gioco: saper bluffare; apparire neutrali in viso sia quando il proprio mazzo è perdente, sia quando è vincente etc. Stesso discorso per gli scacchi; identico discorso per la dialettica – c’è chi, con le parole, ti fa dire quel che vuole e poi ti frega.

L’applicazione rigida e asettica delle regole non è garanzia di vittoria, anzi è un possibile fattore di sconfitta. Ciò non vale solo per il tavolo da gioco, ma anche per la realtà e per la scienza. Se studio un fenomeno del reale e ne scopro le leggi devo stare attento a come le applico ad altri fenomeni che non ho ancora studiato, perché rischio di andare completamente fuori strada; di spiegare un fenomeno con un meccanismo che apparentemente funziona ma che è estraneo, nei fatti, alla realtà stessa del fenomeno. Come chi ottiene ragione con la dialettica non è detto che abbia realmente ragione.
Ancora una volta, la realtà è molto più ampia di quanto pensiamo.

Poker

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Lo scoglio addobbato

Chi usa immergersi con la maschera, nuotando fra gli scogli, sa che talvolta si può incontrare qualche roccia “addobbata” come fosse un albero di natale. Non è la mania di qualche burlone filo-natalizio né uno scherzo della natura: si tratta di esche finte.
I pescatori lanciano le loro esche colorate – e costosissime – fra gli scogli perché hanno maggiore probabilità di pescare qualche pesce ricercato. Il rovescio della medaglia è che capita sovente di incastrare l’amo nelle irregolarità di qualche roccia del fondale; magari lo stesso sasso dove tutti i pescatori che frequentano quel luogo commettono lo stesso errore. Quando capita, al pescatore non resta che tagliare il filo e procurarsi un’altra esca.

Pur non avendo mai pescato neanche una sardina in tutta la mia vita, ho una collezione di ami, esche e pezzetti di filo – tra gli scogli c’era anche un piccolo pesciolino di gomma, chissà quanto sarà costato all’incauto pescatore…
Il pescatore che ha esperienza sa dove lanciare l’esca e come tirare il mulinello per evitare di perderla su qualche scoglio. Se tiene alla sua esca è disposto a tuffarsi per recuperarla. L’esperienza ed il senso del valore non crescono però sugli alberi.

Forse quello scoglio “addobbato” è proprio lì per insegnare qualcosa: c’è chi dell’errore fa tesoro, ascolta la voce di chi ha più esperienza ed impara il valore di ciò che rischia; c’è però chi vuole vivere sereno, abbassa mentalmente e di proposito il valore dell’esca cosicché, anche lasciandola sistematicamente sullo scoglio, possa raccontarsi di non aver perso nulla di valore. Purtroppo i valori della vita sono ben più preziosi di qualche costosa esca e non dovrebbero essere barattati per una vita apparentemente senza pensieri.

Esca finta

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L’olio di Lorenzo

Un film che mi ha fatto molto riflettere per il suo alto contenuto di valori, la storia vera di Augusto e Michaela Odone e del loro figlio Lorenzo. All’età di cinque anni a Lorenzo viene diagnosticata l’adrenoleucodistrofia, malattia rara, dolorosa e mortale per la quale non esistevano cure. Mentre la malattia del bambino progredisce paralizzandolo e sottoponendolo a tormenti che egli sopporta eroicamente, Augusto e Michaela non si danno per vinti.

Una mamma ed un papà che conoscevano poco o nulla della medicina e della biochimica ma che, con una forza che definirei “sovrumana”, hanno affrontato di petto la situazione studiando ogni articolo scientifico che, anche marginalmente, poteva essere correlato alla malattia del figlio. Dopo aver addirittura organizzato il primo simposio internazionale sull’adrenoleucodistrofia, nonostante lo scetticismo e la reticenza dell’ortodossia accademica degli scienziati, gli Odone hanno sviluppato “l’olio di Lorenzo“, una mistura di acidi grassi che inibisce l’agente dannoso nella malattia (non ripara i danni ma ne evita di nuovi).

Si possono fare diverse riflessioni su questa storia.
A volte noi scienziati non ci mostriamo abbastanza aperti alla realtà mostrando, come prima reazione, uno scetticismo che si basa su un’eccessiva e mal riposta fiducia sulle sole conoscenze accademiche “certificate”. Anche chi non è scienziato si lascia andare, in alcuni casi, a questo genere di resistenza ma, come si apprende da questa storia, dare una minima occasione alla novità non è solo onesto ma è anche proficuo per tutti.
Nel film alcuni genitori esasperati si oppongono agli Odone perché ritengono più opportuno accelerare la morte del figlio per “porre fine alle sue sofferenze”. Inutile ribadire quale dei due atteggiamenti abbia effettivamente prodotto un grande beneficio per la collettività. Significative le parole di disprezzo scaturite dalla bocca di una stanca infermiera riferendosi allo stato di coscienza di Lorenzo: “non c’è nessuno in casa”. Lorenzo è morto all’età di 30 anni (molto più di quanto prospettato da un decorso non ostacolato della malattia) cosciente ed in grado di comunicare con le dita e gli occhi.
Ultimo ma non meno importante il coraggio e la combattività, di Lorenzo per primo e dei suoi genitori dopo. Il dramma, il male della malattia non sono l’ultima parola: questa storia è un caso notevole di una disgrazia che alla fine conduce a qualcosa di grande. Ascoltando i racconti di chi vive drammi simili si può intravedere la stessa carica di senso e di coraggio, la volontà e la forza di trasformare un dramma in un motivo di vita e di speranza.

L'olio di Lorenzo

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L’immagine sulla moneta

Prendiamo una qualsiasi moneta, meglio ancora se antica. Sulla sua superficie troviamo il simbolo o l’iscrizione dell’autorità che l’ha emessa, oltre al suo valore nominale. Valore ben diverso da quello intrinseco, che è il costo dei materiali e della fabbricazione della moneta stessa. Oggi la differenza fra questi due valori è molto grande: il metallo di cui è fatta una moneta ha un valore ben più inferiore a quello su di essa riportato. Eppure nessuno si sognerebbe di gettar via banconote solo perché sono dei pezzi di carta. Chiunque che sappia cosa sia il denaro comprende infatti che il valore della banconota non sta nella sua sostanza materiale ma che c’è un valore aggiunto di ordine non materiale.

Ritorniamo alla moneta. Se è antica, molto antica, potremmo trovare l’immagine del regnante che l’ha coniata. Perché una persona dovrebbe prendersi la briga di stampare la propria faccia su tutte le monete? Mettendo da parte cose come la megalomania, un motivo è certamente quello di garantire “con la propria faccia” il valore nominale della moneta. La mia faccia, il mio simbolo, il mio nome sulla moneta dice anche “questa l’ho fatta io” e “ricorda che l’uso, il valore, di questa moneta proviene da me”. Chi ha in mano quella moneta sa che il suo uso “naturale” è quello che rispetta quell’immagine e quel valore che essa riporta; sa che il possesso della moneta o il sapere che è fatta di metallo non ne cambia né il valore né la natura.

E cosa possiamo dire di ciascuno di noi? Condividiamo un cuore umano, una regione della coscienza che reca un’impronta, qualcosa che ci dà senso e valore, sebbene differiamo in tanti punti - come differivano le monete (sempre artigianali) coniate in passato ma pur sempre realizzate con lo stessa immagine.

Moneta romana

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Obsolescenza e caducità

Diceva la quercia all’abete: «Ma come puoi ancora sostenere il verde quando oggi è normalissimo portare il giallo e il bruno? La tua posizione è vecchia, ravvediti». L’abete taceva. «Sciocco! Ormai quelli come te sono impopolari, vedrai come fra qualche anno non ci sarete più».

Passò qualche mese e la quercia riprese: «Ma guardati! Ancora con quella opprimente roba verde addosso… Non vedi quanto sono libera? I miei rami sono leggeri; i tuoi sono appesantiti da quella roba preistorica che porti addosso» «Non sai quel che dici, quercia – rispondeva l’abete – vedrai quanto le tue mode siano passeggere» «Hahaha – rideva la quercia – non sono mode, è la modernità»

Finalmente arrivò la primavera e tutti gli alberi del bosco cominciarono a produrre verdi germogli. L’abete disse allora alla quercia: «Hai visto? Ora sono tutti verdi come me e faresti bene a mettere su qualche foglia se non vuoi seccare» Ma per orgoglio la quercia non ascoltò. «Siete tutti omologati ma io mi distinguo dalla massa» pensò.
Quando, in estate, passò di lì il taglialegna quella quercia secca fu tagliata.

Si dice obsoleto un dispositivo o un vocabolo che sia stato soppiantato da qualcosa di più moderno e più efficiente. Non tutto diventa però obsoleto, anzi sono più le cose intramontabili che quelle soggette alle mode del tempo. Facciamo attenzione a non rifiutare un concetto o un’idea o un consiglio o un valore bollandolo come “obsoleto”, come qualcosa di anacronistico, non al passo coi tempi. La nostra umanità non è qualcosa da deformare a piacimento, secondo i capricci della società e dei costumi, ma ha un nucleo “sempreverde”, un cuore che, riconoscendo i valori intramontabili e la bellezza, funge da “bussola” della coscienza.

Sempreverde

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L’eccentrico imprenditore

Quando l’auto aveva nuovamente girato l’angolo Sabrina era ancora lì, a sorridere con le labbra ma non con gli occhi a quelle vetture che transitavano per la strada a passo d’uomo. Alcune si fermavano un po’ più avanti, alcune un po’ prima e caricavano le altre ragazze che, come Sabrina aspettavano.
L’eccentrico guidatore era già passato di lì per altri motivi ma, passando veloce, non aveva potuto fare a meno di notare il viso di Sabrina fra gli altri. Perciò aveva fatto il giro dell’isolato tornando indietro e mescolandosi agli altri automobilisti.

Lei si accomodò nei sedili posteriori e l’auto ripartì. Aveva notato lo sguardo strano del guidatore attraverso lo specchio retrovisore: sembrava guardare indietro, a quel luogo, come un profugo che avesse appena attraversato il confine del suo paese in guerra.
Di sguardi strani ne aveva visti abbastanza nonostante la sua carriera fosse iniziata da relativamente poco rispetto ad altre. Continuò a masticare la sua gomma e, quando furono abbastanza lontani, iniziò il solito “spettacolo” che faceva per tenere in caldo l’automobilista fino al luogo dove si sarebbero fermati. Aveva appena iniziato a sciogliere dei lacci quando notò che lo sguardo attraverso lo specchietto retrovisore non era “normale”. Stavolta non guardava indietro, guardava lei ma mancava quella brama che aveva visto luccicare altre volte. La cosa interruppe le sue operazioni.
«Dev’essere un pivello alla sua prima volta» – pensò Sabrina. Allora chiese: «Che c’è? Non hai mai visto una ragazza in vita tua?».
L’eccentrico uomo sospirò e disse: «È un vero peccato…» – guardò la strada, poi riprese – «Non meriti questo, sei fatta per cose più grandi». «Hai dei problemi?» – rispose Sabrina con il leggero timore di essere entrata nell’auto di un assassino o di un folle. «Cosa diresti se un grande compositore come Mozart non avesse fatto altro nella vita che lavare le scale?» – continuò l’uomo – «Cosa diresti se le sculture di Michelangelo fossero state usate come materia prima per farci i muri? È un peccato…» – «Ok, fammi scendere» – disse di scatto la ragazza, capendo che con quel matto non ci avrebbe ricavato un quattrino.
L’auto accostò ma, prima che Sabrina avesse aperto la portiera, l’uomo si era voltato allungando verso di lei un biglietto da visita e diverse banconote. «Nel caso volessi cambiare vita» – disse. Sabrina afferrò il mazzetto e uscì sbattendo la portiera. L’eccentrico uomo si aggiustò i polsini dell’elegante vestito e andò via. I soldi erano sufficienti per giustificare tutta la serata. Stranamente era scesa proprio vicino a casa sua.

Quella sera il sonno tardava a venire. Continuava a pensare a ciò che le era accaduto, a quell’uomo così bizzarro, a quello che le aveva detto, al suo sguardo. Poi pensò alla sua vita, al fatto che per la prima volta qualcuno credeva che lei avrebbe potuto fare qualcosa di meglio. Fino ad allora Sabrina si era convinta di essere una buona a nulla, di poter ambire al massimo a ciò che aveva già e faceva già.

Il giorno dopo versò la percentuale al bruto che “la possedeva”. L’individuo era talmente insensibile che non si accorse della differenza nel saluto e nel modo di guardarlo.
Pochi chilometri in autobus e si trovò all’indirizzo riportato sul biglietto da visita. Davanti a lei una grande azienda con un enorme cancello. Non si riusciva a vedere l’interno, forse nessuno in città c’era mai riuscito. La tentazione di alzare i tacchi era forte: in fondo poteva essere tutto un tranello, poteva ficcarsi in qualche guaio. Suonò al citofono. Non rispose nessuno ma il cancello automatico cominciò a scorrere aprendosi. Poco oltre il cancello c’era una casetta rurale ristrutturata dove viveva il guardiano. Attraverso il vetro lo vide parlare al telefono e sorridere. Poco dopo arrivò l’eccentrico uomo. «Grazie Antonio» – disse guardando il custode. Poi si voltò verso di lei – «Sono contento che tu abbia deciso di venire qui, Sabrina». La ragazza era un po’ stranizzata: era sicura di non aver mai pronunciato il suo nome a quell’uomo. Il suo pensiero fu interrotto dalla voce dello stravagante signore: «Seguimi!».

Mentre penetravano nell’enorme complesso Sabrina incrociava lo sguardo di quelli che lavoravano là dentro: non c’era ombra di tristezza, di fatica, di delusione. «Antonio, il custode…» – diceva l’eccentrico signore – «Sai che era un ubriacone? Ha accettato anche lui ed ora ha una famiglia, una casa e un lavoro.» – continuò indicando altrove – «Vedi quell’ingegnere a quella scrivania? Sta progettando un sistema estremamente complesso che solo lui può sviluppare. L’ho trovato che faceva il barbone dopo aver fondato la sua esistenza sul successo e aver fallito per aver fatto il passo più lungo della gamba. Ora lavora con noi e fa delle cose meravigliose.» – passando vicino ad un operaio che saldava una paratia – «Armando, aveva fatto un grosso sbaglio nella sua vita. Ho dovuto creargli un’identità nuova per convincerlo ad unirsi a noi. Ora è letteralmente ri-nato: la sua vita piena di errori si è trasformata in una vita piena di valori.» – giunti ad un ufficio che non era stato assegnato a nessuno, l’uomo la guardò e disse: «È il tuo momento, Sabrina. Oggi inizia la tua nuova vita nella nostra famiglia, amica mia».

Chiedo scusa per il post estremamente lungo. Non contento aggiungo questo cortometraggio della durata di circa venti minuti. Ringrazio Vittoria per avermelo fatto notare.

 

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Il paradosso del salvatore

Trigun è un anime di diversi anni fa ambientato in un futuro “far west” su un altro pianeta. Il protagonista, Vash the stampede, detto anche “il tifone umanoide” si ritrova ad affrontare i banditi del nuovo far west con l’intento di salvare sia le vittime, sia i carnefici. Ciononostante la popolazione lo teme e lui è il maggiore ricercato.

In una delle puntate vicine alla conclusione della serie viene proposto il paradosso del salvatore - termine che mi sono inventato per descrivere il problema. Vash bambino osserva una farfalla impigliata sulla tela di un ragno il quale le si avvicina per divorare la preda. Come agire? Se si libera la farfalla il ragno morirà di fame; se non si libera la farfalla il ragno la ucciderà. In entrambi i casi c’è sempre una vittima.

Trigun cicatriciNella stessa scena – permettetemi lo spoiler – il fratello cattivo di Vash propone la sua soluzione uccidendo il ragno e manifestando quello che diventerà il suo progetto malvagio: estinguere la razza umana perché, come il ragno, giudicata dannosa per il cosmo. La soluzione di Vash è invece il sacrificio: il suo corpo è pieno di cicatrici; martoriato e sfigurato da tutte le volte che si è messo in mezzo per salvare tutti. Difendendo sia l’innocente che il colpevole si è beccato il male al posto loro.
Alla fine – permettetemi quest’altro spoiler – capisce che questo suo agire non è sufficiente. La sfida più importante non è la difesa incondizionata di buoni e cattivi ma è educativa: bisogna insegnare all’aggressore una vita ordinata, retta, degna, orientata al bene. A cominciare dal fratello cattivo.

Un anime che lascia molto spazio alla riflessione: dal senso del male al problema educativo; dal tipico fraintendimento dell’operato dei buoni al valore del sacrificio.

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Quell’ipocrita dell’uomo ragno

L’uomo ragno (Spiderman) è un noto personaggio dei fumetti, creato da Stan Lee (testi) e Steve Ditko (disegni). Tra i personaggi del fumetto c’è anche il direttore del giornale “Daily Bugle”, J. Jonah Jameson che, tra le altre cose è anche il datore di lavoro di Peter Parker, la vera identità dell’uomo ragno.

Spiderman, come tutti i super eroi (tranne Batman), ha dei super poteri che gli permettono di fare cose realmente fuori dal comune e, come tutti i super eroi, usa i suoi poteri a fin di bene. Non c’è dubbio che l’uomo ragno sia una persona rispettabile e fondamentalmente buona, un esempio da imitare nel proprio piccolo, ciononostante J. Jonah Jameson passa tutto il suo tempo a rovesciare la realtà dandogli contro sulle prime pagine del suo giornale. Da eroe diventa nemico pubblico numero uno.

Povero Spiderman, anche lui deve fare i conti con i suoi limiti. Certo, ha i super poteri, ha promesso di difendere tutti, ma niente di ciò che possiede è infinito e nemmeno i super eroi possono sfuggire al fatto che nulla nell’universo è realmente infinito. Per questo si becca fiumi di bile da J. Jonah Jameson con frasi del tipo: «Dov’era Spiderman, quando uccidevano quella poveretta nella periferia nord? … Se Spiderman è davvero un eroe, perché non ha salvato anche quel bambino? … Dice di proteggere la città ma c’è ugualmente delinquenza ovunque … È un ipocrita!»

J. Jonah Jameson esiste anche fra noi quando usiamo gli strumenti di comunicazione a nostra disposizione (giornali, televisione, blog, radio) per parlare male di chi difende valori e persone. Non dobbiamo biasimare le persone buone e giuste del nostro tempo perché sono limitate come lo siamo tutti. Dovremmo invece stimarle e prenderle ad esempio perché se c’è ancora qualcuno che ha bisogno di aiuto potrebbe voler dire che forse è il momento di metterci a fare qualcosina anche noi, sempre e ovviamente entro i nostri limiti.

J. Jonah Jameson

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