L’assistente

L’altro ieri mi trovo all’aeroporto della mia città per l’ennesima trasferta di lavoro. Passati i controlli di sicurezza, mi metto a sedere vicino al mio gate in attesa dell’apertura.
Da una porta alla mia destra vedo uscire un addetto dell’aeroporto che spinge la sedia a rotelle di un anziano signore. Mentre mi passano davanti sento l’addetto parlare con il suo assistito:

«Qu…Qu…Quan…nn…ndo è pro…pro…prooon…nn…to m…mi chi…chi…chiam…mm….ma»

Il poveretto aveva una fortissima balbuzie e sforzava il suo viso con mille smorfie prima di riuscire a comunicare. Nel frattempo spingeva la carrozzella scomparendo fra la folla della grande sala di imbarco.

È stato proprio mentre osservavo questa scena che ho riscoperto un concetto importante. Certe volte ci viene difficile aiutare qualcuno perché ne abbiamo scarsa empatia, non riusciamo a comprendere la sua condizione, non conosciamo le difficoltà che deve affrontare. Quando però siamo noi ad avere – momentaneamente o permanentemente – qualche problema, in un modo o nell’altro, ci rendiamo conto del nostro vero valore e ci ridimensioniamo, scoprendo chi sta peggio di noi. A volte serve una bella spinta per scendere da quel piedistallo che ci fa sentire tanto alti da non dover fare caso a chi sta sotto.

Sedia a rotelle

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Fiori all’ultravioletto

Per certi versi gli insetti ci vedono meglio di noi e i fiori lo sanno. Anche qualche fotografo di frontiera lo sa, perché ha avuto l’intuizione di utilizzare un apposito filtro – e un apposita camera – che gli consentano di vedere ciò che usualmente non può essere visto. Ecco che così un fiore qualunque, uniformemente giallo, mostra un disegno occulto, un’informazione supplementare prima impossibile da vedere.

Quanto ci fidiamo dei nostri sensi, dei nostri occhi, dei nostri strumenti? La parte dell’universo attualmente misurabile, dimostrabile, confutabile, documentabile non è che una minima parte dell’intero cosmo – senza neanche voler ipotizzare che vi possa essere qualcosa di non appartenente alla nostra idea stessa di cosmo…
Ciò che vediamo non è che un minuscolo sottoinsieme di ciò che esiste. Come possiamo pretendere di avere certezza su qualcosa al di là della nostra portata? Di quel fiore giallo posso dire di vedere solo quel suo colore ma non posso pretendere che in quei petali vi sia soltanto ciò che vedo.

Fiore ultravioletto

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Piacevole pulizia

Io, come immagino tante altre persone, a conclusione di una pesante giornata dedico un po’ del tempo residuo ad alcune attività di pulizia personale. L’igiene è sicuramente un’attività dai molteplici vantaggi: evita sgradevoli odori; allontana malattie ed inquinanti; idrata la pelle. A questi possiamo anche aggiungere che si tratta di un’attività che dà un certo sollievo, sia perché sentirsi puliti è meglio di sentirsi sporchi, sia perché nel lavarsi ci si massaggia, ci si cura di sé. In particolare, lo strofinio tra le dita dei piedi lo trovo particolarmente piacevole.  Si potrebbe dire che l’attività del lavarsi unisce l’utile al dilettevole.

Attenzione agli eccessi però. Lo scopo delle operazioni di pulizia è l’igiene e l’effetto di essere piacevole è solo “collaterale” ma, nel momento in cui il peso fra le due finalità viene ad invertirsi ecco che insistiamo, eccedendo nell’attrito. Ricordo bene diverse volte nelle quali il sollievo da un prurito si è trsformato in una grattatina un po’ eccessiva. Estremizzando, ci si può pure ferire a rincorrere solo la sensazione percepita e non la finalità di un gesto.

Ecco, la bontà delle nostre azioni non si misura con il piacere – non importa se dato a noi stessi o a qualcun altro – ma in base alle loro finalità: se effettivamente producono bellezza o se invece si trattano di “estremizzazioni”. Mai accantonare la ragionevolezza, è lo strumento più efficace che abbiamo per individuare i pericolosi eccessi.

Doccia Psicho

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Lo scoglio addobbato

Chi usa immergersi con la maschera, nuotando fra gli scogli, sa che talvolta si può incontrare qualche roccia “addobbata” come fosse un albero di natale. Non è la mania di qualche burlone filo-natalizio né uno scherzo della natura: si tratta di esche finte.
I pescatori lanciano le loro esche colorate – e costosissime – fra gli scogli perché hanno maggiore probabilità di pescare qualche pesce ricercato. Il rovescio della medaglia è che capita sovente di incastrare l’amo nelle irregolarità di qualche roccia del fondale; magari lo stesso sasso dove tutti i pescatori che frequentano quel luogo commettono lo stesso errore. Quando capita, al pescatore non resta che tagliare il filo e procurarsi un’altra esca.

Pur non avendo mai pescato neanche una sardina in tutta la mia vita, ho una collezione di ami, esche e pezzetti di filo – tra gli scogli c’era anche un piccolo pesciolino di gomma, chissà quanto sarà costato all’incauto pescatore…
Il pescatore che ha esperienza sa dove lanciare l’esca e come tirare il mulinello per evitare di perderla su qualche scoglio. Se tiene alla sua esca è disposto a tuffarsi per recuperarla. L’esperienza ed il senso del valore non crescono però sugli alberi.

Forse quello scoglio “addobbato” è proprio lì per insegnare qualcosa: c’è chi dell’errore fa tesoro, ascolta la voce di chi ha più esperienza ed impara il valore di ciò che rischia; c’è però chi vuole vivere sereno, abbassa mentalmente e di proposito il valore dell’esca cosicché, anche lasciandola sistematicamente sullo scoglio, possa raccontarsi di non aver perso nulla di valore. Purtroppo i valori della vita sono ben più preziosi di qualche costosa esca e non dovrebbero essere barattati per una vita apparentemente senza pensieri.

Esca finta

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Perché

Quando utilizzato in qualità di congiunzione subordinante causale, ha la funzione di legare una proposizione alla successiva, la quale ne specifica cause, spiegazioni, motivazioni.

Se mi fermo alla prima proposizione e non ho la pazienza di leggere il resto della frase – ciò che si trova oltre il “perché” - non solo mi resterà il dubbio sui moventi e sulle spiegazioni, ma cercherò anche di costruirmi “le mie” spiegazioni, tanto più distanti dalla realtà quanti più pregiudizi sono alla base del mio pensiero. Soprattutto se sto ascoltando/leggendo il ragionamento di una persona che ho sempre visto come “nemica”, sono capace di non polemizzare fraintendendo la prima parte della frase? Ho l’umiltà e la pazienza di valutare il ragionamento altrui solo dopo averlo ascoltato tutto e, soprattutto, compreso?

Come possiamo pretendere di avere ragione sulla nostra interpretazione di qualcosa se ci siamo fermati all’apparenza?
Per una persona sveglia e curiosa è naturale chiedersi “il perché” delle cose ma, se questa attività è viziata nella forma o nelle intenzioni, penalizza lo spirito di osservazione e le risposte saranno sbagliate: spesso essere critici e avventati, spezzettando sottilmente i ragionamenti altrui, non permette di comprendere e riflettere ma conduce a sterili ed infinite discussioni.
Punto interrogativo

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Storie di sacchetti e di scatole

Verso le sei del pomeriggio arriva una donna esile, quasi tremolante, dai movimenti lenti e ponderati come se ogni azione significasse un enorme sforzo per l’organismo. Sulla testa un foulard dal quale non sporgeva neanche un capello, anzi, era indossato in quel modo tipico di chi vuole nascondere la traccia più evidente della sua terribile malattia.
Si avvicina spingendo il carrello quasi vuoto. Nella tremolante mano destra un sacchetto giallo annodato. Lo allunga verso il volontario; prende il biglietto di ringraziamento e poi torna a spingere il carrello verso l’uscita. Oltrepassata la zona dell’ingresso, ingombrata dagli scatoloni, la donna si mette da parte a controllare lo scontrino minuziosamente: non devono esserci errori; lei non può permettersi errori. Mentre accade questo il mondo è fermo per quel volontario, immobile con ancora quel sacchetto fra le mani, a commuoversi per quanto stava osservando.

Un’ora dopo un’altra donna giunge nella zona dell’ingresso. Cammina veloce, ben vestita, sguardo alto o – per meglio dire – altezzoso. Il suo sguardo non si permette di incrociare quello del volontario e sfreccia oltre, quasi con stizza. Oltrepassato l’ingresso, dove il suo volto non può più essere visto da nessuno dei volontari, esclama: «Tanto se le tengono» (alludendo alle varie buste gialle da loro ricevute). La coscienza raramente la si prende in giro e per le cose cattive consiglia vergogna (e quella esclamazione tanto ricorda la favola “La volpe e l’uva” di Fedro).

Arriva il camion per ritirare le donazioni. L’autista scende con un carrellino sapendo che dovrà trasportare centinaia di chili dividendoli in più viaggi.
Accade però un imprevisto: i ragazzi si chiamano fra loro; spontaneamente formano una catena e si passano gli scatoloni l’un l’altro. In un attimo il camion è pieno.

Per queste scene realmente avvenute è superflua ogni ulteriore meditazione: ciascuno può trarre le dovute conclusioni senza aiuti.

Busta gialla

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Interpolazioni

Circa quattro anni fa durante una lezione di “Fisica nucleare con sonde elettromagnetiche” il docente mostrò agli studenti un grafico estratto da un articolo scientifico. Nel grafico stavano, evidentemente disposti su una retta, i dati sperimentali che quegli autori avevano raccolto.

Retta

I ricercatori, osservando i dati sperimentali, conclusero che la legge che legava le due quantità sugli assi era di tipo lineare.

y = 0.7·x – 5

Qualche tempo dopo questo esperimento la tecnologia fece alcuni passi avanti e fu possibile estendere le misure al di là dei  limiti precedenti. Con grande sorpresa si scoprì che i dati sperimentali, in realtà, non ne volevano proprio sapere di stare su una retta:

Saturazione

Quindi la legge che univa le due quantità sugli assi non era per niente lineare, ma era un cosiddetto “gradino smussato”. I punti misurati nel primo esperimento continuavano a stare (correttamente) sulla curva, ma la conclusione dedotta a partire da una limitata conoscenza della realtà era sbagliata.

Sono poche le cose che l’umanità conosce in modo esteso: più ci si spinge nell’infinitamente piccolo o nell’infinitamente grande, più si va idietro o avanti nel tempo, più ci si spinge verso le bassissime energie o altissime energie e meno ne sappiamo. Il ricercatore onesto sa che può pronunciarsi solo su ciò che conosce e limitarsi a formulare discutibilissime ipotesi per quanto riguarda tutto il resto; e questo “tutto il resto” e enormemente grande e altrettanto oscuro.
Spesso le ipotesi e le teorie degli scienziati si trasformano in verità assolute quando passano nella bocca dell’uomo comune, con la conseguenza che ci si ritrova a litigare su cose delle quali non si conosce nulla. Stiamo attenti a come interpoliamo la realtà: corriamo il rischio di fare clamorosi errori.

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Castagne

Le hai volute le castagne, giusto? Sei voluto andare a raccogliere le castagne per averne un bel po’ a costo zero o no? Ti sei voluto riempire quel sacco con più castagne che potevi, no?

Ora prendi quel pesantissimo sacco e te lo trascini fino a casa.

Gli antichi, quando formulavano detti popolari, raramente sbagliavano: togliamoci il vizio di desiderare la botte piena e la moglie ubriaca. Ogni azione ha una conseguenza; ogni beneficio comporta dei sacrifici e, quando ciò non si verifica, c’è dietro il “trucco”: disonestà, prevaricazione, superficialità.
Oh… Ma questo non significa che la vita sia una costrizione o un continuo sacrificio per ottenere della felicità: quando si mette in conto ogni cosa, quando si comprende che la vita contiene sia il buon sapore delle caldarroste sia il loro peso nella bisaccia, non si può fare a meno di esserne grati, felici, soddisfatti. In tal caso anche il sacrificio diventa qualcosa da fare con piacere.

Castagne

P.S. Se la vogliamo dire tutta… Quand’ero bambino il mio babbo mi educava all’iniziativa nel mondo degli adulti dicendomi: «Nessuno ti da nulla in cambio di nulla» – che in un mondo di affaristi prevaricatori può anche esser vero ma che ho verificato non esser vero sempre, perché qualcosa (anzi molto) di completamente gratuito c’è. Basta guardarsi intorno.

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L’olio di Lorenzo

Un film che mi ha fatto molto riflettere per il suo alto contenuto di valori, la storia vera di Augusto e Michaela Odone e del loro figlio Lorenzo. All’età di cinque anni a Lorenzo viene diagnosticata l’adrenoleucodistrofia, malattia rara, dolorosa e mortale per la quale non esistevano cure. Mentre la malattia del bambino progredisce paralizzandolo e sottoponendolo a tormenti che egli sopporta eroicamente, Augusto e Michaela non si danno per vinti.

Una mamma ed un papà che conoscevano poco o nulla della medicina e della biochimica ma che, con una forza che definirei “sovrumana”, hanno affrontato di petto la situazione studiando ogni articolo scientifico che, anche marginalmente, poteva essere correlato alla malattia del figlio. Dopo aver addirittura organizzato il primo simposio internazionale sull’adrenoleucodistrofia, nonostante lo scetticismo e la reticenza dell’ortodossia accademica degli scienziati, gli Odone hanno sviluppato “l’olio di Lorenzo“, una mistura di acidi grassi che inibisce l’agente dannoso nella malattia (non ripara i danni ma ne evita di nuovi).

Si possono fare diverse riflessioni su questa storia.
A volte noi scienziati non ci mostriamo abbastanza aperti alla realtà mostrando, come prima reazione, uno scetticismo che si basa su un’eccessiva e mal riposta fiducia sulle sole conoscenze accademiche “certificate”. Anche chi non è scienziato si lascia andare, in alcuni casi, a questo genere di resistenza ma, come si apprende da questa storia, dare una minima occasione alla novità non è solo onesto ma è anche proficuo per tutti.
Nel film alcuni genitori esasperati si oppongono agli Odone perché ritengono più opportuno accelerare la morte del figlio per “porre fine alle sue sofferenze”. Inutile ribadire quale dei due atteggiamenti abbia effettivamente prodotto un grande beneficio per la collettività. Significative le parole di disprezzo scaturite dalla bocca di una stanca infermiera riferendosi allo stato di coscienza di Lorenzo: “non c’è nessuno in casa”. Lorenzo è morto all’età di 30 anni (molto più di quanto prospettato da un decorso non ostacolato della malattia) cosciente ed in grado di comunicare con le dita e gli occhi.
Ultimo ma non meno importante il coraggio e la combattività, di Lorenzo per primo e dei suoi genitori dopo. Il dramma, il male della malattia non sono l’ultima parola: questa storia è un caso notevole di una disgrazia che alla fine conduce a qualcosa di grande. Ascoltando i racconti di chi vive drammi simili si può intravedere la stessa carica di senso e di coraggio, la volontà e la forza di trasformare un dramma in un motivo di vita e di speranza.

L'olio di Lorenzo

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Una questione di copyright

Decenni e decenni fa, un giovane scrittore avveniristico e con lo sguardo che andava lontano utilizzò il computer della sua università per salvare su nastro il suo miglior racconto. Non ne esisteva copia cartacea, lo scopo pionieristico dell’intera faccenda era proprio quella di un uso esclusivo delle nuove tecnologie per poterci scrivere su la tesi del proprio dottorato.
Terminati gli studi, il nostro scrittore andò a lavorare altrove e il racconto da lui scritto rimase negli archivi dell’università.

Dopo qualche anno la tecnologia era cambiata. Ora c’erano i floppy e i computers erano molto più piccoli quindi l’università decise di trasferire il suo archivio su un supporto più moderno. Anche il racconto del nostro scrittore fu convertito in un nuovo file e salvato su un floppy. Nel frattempo i nastri originali erano stati gettati via perché non facenti parte di quei pochi che furono inviati al museo della tecnologia.
Passati altri anni, un tesista che faceva ricerche salvò una copia del file nel formato di word e, letto un racconto così bello, decise di distribuirne copie tra i suoi amici.

Accadde poco tempo dopo che il racconto fosse pubblicato e che finisse tra le mani di un quarantenne che aveva scritto un racconto su nastro. «Caspita! Il mio racconto!» esclamò l’uomo. Purtroppo per lui non rimaneva molto di tangibile riguardo a quei tempi di giovinezza e nulla poté certificare la paternità e la data di stesura dell’opera.

Quali tracce archeologiche lascia la scrittura di un libro? Se digito un testo su file qualcuno può fare un “cut and paste” su un nuovo file e alterare la data o cambiare l’autore. Come faccio a sapere quando un testo è stato scritto? Posso solo fare un confronto con altri testi che ne parlano, cercare testimonianze più “volatili” e meno tangibili, fidarmi di altri autori dell’epoca. Per molti testi che conosciamo la versione più antica pervenuta è posteriore alla loro scrittura: ad esempio i testi di Platone, scritti tra il 100 e il 44 a.C. ma giunti a noi in una copia del 900 d.C. (1000 anni dopo); oppure l’Iliade di Omero, redatta nel 1100 a.C. ma pervenutaci in una copia del 400 a.C. (700 anni dopo).
Molte di queste opere sarebbero andate perdute se nessuno le avesse pazientemente ricopiate, ma il fatto che fra le mani abbiamo solo una copia non falsifica certo l’autore originale. Si tratta di applicare un po’ di buon senso e di comprendere che quando mancano le prove si dovrebbe ammettere di non sapere, piuttosto che imporre una propria teoria.

Floppy

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