Nebbia

La seconda cosa che vedo più frequentemente dove vivo adesso è la nebbia. Qui dove ultimamente abito la nebbia può diventare roba di tutti i giorni e per diverso tempo.
Per me non è una novità: mi ci sono trovato dentro anche quando vivevo a casa mia. La differenza è che fino a ieri mi ci sono ritrovato a camminare dentro ed il suo confine era certamente al di là delle possibilità delle gambe e della pazienza di chiunque, talmente distante mi appariva.

Quando si avanza nella nebbia non è che si sia completamente ciechi; gli oggetti appaiono gradualmente; inizialmente ombre o aloni appena visibili, assumono via via confini sempre più definiti, colori sempre più vivi, aspetto sempre più tridimensionale. Proprio ieri ho scambiato un lontano albero per una persona che veniva verso di me. Non capire bene cosa si ha davanti è normale quando nel mezzo c’è un grande spessore di microscopiche goccioline d’acqua.

Per certi versi anche la conoscenza del Mondo e di quanto lo trascende procede nella nebbia dell’ignoto. Mai un fenomeno ci appare fin da subito chiaramente comprensibile. Bisogna avvicinarsi, probabilmente anche faticando non poco, per poter vedere meglio. Proprio perché dobbiamo essere noi ad avvicinarci, ad esplorare, è necessario avere l’intenzione di muoversi verso l’ignoto, di osservare prima di giudicare, di essere aperti a ciò che vedremo per quanto esso possa risultare assurdo, improbabile o impossibile. Se ci fermiamo alla sagoma indefinita delle cose, così come superficialmente appaiono nella vita di tutti i giorni, rischiamo di salutare qualche albero per strada.

Nebbia

P.S. I post “freddo e gelo” immagino che prima o poi finiranno ;-)

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Eventi rari

Tre giorni fa un docente di fisica mi raccontava di alcune risposte “singolari” dategli da uno studente a proposito delle probabilità. In sostanza lo studente sosteneva che un evento che si verifica con una probabilità molto bassa non si verifica affatto «Tanto la probabilità è bassa».
La distribuzione di Poisson è quella funzione matematica che, nella statistica, riproduce la probabilità di avvenimento per eventi rari. Il nostro studente dalle conclusioni facili probabilmente non sa che praticamente tutta la fisica nucleare si basa sull’indagine di avvenimenti rari per i quali si utilizza la distribuzione di Poisson.

Ma come? – chiederete voi – Gli eventi rari in realtà si verificano così spesso da essere indagati?
Ebbene, ciò che comunemente accade in un laboratorio di fisica nucleare è che delle particelle siano accelerate in gran numero e le si faccia scontrare da qualche parte. Tra le infinità di scontri che si producono, alcuni – pochi - sono quelli cercati dallo scienziato. Ciò non significa che il ricercatore stia lì davanti ad aspettare per tutta la vita un evento buono. Nella maggior parte dei casi bastano pochi giorni per misurare tutto quello che si deve misurare – tutti eventi squisitamente rari. Il fisico, sapendo che l’evento che cerca è raro, sollecita il sistema con una frequenza adatta a far “saltare fuori” ciò che cerca in un tempo ragionavole.
La situazione è analoga a coloro che vincono al superenalotto giocando un sistema di schedine invece che provando soltanto con una combinazione per volta.

Stiamo attenti quando si parla di eventi rari o improbabili: non significa che siano impossibili. Non possiamo dunque pronunciarci sulla verità di una testimonianza rispetto ad un’altra, se l’unico argomento di discriminazione è la probabilità che associamo – arbitrariamente o meno, a torto o a ragione - alla storia raccontata da un testimone rispetto all’altra. Piuttosto, accompagniamo la probabilità con la ragionevolezza e la verifica.

Distribuzioni
D’altro canto però esistono cose che non si verificano mai. Ma questa è un’altra storia.

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La vigna nel vaso

Nel giorno del mercato rionale Luisa faceva sempre scorte per tutta la settimana. Anche quella volta concluse il giro delle bancarelle dal fruttivendolo. «Buon giorno, signora! Guardi che bel grappolo che ho qui». Il fruttivendolo acchiappò un enorme grappolo d’uva per il massiccio tralcio sollevandolo fino all’altezza del volto; sembrava essere stato staccato a colpi d’accetta dalla vigna di un gigante. «Il prezzo mi sembra buono e, con la voracità che ha Alfonso – pensò rapidamente Luisa – farebbe proprio al caso mio». «Va bene, lo compro» Disse poco dopo.
Mentre confezionava l’enorme grappolo il fruttivendolo, ammiccante e sorridente, si lasciò scappare un commento: «Se pianta questo tralcio le nasce una vite». «Visto l’affare che gli ho procurato, oggi il fruttivendolo ha voglia di scherzare» – pensò Luisa.

Quella sera, mentre ne mangiavano gli acini, Luisa raccontò la storia di quel grappolo al marito, Alfonso: «Mi ha detto che se avessi piantato il legno sarebbe nata una vite. Per me è una cosa assurda, ma voglio provare.» Fuori, sul balcone, si affacciava da un vaso uno spoglio segmento di tralcio.
Per mesi la donna annaffiava il legnetto senza osservare alcun cambiamento. «Lo sapevo… – pensava – ora libero il vaso e ci metto qualche bel fiore». La mano aveva già afferrato il legnetto, l’estirpazione era imminente… ALT! L’occhio attento di Luisa aveva scorto un minuscolo germoglio. La donna ritrasse la mano stupita. Era vero!
Ci volle circa un annetto affinché la pianta fosse abbastanza robusta per produrre i suoi primi piccoli acini.

Il fruttivendolo, conoscendo una cosa bella e vera – sebbene non conforme al sentire comune – non si è trattenuto dal raccontarla. Ad un giudizio superficiale sembra che abbia detto una follia con il fine di ingannare la cliente, magari per aumentare, con una storiella intrigante, il valore della sua merce. Luisa non è però superficiale e non si ferma alla prima impressione: vuole verificare e viene perciò premiata con qualcosa che prima non aveva, lo stupore per un germoglio, dei frutti inattesi.
Ecco. L’atteggiamento di fronte alla testimonianza non è lo scetticismo totale a priori né la fiducia incondizionata: alla verità basta quel tanto di fiducia che serve a verificarla con l’esperienza. In fondo, c’è ben poco da perdere e tanto più da guadagnare.

GrappoloSembra incredibile ma questa è una storia VERA

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Esperimento con il bianchetto

Supponiamo che un vostro amico burlone abbia preso il libro che state leggendo e ve lo abbia restituito dopo aver passato uno strato di bianchetto sul nome di un personaggio del quale non avevate ancora letto nulla. Beh, non potete proprio sopravvivere all’ignoranza di quel nome, perciò vi armate con una lametta e cominciate a raschiare via il bianchetto. Bisogna però fare molta attenzione perché potreste portarvi via anche l’inchiostro.Segni di inchiostro

Dopo un po’ che raschiate appare qualche segmento di una lettera. Uhm… All’inizio vi sembrano segni senza senso. Qualcuno potrebbe anche dubitare che lì sotto vi possa mai essere stato un reale simbolo della vostra lingua e potrebbe anche dire che l’autore del libro, scrivendo un nome alieno, abbia messo macchie casuali di inchiostro. Fase uno: elementi sconosciuti che richiedono interpretazione.

OCR oDopo aver fissato le macchie per un po’, aiutandovi con il testo circostante, capite che la lettera dev’essere dell’alfabeto latino e la disposizione dei segni vi suggerisce che la lettera misteriosa sia una “o”. Qualcuno potrebbe, a questo punto, dichiarare chiusa la faccenda e passare alla lettera successiva. Fase due: teoria.

Bene! Avete una spiegazione che funziona ma, se non siete cattivi utilizzatori del rasoio di Occam, non potete non chiedervi se quei segni sono veramente una “o” o se avete invece preso una cantonata. Una spiegazione semplicissima e perfettamente funzionante non è per forza la migliore, quella che descrive la realtà, la verità.
Vi viene a trovare una vostra amica che vi dice: «Qui c’è un cerchio ma la lettera potrebbe acnhe essere una “q”». Avete due possibilità: ascoltare la vostra amica oppure prenderla per una scocciatrice che vi vuole dare torto sulla vostra bellissima teoria della “o”. Se non siete chiusi mentalmente vi metterete a raschiare intorno per cercare nuovi elementi. Fase tre: apertura mentale. Swgni di inchiostro

Se è vero che lì c’è una “q” allora, raschiando in basso a destra si dovrebbe trovare dell’inchiostro. Con molta fatica riuscite a raschiare un altro po’ di bianchetto ed ecco comparire un altro segno. Cavolo! Eravate proprio convinti che fosse una “o”. Qualcuno però potrebbe dire che il nuovo segno che avete trovato sia soltanto un minuscolo insetto che è rimasto invischiato nel bianchetto e perciò la spiegazione della “o” andrebbe bene ugualmente. Se non siete troppo orgogliosi e, ancora una volta, chiusi mentalmente non la pensate affatto così. Fase 4: verifica.

OCR qSiete certi che la lettera sia una “q”? Se avete imparato la lezione della “o” allora dovreste pensare che ciò che avete trovato può non essere una “q”, anzi, che potrebbero essere diverse lettere o che avete raschiato male. Se siete onesti ed umili allora non andrete a combattere con la dialettica chi vi dice che quei segni sono in realtà una “g” e che, magari, ve lo dice proprio perché quel libro lo ha già letto. Se siete ragionevoli non potete asserire con assoluta certezza che nei vostri segni non c’è e non ci sarà mai una “g” e che pertanto chi sostiene la “g” debba senz’altro sbagliarsi.
Non basta che una teoria spieghi bene i fatti noti e ne preveda alcuni non noti. La posizione onesta, di fronte alla natura, è quella di ammettere di non sapere e, soprattutto, di non negare una cosa, solo perché sembra improbabile o inverosimile, solo perché non rientra nei nostri schemi. Diceva Luigi Pirandello: «Le assurdità della vita non hanno bisogno di parer verosimili, perché sono vere. All’opposto di quelle dell’arte che, per parer vere, hanno bisogno d’esseri verosimili.»

OCR g Nessun libro è stato vilipeso per la realizzazione di questo post

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Protagonisti o spettatori

Quante volte, guardando un bel film d’avventura come Indiana Jones o Guerre stellari o Il signore degli anelli, abbiamo desiderato o immaginato di essere dentro l’avventura affrontando pericoli ed esplorando l’ignoto?
Sperimentiamo un certo piacere e delle belle emozioni standocene comodamente seduti davanti ad uno schermo, senza però riflettere sul fatto che esse siano il frutto di qualcosa che ci viene messo davanti, una rappresentazione di una realtà che non ci appartiene, che non stiamo vivendo.

No: non è assolutamente una critica ai film d’avventura. Vivere un’avventura, una storia, non è la stessa cosa che assimilarla passivamente. Vivendo qualcosa essa ti appartiene; è tua ogni singola emozione, ogni minuto che passa; ne sperimenti integralmente gioie e dolori, botte di fortuna e difficoltà. Vivere significa questo. Certo, essere protagonisti di un’avventura in costante realizzazione impedisce di sapere come va a finire la storia; pone anzi il rischio di non giungere ad un lieto fine. Nonostante ciò è più bello vivere un’avventura da protagonisti che scoprirsi spettatori di una storia inventata di sana pianta.

La realtà, la verità del mondo circostante è un’avventura da vivere. Spesso preferiamo vivere la felicità di un “lieto fine” impacchettato e pronto all’uso; una falsità che ci può dare, al limite, lo stesso piacere di uno spettatore; una storia che degli attori ci stanno raccontando e che noi scegliamo di proseguire perché, in fin dei conti, è meno faticosa e più piacevole. In altre parole, aderiamo ad una ideologia.
Spenta la televisione, dobbiamo però fare i conti con la realtà. A differenza delle fiction, la realtà consente di essere vissuta da protagonisti, di verificare sulla nostra carne, sulla nostra coscienza e sulla nostra felicità la fondatezza di quanto riteniamo vero. Quando si conosce la verità e la si vede in ogni cosa – compresa la sofferenza – “rigare dritto”, giungere al lieto fine diventa solo una naturale conseguenza e non più uno sforzo della volontà.

Spettatori

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Casa degli specchi

Le fiere e i luna park meglio forniti hanno una “casa degli specchi”. È un’attrazione all’interno della quale non c’è nient’altro che pareti riflettenti delle forme più svariate e combinate insieme per ottenere illusioni ottiche di ogni tipo. C’è lo specchio che ti allunga e quello che ti accorcia; quello che ingrassa e quello che fa dimagrire; uno specchio per alterare le proporzioni fra le varie parti del corpo e uno per essere moltiplicati decine di volte sembrando un esercito di cloni.
Combinando insieme specchi diversi si possono creare anche vere e proprie immagini olografiche, oggetti che ci appaiono in un luogo con tridimensionalità ma che in realtà sono altrove. Entrando in una casa degli specchi è anche possibile perdersi confondendo i corridoi reali con una loro immagine. Non pochi incoscienti si beccano delle fragorose capocciate mettendosi a correre in ambienti così costruiti.

Tra coloro che entrano insieme in una casa degli specchi sono pochi quelli che riescono a vedere la stessa cosa: lo stesso oggetto o la stessa persona potranno essere visti più grossi da qualcuno e più stretti da un altro; di forme diverse e in luoghi diversi a seconda del punto in cui ci si trova; potrebbero addirittura apparire di diverso colore.
Vedere immagini diverse di uno stesso oggetto non significa che è l’oggetto a mutare o che tutte le sue riproduzioni corrispondano alla realtà. Se non si indaga, se non si spinge la mano a toccare l’oggetto, non si può scoprire se stiamo guardando un ologramma o la superficie di uno specchio oppure no.

Delle certezze ci sono sempre e devono esistere perché sono necessarie per vivere. L’esistenza dell’oggetto che viene riflesso e deformato è una certezza perché, anche se noi lo vediamo alterato, sappiamo che da qualche parte dev’esserci qualcosa che quella alterazione l’ha subita. Uno specchio infatti può soltanto riflettere un’immagine, ma mai crearla. La certezza non è – appunto – un’entità che è possibile creare, perché proviene da un giudizio sviluppato a partire da testimonianze di fiducia o da eventi vissuti personalmente.
Se, invece, si parte dal pregiudizio, niente di ciò che può accaderci è capace di modificarlo. Innanzitutto perché non ci rendiamo conto di averne: i pregiudizi sono come specchi deformi che ci sono stati messi davanti da processi educativi o da noi stessi per convenienza o per emulazione di altri. L’unico modo di rendercene conto è di “toccare con mano” l’immagine che vediamo: l’oggetto, a differenza della sua immagine, resiste alla prova degli altri sensi. Sta a noi metterli in gioco.

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Ikaros

Uno dei sogni più sognati è quello dell’era spaziale, l’esplorazione di mondi distanti anni luce da noi con astronavi in grado di oltrepassare i limiti imposti dalla relatività.
Nessuno sa ancora bene come ciò potrebbe essere possibile ma una sola cosa è certa: l’energia necessaria sarà davvero enorme. Questo problema energetico si scontra ferocemente con il tema delle energie rinnovabili. Sarebbe infatti impensabile alimentare un’astronave del genere con pale eoliche o pannelli solari.

C’è però chi ci ha voluto provare. Una sonda giapponese di nome Ikaros è un esperimento di propulsione attraverso il vento solare. Si tratta di una sonda dal peso di 315Kg munita di una “vela” quadrata di diagonale pari a 20 metri e sulla quale collide il vento solare, un flusso di particelle alfa e protoni che si muovono alla velocità media di circa 400Km al secondo. Le particelle del vento solare trasferiscono la loro energia alla sonda e la accelerano. Ricorda molto una puntata di deep space nine dove il capitano Sisko costruiva ed utilizzava un veicolo molto simile.
L’esperimento scientifico voleva solo verificare la fattibilità dell’apparato ma c’è chi invece strumentalizza questo tentativo come soluzione ambientalista ai viaggi spaziali e motivo per dichiarare che le altre risorse energetiche, ben più potenti, sarebbero inutili.

Purtroppo le cose non stanno così. Mi sono divertito nel fare qualche conto con excel ed ho scoperto che la sonda, partendo dalla Terra, impiegherebbe cento anni solo per percorrere ottomila chilometri! (circa la distanza tra Washington e Tokyo – 7700Km) Figuriamoci quanto tempo servirebbe per percorrere quel paio di anni luce che ci separano da Alfa Centauri (senza considerare che anche Alfa Centauri ha il suo vento solare in direzione opposta).
La scienza può essere usata male come qualsiasi altra cosa e non solo nella forma di armi o sperimentazioni immorali ma anche, e soprattutto, per disinformare e illudere le persone su certe ideologie. Verifichiamo sempre quel che ci viene detto da chi fa tanto rumore sugli esperimenti altrui.

Ikaros

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Levaci mano

Parlo a te.

Sì, proprio a te che pensi: «Sto bene come sto. Sono già felice e contento».
A te che non vuoi verificare personalmente; che non vuoi provare prima di giudicare.
A te che quando ti parlano seriamente devi sempre fare una battuta ridicola, possibilmente che manchi di rispetto a chi ti sta parlando.
A te che che sei ossessionato dalla politica o da altre manie e non perdi l’occasione di collegare qualsiasi cosa ti dice l’altro con il tuo repertorio di invettive contro la fazione opposta.
A te che non hai altro da fare che piombare sul blog altrui con la critica sempre pronta, con il cervello occupato nel trovare un cavillo dialettico.
A te che sei ormai monotematico nelle tue conversazioni: sempre a lamentarti; lamentarti sulla politica; lamentarti sulla società; lamentarti della gente; della paga; dei tuoi capricci non esauditi; delle angherie – non importa se inventate o no – perpetrate dal tuo “nemico”.
A te che passi la vita a combattere persone e organizzazioni senza chiederti quanto abbia senso combattere i tuoi simili, senza pensare alle vittime che calpesti con il tuo cavallo bianco nella carica contro i mulini a vento.
A te che mentre la gente muore di fame e per la povertà, fai la voce grossa per ottenere sempre più “diritti” e benefici per te stesso e altri benestanti.
A te che fai della rabbia, della lotta, dell’attacco verbale o fisico, dell’imposizione del tuo volere a colpi di sofismi, il tuo pane quotidiano, lo strumento per creare la tua utopia di una società che sarebbe perfetta perché mutilata di quell’aspetto che non hai compreso e che ritieni per tal motivo indegno dell’umanità stessa.
A te che passi interi giorni cercando argomenti per infangare il tuo “nemico” che sia realmente malvagio o no, non importa.
A te che il “nemico” ha sempre torto, o un povero illuso o un grande mentitore, e devi smontarlo pezzo per pezzo.

Dico a te. La chiami una vita felice questa?
Come si dice dalle mia parti: “Levaci mano”. Non è vita per esseri umani.

Maggie arrabbiata

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Immagine e sostanza

Qualche giorno fa un amico commentava una fotografia nella quale, con oggetti quotidiani, si otteneva la raffigurazione di qualcos’altro. Per semplicità supponiamo si trattasse di un cavallo. Il mio amico, guardando quel cavallo, mi chiese: «Perché mi mostri questa foto di una mucca?».
Questa domanda, inizialmente disarmante, mi ha spinto ad una riflessione sull’osservazione e la sostanza delle cose.

Quando guardiamo una fotografia, che è la registrazione dell’immagine di un soggetto in un determinato istante di tempo, a noi giunge soltanto l’informazione estetica e, forse, qualche messaggio che l’artista ha voluto introdurre nel suo scatto o nella sua composizione. Come facciamo però a dichiarare la sostanza dell’oggetto riprodotto?
La foto che ho mostrato al mio amico rappresenta un cavallo ma la sostanza degli oggetti che compongono il cavallo non è quella di un cavallo. Se costruisco una statua di un cavallo e la dipingo, la sola immagine della statua non mi fa capire se ho usato il gesso o la carta pesta o la plastica. C’è quindi un limite alle dichiarazioni che possiamo fare sulla realtà basandoci soltanto sulle informazioni che riusciamo a ricavarne da osservazioni superficiali.

Attualmente non disponiamo di uno strumento che ci permetta di osservare (indagare) la realtà nella totalità della sua sostanza. Possiamo certo descriverla con precisione tanto più grande quanto maggiore è il numero di strumenti che possiamo usare (analisi chimiche e fisiche) ma non possiamo raggiungere un infinito dettaglio. A maggior ragione quando parliamo di astronomia o cosmologia (lontano nello spazio) e archeologia o storia (lontano nel tempo).
Spesso il nostro giudizio è superficiale, si basa cioè su dati troppo parziali per poter apprezzare la sostanza delle cose, sull’immagine che ci perviene e non su un’informazione che ne descrive la sostanza. Prima di formulare un giudizio, prima di giungere a conclusioni o di supporre di sapere già com’è una determinata esperienza, invece che basarci sul sentito dire dovremmo applicarci in un’indagine appropriata per ciò che vorremmo giudicare. Se si tratta di un’esperienza di vita, lo strumento adeguato è quello di mettersi in gioco al 100% e verificare.

Art attack gigante con cubi di Rubik

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La dimostrazione sbagliata

La prima volta che ho aiutato seriamente qualcuno nello studio non è stato affatto semplice. Finché si trattava di passare qualche appunto o spiegare solo qualche passaggio me l’ero sempre cavata in poco tempo: in fondo, anche se c’era qualcosa che non ricordavo bene potevo sempre dedurre la situazione dal contesto e riempire il buco facendo ricorso anche a ciò che invece mi ricordavo.

Quando dovetti invece cimentarmi nel fare il (quasi) docente ero totalmente impreparato, vuoi perché ancora non avevo terminato i miei studi e non avevo molto tempo, vuoi perché un’attività del genere richiede una preparazione che non sia soltanto conoscere bene quel che si è studiato.
Capitò allora un problema nel quale si richiedeva una particolare preparazione sulla dinamica di rotazione, argomento che -guarda caso – quando ero studente non fu trattato adeguatamente lasciando una lacuna. Senza perdermi d’animo attaccai il problema della persona che aiutavo con una dimostrazione matematica che portò ad una bella formula da applicare per risolvere l’esercizio. Ah, che soddisfazione: ancora una volta me l’ero cavata.
Lo svolgimento fu consegnato al docente e fu valutato… malissimo. Da quel giorno la persona che aiutavo diffidò di tutte le mie “dimostrazioni” che non fossero replicate tali e quali su qualche libro. Dopo quella volta mi sono messo a studiare diverse cose da autodidatta cercando di colmare le lacune e di essere un po’ più preparato.

Ci sono almeno tre riflessioni che si possono fare a partire da questa storia.
Innanzitutto dimostra che confidare troppo in sé stessi porta prima o poi a sbagliare. Nessuno è perfetto – si dice – e questa imperfezione non la si può mettere da parte, ignorare. Chi fa affidamento solo sull’uomo, sull’umanità, deve sapere che questa fallibilità può rovinare anche il piano più studiato e che la sua fiducia potrà essere tradita in ogni momento.
In secondo luogo fa riflettere la diffidenza di fronte a tutte le altre dimostrazioni che vennero dopo, cose che ho fatto fino all’altro ieri per il mio lavoro e che nella maggior parte dei casi si sono rivelate corrette. Noi dobbiamo sempre verificare e vagliare tutto, con la nostra esperienza e con la verifica in prima persona però dobbiamo evitare gli eccessi: il rifiuto a priori di tutto quanto ci viene detto per via di pochi errori.
Terzo ed ultimo, se non mi fossi cimentato nell’aiuto scolastico e se non fosse mai avvenuto quel che abbiamo letto qua sopra, io sarei rimasto con le mie lacune, non avrei imparato a verificare quel che facevo, avrei continuato a riporre erroneamente la mia fiducia nelle mie sole capacità esponendomi a guai ben peggiori, non avrei mai scritto questo post con tutte le conclusioni che ne conseguono. In parole povere, anche quella sconfitta, quel momento di male e di sofferenza alla fine hanno avuto un senso, uno scopo, che in ultima analisi può anche riparare il danno riportato dalla persona che aiutavo (almeno si spera).

Dimostrazione

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