Ma a che serve?

In questi ultimi giorni si è parlato tanto di quella misura della velocità dei neutrini che ha fatto tanto scalpore. Non commento più di tanto perché una singola misura può voler dire tutto e niente, perché bisogna vedere se quanto osservato è esattamente la realtà o un miraggio dovuto ad una qualche svista. Ciò che piuttosto mi preme sottolineare è un comportamento dei giornalisti e della gran parte della gente comune: quando circolano di queste ricerche sensazionali – ma solo per gli addetti ai lavori – la prima domanda che viene fatta riguarda l’applicazione pratica. Tra le domande che si possono fare ad un ricercatore, all’indomani di una sua scoperta, “a che serve?” è certamente la peggiore.

Ci siamo veramente ridotti così in basso da dare valore solo a ciò che ha un riscontro pratico e un’utilità materiale?
Lo scopo della ricerca scientifica non è principalmente quello di migliorare la vita della gente. Quella è una conseguenza, un effetto che viene dopo – o addirittura molto dopo. Lo spirito scientifico è un discendente diretto dell’innata curiosità dell’uomo, del suo desiderio di comprendere il mondo e della corrispondente conoscibilità dell’Universo.
Il ricercatore è come un bambino che si è appena trasferito in una vecchia casa il cui solaio è stato chiuso a chiave da decenni. Non sarà curioso di sapere cosa c’è dietro quella porta chiusa? E, trovata la chiave, non andrà ad esplorare? Non è necessario che quella stanza abbia l’utilità pratica di dare posto ad altri mobili: potrebbe trovare fotografie antiche, oggetti curiosi e affascinanti anche se inutili perché obsoleti. “A cosa serve?” sarebbe quanto meno una domanda fuori luogo. Lo stesso discorso vale per gli esploratori e per chi cerca di battere i propri limiti sportivi: se Tizio o Caio vince la medaglia d’oro, a cosa ci serve? Intanto non ce lo chiediamo mai, in questi casi.

La mania materialista non dovrebbe prendere il sopravvento. Non è importante e degno di nota solo ciò che è utile o pratico nell’immediatezza di tutti i giorni. Non ha diritto di esistenza solo ciò che risponde ai nostri schemi; al contrario, devono essere i nostri schemi ad essere continuamente revisionati in base a ciò che esiste, anche se questa esistenza non determina alcuna apparente variazione nella nostra vita di tutti i giorni. In realtà la variazione c’è, per chi sa apprezzarne il valore. La conoscenza e la verità hanno il valore ed il potere di cambiarci fin nel cuore: chi ha il cuore trasformato dalla verità non può fare a meno di dire quello che sa, anche a costo di essere preso in giro, di non essere ascoltato e di veder dipinto chi lo ascolta come vittima di un imbroglio.

Asteroide teiera

Colgo l’occasione per comunicare – ancora una volta – che sono in partenza per un luogo che probabilmente non mi consente connessione ad internet e che quindi potrei non esserci nei prossimi 6 giorni.

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Spezzare la catena

Qualche tempo fa raccontavo un piccolo episodio che mi era accaduto interagendo con un utente di un gioco online. Una cosa molto simile, sebbene ambientata e raccontata meglio, accade nell’episodio numero 22 di Full metal alchemist brotherhood.

ScarScar è un abitante di Ishval, un paese che ha sofferto la tragedia di una guerra civile e i cui abitanti ritengono che l’uso dell’alchimia sia un’offesa al creatore. Nel corso della guerra, Scar perde i suoi genitori e suo fratello, oltre a migliaia di compaesani. Viene salvato da una coppia di dottori, i coniugi Rockbell, ma sopraffatto dal risentimento e dall’odio per quegli occidentali responsabili della devastazione del suo paese, li assassina.

Recatosi nella capitale, Scar si trasforma in un serial killer che uccide gli alchemisti di stato e racconta a sé stesso che le sue azioni non sono guidate dalla vendetta ma dal volere del creatore che punirebbe così gli alchimisti. È qui che, braccato dai militari, incontra Winry, la figlia dei coniugi Rockbell.
Quando la ragazza viene a sapere che Scar è l’assassino dei suoi genitori ha la tentazione di sparargli, ma alla fine desiste. Questo fatto, insieme ad altre vicende che si sviluppano nel corso della storia, cambia radicalmente Scar liberandolo dalla morsa dell’odio. Tra gli episodi conclusivi della serie, vittime e aggressori saranno infatti schierati fianco a fianco nella lotta contro il male.

WinryLa storia sottolinea l’esistenza di una catena dell’odio: la vittima che diventa a sua volta aggressore in un mix di vendette e generalizzazioni che producono a loro volta altre vittime che avranno i medesimi sentimenti. L’odio chiama altro odio e conduce ad una serie di eventi dolorosi che non si concludono mai. O meglio, si concludono solo se uno degli anelli della catena non si comporta come gli altri. L’istinto vorrebbe che ad ogni sopruso si reagisca con cattiveria uguale o maggiore a quella subita. Il perdono è invece, da questo punto di vista, una vera e propria rivoluzione, qualcosa capace di recidere il meccanismo una volta per tutte, qualcosa di alieno rispetto al meccanismo stesso.

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Spada demoniaca

Un anime che ho seguito con una certa assiduità è Inuyasha. Si tratta delle avventure di un mezzo demone, un ragazzo nato da madre umana e padre demone. Il padre di Inuyasha era un demone cane tra i più potenti dell’epoca ed ha lasciato in eredità al figlio minore una spada demoniaca di nome Tessaiga.
Una spada demoniaca è un’arma forgiata con zanne, ossa, scaglie, artigli o quant’altro di solido si possa ricavare da un demone. Tanto più è potente il demone originario, tanto più formidabile risulta essere l’arma forgiata con le sue parti.

Brandire una spada demoniaca non è però da tutti. Inuyasha, essendo per metà demone, riesce a brandire Tessaiga, ad imparare nuove tecniche, a scoprirne i poteri nascosti e perfino a dialogare con la sua arma, come se avesse una volontà propria capace di insegnare al ragazzo l’utilizzo corretto di se stessa.
Spada DakkiNel corso della serie accade diverse volte che un normale essere umano si impadronisca di una spada demoniaca, dato il noto potere di una spada di questo tipo. Sistematicamente ogni volta succede che il potere della spada prende il sopravvento sulla coscienza dell’uomo che ha osato troppo, pensando di brandire un’arma fuori dalla sua portata. Un esempio fra gli ultimi, la spada Dakki: il suo fabbro umano ignora gli avvertimenti di lasciare perdere la spada e finisce con il mutare lentamente in un mostro fondendo il suo braccio all’arma. Inutile specificare la sua tragica fine.

Purtroppo le spade demoniache non esistono solo nel mondo di fantasia di Inuyasha. Pensiamo per esempio alla satira. In molti fanno uso e abuso sia del termine, sia della pratica: credono che sia sufficiente etichettare un’accusa o un insulto sotto la categoria “satira” per ottenere impunità e lode da parte di tutti, ad esclusione dell’offeso il quale, corrispondentemente, non può protestare perché altrimenti sarebbe tacciato di censura.
Arthur Schopenhauer annoverava la beffa del proprio interlocutore tra una delle tecniche (sleali) per ottenere ragione: se non si può vincere con la forza dei propri argomenti allora conviene fare ridere la platea ridicolizzando l’altro. La satira è un’arma demoniaca che bisogna saper usare, che richiede moderazione e, perché no, anche rispetto di chi si parla. Si rischia altrimenti di perdere il senso della misura e trasformarsi in creature assai brutte, non tanto esteticamente ma a livello di coscienza. Si può fare ridere per parlare di un problema reale oppure si possono inventare problemi per fare ridere. La differenza, come per le spade demoniache è che, nel secondo caso, prima o poi l’arma prende il sopravvento su chi la brandisce e lo consuma.

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Testimone

Un pensiero “istantaneo”: se una sera mi trovassi completamente solo e atterrasse davanti a me un’astronave; se dalla nave uscisse un alieno che io potessi toccare e con il quale avessi una comunicazione; se accadesse tutto questo, con quale coraggio potrei andare a riferire della non esistenza di ciò che ho toccato e visto? E se mi torturassero arriverei a dire una ignobile menzogna pur di risparmiarmi il dolore? E se mi facessero un mare di discorsi logici e scientifici che dimostrassero il contrario di ciò che ho visto, udito e toccato?

Al posto dell’UFO e dell’alieno potremmo metterci qualunque cosa. Se un avvenimento impossibile ti accadesse cosa faresti? E se questo avvenimento impossibile fosse così importante e così grande e così bello da non poterlo trattenere per te?

La verità più inconfutabile è quella verità che è vissuta. Ciò che osservo con i miei occhi, ciò che tocco con le mie mani, un avvenimento del quale sono testimone non può essere più cancellato dalla mia mente e dal mio cuore da nessuna prova e da nessun sofisma. Quando la realtà si impone irrompendo nella vita di una persona lascia un segno indelebile.

UFO

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Maledette utopie

Nell’episodio dal titolo “Il ritorno degli arconti” in Star Trek The Original Series, alcuni membri dell’equipaggio dell’Enterprise sbarcano sul pianeta Beta III sulle tracce dell’astronave “USS Archon”, scomparsa cento anni prima. L'immagine di Landru Il capitano Kirk e la sua squadra scoprono che la società che abita Beta III è estremamente schematizzata nei suoi comportamenti: ogni essere umano che incontrano sembra far parte di una collettività – “il corpo” – dominata da comportamenti programmati e che ha bandito ogni sorta di iniziativa personale, a cominciare dalla creatività. Fautore di questa situazione è un’entità chiamata Landru, un fantasma dalle sembianze umane che esercita tirannicamente un completo potere sulle coscienze degli abitanti.

Alcuni abitanti risultano essere immuni all’effetto di Landru ma lo temono poiché il suo potere è capace di scagliare contro di loro tutto il resto della popolazione. Questa “resistenza” aiuta, dopo varie vicissitudini, la squadra del capitano Kirk a raggiungere il luogo dove risiede Landru. Si scopre dunque che Landru non è altro che un potente computer che ha assunto il nome del suo creatore e che si prende cura degli abitanti impedendo ogni conflitto individuale ed ogni guerra.Landru
Il computer Landru è motivato da una buonissima intenzione e non fa altro che aderire ad un sofisma logico abbastanza semplice: eliminare tutto ciò che nuoccia agli abitanti, comprese le passioni umane che inevitabilmente conducono a dei conflitti.

Possiamo riconoscere in Landru diverse ideologie totalitarie del secolo scorso ed il pensiero di molte persone di oggi. Una buona parte di coloro che si dicono “in lotta” per un mondo “migliore” ha in mente un’utopia nella quale gli esseri umani si sono “liberati” da quegli ideali e da quei comportamenti che renderebbero “peggiore” il mondo di oggi. Nonostante le utopie prospettate possano anche essere individuali (cioè ognuno ha la sua) il tratto che le accomuna tutte è la rimozione di qualcosa che si ritiene superfluo allo scopo di eliminare i problemi sociali all’origine.
Se l’intenzione è buona – rispetto dei diritti; pace nel mondo etc. – la soluzione che permetterebbe di compierla è pessima. L’uomo smette di essere umano se rinuncia anche solo ad una piccola parte della propria umanità, ai desideri del suo cuore. Il cuore dell’uomo non brama solo la pace o soltanto la soddisfazione dei sensi ma anela all’infinito e alla trascendenza, insieme a tante altre cose non misurabili che lo rendono fragile e “imperfetto” ma tremendamente ricco e autentico.

Alla fine dell’episodio Kirk dimostra a Landru che con il suo agire sta nuocendo al suo popolo devastandone l’umanità. Al computer non rimane altro che auto-distruggersi per soddisfare il sofisma dell’eliminazione di tutto ciò che nuoce alla sua gente.

Abitanti di Beta III si salutano in modo meccanico

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Inerzia

Il primo principio della dinamica dice che un corpo perfettamente libero di muoversi e non sottoposto a nessun tipo di perturbazione esterna (compreso ogni forma di attrito e ogni tipo di reazione interna che può innescare propulsione) persevera nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme. Significa che la natura standard delle cose è quella di restare nel loro stato: se stanno ferme restano ferme, se si muovono, continuano a muoversi nella forma più semplice di moto finché non viene qualcuno ad interferire.

Una conseguenza di questo principio sono le forze che un corpo ci oppone quando vogliamo alterarne lo stato di moto o di quiete. È il motivo per il quale nelle automobili ci sono le marce e il cambio: un’automobile ferma si oppone al moto perciò ho bisogno di più potenza e meno velocità. Per lo stesso motivo usiamo le cinture di sicurezza: se il veicolo rallenta bruscamente, la natura dei nostri corpi è quella di perseverare nella loro corsa perciò tendono ad essere sbalzati in avanti.

Il principio di inerzia si può estendere anche a cose meno tangibili come le mille opinioni e convinzioni che ci frullano nella testa. Cambiare idea è infatti una delle cose più difficili che esistano. Diceva Einstein che spezzare un atomo è più facile che spezzare un pregiudizio ed in effetti aveva ragione. La realtà è una forza che altera il nostro stato ma le nostre convinzioni si oppongono reagendo con rabbia, con la polemica, cercando argomenti, cavilli, sotterfugi e dialettiche. Tutto facciamo fuorché dare ascolto al nostro cuore e verificare se l’ideologia di turno corrisponde o no alla natura dell’uomo e al suo senso.
La nostra inerzia corrisponde alla paura di un bimbo che non entra in una stanza buia, ma tali meraviglie si celano oltre la soglia, tale è la luce che sta al di là della paura, che vale la pena essere meno inerziali, buttarsi “a capofitto” verso il reale, lasciarsi plasmare da una realtà che ci parla per sperimentarne la bellezza.

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Accadde proprio lì

Maria era stracotta di un suo compagno di classe, Antonio. Si sorprendeva spesso ad osservarlo intensamente; lo sguardo fisso su di lui; il tempo come rallentato mille volte cosicché ogni istante sembrava avere la durata di intere ore. Era successo poche volte che anche lui si voltasse verso di lei e, anche se si trovava all’altro capo della stanza, quell’incrociarsi di sguardi, pupilla contro pupilla, generava in Maria effetti di potenza paragonabili ad un uragano.
I due si scambiavano anche qualche parola ma la ragazza non aveva mai confessato i suoi sentimenti. Non pensava di essere considerata da Antonio qualcosa di più che una buona amica ma, in fondo al cuore, aveva come la sensazione che i suoi sentimenti fossero ricambiati.

Per il suo compleanno Maria aveva organizzato una piccola festicciola a casa sua. Aveva invitato diversi amici e, certamente, non si era lasciata sfuggire l’occasione di invitare anche Antonio. Ad un certo punto della festa, si era deciso di divertirsi tutti con un gioco da tavolo. Si rideva, si scherzava ma, mentre si giocava, Antonio si accorse che Maria non c’era. Alzatosi la andò a cercare.
Si incrociarono, anzi scontrarono, in un angolo tranquillo della casa. In quell’angolino anonimo, mentre si sentivano le risate dei loro amici provenire dall’altra stanza, avvenne la cosa più inaspettata e straordinaria che Maria potesse immaginare.

Anche a distanza di diversi giorni, a Maria bastava uno sguardo verso quell’angolo della casa per rievocare quell’istante meraviglioso. Decise allora di proteggere quel luogo dal tempo: sarebbe rimasto per sempre così, esattamente come quel giorno.
Non fu facile: dovette imporsi sui genitori e arrivare, qualche volta, al litigio; ne aveva straordinaria cura. Con il passare degli anni fece di tutto per restare in quella casa quando i genitori si trasferirono altrove. Anche quando era una mamma, non permetteva ai figli di giocherellare in quella zona e, quando furono abbastanza grandi, spiegò loro anche perché.
Ora, accompagnata dagli acciacchi dell’età, teneva per mano la nipotina e si preparava a raccontare ancora una volta la storia di quel luogo: «È proprio qui che il nonno ed io ci scambiammo il nostro primo bacio. È rimasto esattamente come quel giorno». Gli occhi della ragazzina erano pieni di stupore per quel luogo sopravvissuto per quasi un secolo ai cambiamenti che avevano subìto la casa e i suoi abitanti.

Quando in un dato luogo avviene qualcosa di veramente grande, una sorta di “big bang” della nostra storia, si tenta in tutti i modi di conservarlo, di preservarlo. Quel luogo, che prima era anonimo e uguale a tanti altri, non è più lo stesso: si carica di memoria e ne diventa segno tangibile, testimone di un avvenimento.

Soglia

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Per cosa combatti

Se cerco il vocabolo “combattere” sul dizionario trovo che viene usato in diverse situazioni ma che tutte, o quasi, le volte che viene usato è accompagnato da una finalità. Per combattere è necessario uno scopo.

Chi è che oggi combatte? Per cosa combatte? Come combatte?
Viviamo in un’epoca di pace, soprattutto rispetto al secolo scorso che ha visto due conflitti mondiali, eppure si combatte ugualmente. Com’è possibile – ci chiediamo – che si combatta in una situazione geopolitica nella quale il nemico più vicino si trova in un altro continente? La battaglia c’è ma viene poco percepita perché si è spostata dal fronte materiale delle armi, delle bombe, della distruzione, dell’omicidio al fronte ideologico.

Il motore che alimenta queste “battaglie” è spesso l’indignazione, il malcontento, uno stato d’animo conseguenza di qualche sopruso subìto o di qualche egoismo che non ha trovato soddisfazione. Ciò di cui è difficile rendersi conto è che anche questo tipo di motore necessita di carburante. Un carburante che viene consumato lentamente ed inesorabilmente finché il motore è acceso, e questo carburante è la persona stessa che fa dell’indignazione il suo motore.
Quel desiderio che vuole la fine di una tal persona, colpevole o innocente che sia, per quanto pessima e deprecabile, finisce per rendere insensibili alla bellezza, incapaci di godere di quel che si ha. Prende pian piano il sopravvento sugli altri pensieri, pensieri belli e carichi di sentimento, creando come un sipario che scende sul mondo.

Sembra impossibile eppure è così: l’oggetto dell’indignazione si presenta nella pausa pranzo come argomento di conversazione; si insinua nelle lamentele (se non ci fosse *** sarebbe meglio); è collegato a tutto e tutto si collega a lui; è argomento di battute e perfino motivo di coesione tra persone che condividono lo stesso risentimento.
Più che vivere è vivacchiare; è perdersi quanto di più bello esiste per inseguire il proprio orgoglio ferito o una rabbia che non finisce mai.

I cavalieri valorosi combattevano il nemico per evitare ad ogni costo che, penetrando nella città, egli potesse distruggere quanto di bello era stato costruito, comprese la famiglia e le persone amate. Si combatteva il gradasso che stava distruggendo il debole; si combatteva per amore.
Se si ama qualcosa (o qualcuno) si è disposti a combattere per essa (egli); non si può combattere – nel senso più nobile del termine – se non per qualcosa (qualcuno) che si ama. L’indignazione non è amore: se l’amore chiama a combattere, l’indignazione chiama a vendicarsi.

La bella dama - Dicksee

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Sbocciata!

Passiflora

Da quando ho scoperto il bocciolo, ho atteso ogni giorno di vederlo aprirsi. Andavo a guardare i progressi nel timore che il suo sviluppo si interrompesse perché – capita anche questo – c’era la probabilità di trovarlo per terra non ancora aperto.
Stavo lì a guardare e a volte mi veniva pure il nervoso perché non si apriva subito, perché ci metteva così tanto.

Non era sotto il mio potere: non potevo decidere io quando si sarebbe aperto e quali colori e forme mi avrebbe mostrato. Sì, sapevo che tipo di fiore avrebbe fatto, ma non sapevo precisamente le forme e i colori che avrebbe avuto. L’unica cosa che avevo teoricamente il potere di fare era interrompere io stesso quella cosa che si stava costruendo giorno dopo giorno. Se l’avessi fatto avrei certo posto fine all’attesa, perché non ci sarebbe stato più nulla da attendere, ma avrei impedito l’avverarsi della bellezza di quel fiore. Distruggere è alla portata di tutti, creare no.

Dobbiamo imparare la pazienza e il valore dell’attesa. Ogni minuto impiegato nel contemplare un progetto che si compie è un valore aggiunto all’avvenimento atteso. È facile impedire la bellezza, interrompere le attese, distruggere ciò che è in costruzione, ma farlo significa privarsi di un inestimabile valore. Cerchiamo di non anteporre la vita facile, con le sue scorciatoie distruttive, al valore della bellezza che ci attende. La nostra attesa sarà premiata.

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Il gioco degli isolotti

Da qualche mese, giusto per distrarmi dieci minuti dallo stress giornaliero, ho aperto un account su un gioco online che chiamo scherzosamente “il gioco degli isolotti”. Sostanzialmente il gioco permette di costruirsi la propria città con le proprie colonie sparse su vari isolotti ed amministrarne lo sviluppo investendo in settori come la ricerca, il commercio, la soddisfazione della popolazione, la cultura, la difesa etc. La tempistica del gioco è tale che può benissimo essere gestito accedendo una volta al giorno, quel tanto che serve per fare il punto della situazione e predisporre nuovi provvedimenti.

Pur essendo dislocati su degli isolotti non si è per nulla isolati. Altri giocatori hanno le loro città sparse tutto intorno e l’interazione con loro può essere di molti tipi: si può fare del commercio scambiandosi risorse; ci si può scambiare beni culturali da introdurre nei rispettivi musei; si può essere amici, condividendo i risultati delle ricerche etc.
Purtroppo esiste anche un altro modo di interagire, ossia la guerra. Ieri notte la mia città è stata attaccata da un altro giocatore: ho perso 43 uomini ma alla fine l’attaccante si è dovuto ritirare perché non gli erano rimasti più soldati.

Quando il giorno dopo ho scoperto l’accaduto avrei potuto seguire l’istinto  e rispondere mandando il mio esercito all’attacco contro quel fellone per fargliela pagare. Aprii invece il pannello della diplomazia e gli scrissi un messaggio: «Mi spiace che tu abbia perso i tuoi soldati. Se ti va possiamo essere amici». Quella proposta sconvolse non poco quel giocatore: abituato com’era ad un modo di giocare dove vinceva il più forte e il più furbo non si aspettava certo una reazione del genere. Successivamente gli spiegai che la mia politica era il commercio e l’amicizia, mai la guerra se non per difesa.
Ora siamo amici e ritengo improbabile che mi attacchi ancora ma spero che questa vicenda abbia cambiato il suo sguardo verso gli altri giocatori: vederli non più come città da saccheggiare ma come persone vere – e fragili – che si trovano dall’altra parte dello schermo.

Lascio trarre al lettore la morale di questa storia. Per quanto mi riguarda, spero che questa vicenda si ripeta anche e soprattutto al di là del gioco.

Ikariam

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